Non mi era mai capitato di intervistare qualcuno che stesse guidando. Né avrei pensato che qualcuno potesse rispondermi, fumare una sigaretta, guidare e guardare in camera allo stesso tempo. Ma finora non avevo ancora avuto il piacere di parlare con Matthew “Matty” Healy, il leader dei 1975, una delle band più seguite e amate del pianeta. Healy è un personaggio piuttosto inusuale. Il suo aspetto sempre vagamente e splendidamente