In occasione dell’uscita di un oggetto dal fascino obsoleto come un’antologia musicale pubblicata in doppio vinile “rosso sangue” e CD, abbiamo raggiunto nella sua New York Martin Rev, tastierista e regista musicale dei Suicide. A 45 anni dal folgorante esordio discografico datato 1977, Rev rimane solitario testimone del duo composto assieme al visual artist e cantante Alan Vega, morto nel luglio 2016.
Con le loro performance situazioniste, violente e disturbanti, antitetiche a ogni format di live classico, i Suicide sono stati diretti ispiratori del movimento no wave. E fra i primi in assoluto ad accostare i termini “punk” e “music in un annuncio del 1970 per promuovere il loro primo show nella galleria d’arte OK Harris di SoHo. La loro musica radicale, a tratti psicotica, imbottita di nostalgie rock’n’roll ma spalancata, con l’impiego di drum machine e tastiere di seconda mano, su scenari futuristici travalicò ogni etichetta. E abbatté il muro che separava l’integralismo del primo punk dalle aperture a diversi stili della new wave.
L’esempio più memorabile di questo sound espressionista è Frankie Teardrop, il manifesto sonoro dei Suicide che uscì sul loro omonimo esordio del 1977. Un monolite industrial-noise che si dipana in linea retta per oltre dieci minuti fra beat martellanti e suoni sintetici, confezionati dallo “strumento” di Rev – è questo il suo nick: The Instrument – in origine un Farfisa raffazzonato e una drum machine analogica Seeburg Rhythm Prince, collegati a pedali e radio transistor. Il racconto scioccante di un terribile fatto di sangue nel contesto della classe operaia, recitato, con effetti delay, da Vega/Elvis delle Tenebre suscita una profonda impressione in chi ascolta.
Non è un caso che, col debutto, i Suicide abbiano influenzato nel corso degli anni artisti di ogni genere ed età. I supporter famosi del duo potrebbero costituire una line-up da sogno: MGMT, Nick Cave, Depeche Mode, Bruce Springsteen (vedere alla voce Nebraska/State Trooper), autore anche di due cover differenti di Dream Baby Dream, Jesus and Mary Chain, M.I.A., LCD Soundsystem, Soft Cell, Peaches, Primal Scream, Horrors, Spiritualized, Spacemen 3, i Cars di Ric Ocasek, che con i Suicide ha collaborato a lungo, Lydia Lunch, fan devota della prima ora e Henry Rollins che ha curato la nuova antologia Surrender: A Collection assieme a Rev e alla vedova di Alan Vega, Liz Lamere.
In collegamento Zoom, Martin Rev tiene le tendine abbassate, nonostante a Manhattan siano le 3 e mezza del pomeriggio. Con i suoi inseparabili occhiali da sole fascianti, a visiera, sembra più uno sciatore che un rocker, sdraiato su un divanetto davanti a una stampate solitaria e sotto a un scaffale pieno di DVD affastellati. L’uomo, che a dicembre compirà 75 anni, è avvolto nell’alone sfigurante di una luce sul fondo.
I tuoi occhiali sono un’icona dei Suicide, al pari della copertina del primo album. È vanità?
Direi di no. Mi sono serviti anche per crearmi, come dire, la mia piccola isola (ride).
E per ripararti dal caos durante i concerti?
Ero sempre concentrato sul sound e sul ritmo ma ogni tanto, dipendeva dove e quando – soprattutto nella prima parte della nostra carriera – pioveva di tutto sul palco. Monetine, bottiglie di vetro ogni tanto le vedevo arrivare. Ogni tanto invece non le vedevo ma le sentivo. Per fortuna non è sempre stato così tremendo.
Era il 1977…
Eravamo nell’epicentro del punk, giorni di gloria, e suonavamo con gente come i Clash, Elvis Costello o i Cars di Ric Ocasek. Per alcuni del pubblico lanciare oggetti ai loro beniamini era un segno di affetto. Non era il nostro caso, soprattutto in certe date, dove eravamo il gruppo spalla.
Se non eravate headliner, a quanto pare, accadeva il finimondo.
Vero. E a quel tempo il pubblico faceva parte dello spettacolo e ne era consapevole: influenzava ed era a sua volta influenzato dal movimento punk. Il lancio di oggetti faceva parte di questa circolarità fra band e spettatori.
Durante il famigerato concerto a Glasgow come spalla dei Clash nel 1978, Alan era furioso perché un’ascia gli aveva sfiorato la testa. In nessun resoconto della serata si chiarisce davvero cos’è successo. Tu l’hai vista?
No, per mia fortuna non me sono accorto (sorride). Alla fine del nostro set è stata ritrovata dal personale tecnico che doveva allestire il palco dei Clash. Era sulla pedana della batteria, infilzata nella grancassa.
Un bel segno di affetto…
Guarda che anche le monete a quel tempo facevano davvero male. Erano più grandi e pesanti di quelle odierne e non c’erano le leggi che impongono al pubblico di usare bicchieri di carta, i controlli che fanno oggi nei club. Io ricordo davvero “tempeste” di bottiglie, bicchieri di vetro, per non parlare degli sputi: era il regno della devastazione.
Un giovane Thurston Moore scrisse una recensione di un vostro concerto, accusando Alan di aver preso per i capelli una donna del pubblico. Lui ha sempre negato, tu cosa ricordi?
Sono onesto a proposito: la risposta è sì e no. Voglio dire: è possibile che sia successo. Magari non quella sera specifica. Abbiamo fatto migliaia di concerti. Alan fomentava il pubblico di proposito, come forma d’arte, ispirato dal sound che producevamo. Li voleva coinvolgere. Voleva rompere la barriera che separa il pubblico dall’artista. Si mescolava con loro, li provocava e a sua volta veniva provocato. Era una sua scelta personale.
Ma l’aggressione c’è stata?
Se parliamo di aver tirato i capelli a questa ragazza è ben possibile che sia successo. Oppure non l’ha fatto fisicamente, ma potrebbe averle trasmesso una sensazione di aggressività e paura. A quei tempi la gente non conosceva le nostre performance, s’intimoriva. Vedeva Alan salire sul palco con delle catene e se ne andava spaventata.
È vero che nei primi anni dei Suicide giravi con una spranga di ferro?
(Ride) Be’, sì, ogni tanto. Diciamo non sempre.
Lo facevi per incutere paura o per difenderti?
Nessuna delle due. Era una cosa da vita da strada. A quei tempi vivevamo in modo estremo. Poi girava ogni tipo di droga. C’erano le gang e, anche se non erano più le gang di qualche anno prima, noi ci si adattava un po’. Un tempo i teenager in strada afferravano un bastone e gridavano: «come il Duca di Earl!». Hai mai sentito la canzone Duke of Earl? Du-du-du du-ke of E-e-e-arl (si mette a canticchiare, nda).
Hai mai il rimpianto di aver lasciato il jazz per il rock?
No, perché non ho mai pensato a una rigida suddivisione fra i generi. Da ragazzino sono cresciuto con il rock’n’roll. Il jazz è stato il percorso naturale che mi ha permesso di sviluppare e improvvisare il sound che nasceva da quell’ardore giovanile con arrangiamenti diversi. Ancora oggi il jazz influenza non tanto il mio modo di suonare ma il mio pensiero musicale in termini di armonia, di sperimentazione. È un incentivo a immaginare oltre i confini.
Alan Vega è mancato poco primo dell’avvento di Donald Trump. Di recente hai dichiarato che non eri molto convinto della copertina di American Supreme, ispirato ai tragici eventi dell’11 settembre, con la bandiera a stelle e strisce in bianco e nero.
Era una scelta estetica descrittiva. Ovvia, se vogliamo, con un titolo così. L’hanno proposto dagli uffici della Mute. Io speravo onestamente che avremmo preso in considerazione altre idee. Era di certo un modo atipico di rappresentare la bandiera americana: senza colori, in bianco e nero. Appare come nel mezzo di una tempesta o dopo una bomba che è esplosa in una guerra. Un messaggio a suo modo forte che voleva emulare quello di un titolo ambiguo.
Liz Lamere ha detto che quel titolo era patriottico e per nulla sarcastico.
Era un titolo illusorio che non va preso alla lettera. American Supreme era più che altro un commento su quello che stava succedendo fra l’America e il resto del mondo dopo l’11 settembre. In realtà non ho proposto vere alternative sul concept e sul design e ho fatto poco per esser coinvolto. Per tutti era la cosa più figa del mondo e per me non lo era.
Prima di esplodere come fenomeno artistico avete dovuto stringere i denti per sei anni. La cosa che più colpisce della vostra storia è la vostra resilienza, come piace dire oggi.
È tutta la vita che resisto come artista. La musica è stata la mia vocazione, il mio unico desiderio, la mia ossessione da quando ho compiuto 11 anni. I Suicide sono stati l’estensione fisica di questo mio impegno morale.
Anni peraltro durissimi dal punto di vista economico e sociale. Alla fine del 1975, chiusa la pagina del Vietnam che come molti radicali avevate duramente contestato, New York era quasi al tracollo finanziario.
Quello è stato il punto più basso dell’economia di New York, finanziariamente era declassata. La città era degradata anche se non è mai stata decadente. Eravamo in un limbo, dove le ultime sperimentazioni risalivano agli anni ’60 degli innovatori del rock e del jazz, e il rock sembrava aver esaurito la sua vena dirompente.
E anche la generazione che aveva vissuto Woodstock perdeva punti di riferimento.
Erano soffocati dall’interno, dai crimini e dagli omicidi, che sfaldarono la flower generation. E magari furono escogitati da qualcuno per fermare questo movimento che in sé era molto positivo per la società americana e aveva enormi diramazioni politiche. Si scoprì dopo che John Lennon era finito sulla lista nera dei nemici: i grandi sognatori e pacifisti.
Il vostro nome, Suicide, rispecchiava questo cambiamento radicale nella società, ed è stato molto ostracizzato.
Lo è ancora in certi ambienti… ma riflette ancora oggi molto bene il mondo in cui viviamo.
Fu una scelta provocatoria?
È interessante perché non l’abbiamo assolutamente pianificato a tavolino. Come molte cose della vita, semplicemente accadono.
E com’è andata? Raccontaci.
La notte prima di decidere come chiamarci, Alan e io siamo usciti con un amico, Howie Wolper (colui che fece scoprire gli Stooges ad Alan Vega, nda). Eravamo a Central Park e la sera successiva dovevamo suonare il nostro primo, secondo o terzo concerto. «Ragazzi, dobbiamo trovare un nome». Ce ne vennero in mente un migliaio, uno più divertente dell’altro, ridevamo come pazzi. Alla fine tornammo a casa come tre isterici, senza nulla sul tavolo. Era diventata una situazione veramente comica.
E il giorno dopo?
Eravamo al Project of Living Artist, dove Alan lavorava. E c’era la solita gente che si ritrovava. Alan stava leggendo un fumetto intitolato Satan Suicide, forse una storia su un numero di Ghost Rider (il primo numero di dell’antieroe della Marvel è datato agosto 1972, nda). Allora si mise a dire ad alta voce: «Be’, forse questo potrebbe essere il nome di una band: Satan Suicide!» e qualcuno che stava seduto dall’altra parte sul pavimento, magari un po’ fatto gli disse: «No, non chiamarlo Satan Suicide, solo Suicide». Ecco chi ha inventato il nome.
L’uomo strafatto sul pavimento…
Il giorno dopo Alan venne da me e mi disse: che ne pensi di chiamarci Suicide? E io risposi: bingo! Era sicuramente meglio di Marty and The Maniacs, Cool P Into This o Nasty Cut & The Band-Aids, tutta roba che non aveva la stessa semplice energia. Solo dopo che abbiamo deciso ho iniziato a farci delle congetture e ho scoperto che Suicide può avere mille valenze, anche positive.
Tipo?
Per esempio nella vita di un artista non significa uccidersi ma affrontare una missione suicida. Per ottenere quello che vuoi, perché artista, farai l’impossibile, andrai controcorrente, contro il mainstream.
C’era anche una riflessione politica?
Diciamo che nelle nostre idee era implicita una critica sociale. Dove ci stava portando la classe dirigente? La riflessione era soprattutto incentrata sulla guerra in Vietnam. Ma i Suicide come gruppo rock erano più dei ghost riders. Due ragazzi sulle loro motociclette che sfrecciavano contro il sistema. Contro chi ci diceva che non l’avremmo mai fatta.
Alla fine non è andata malaccio…
Sono stato molto fortunato, devo ringraziare le cher Dieu, le bon Dieu.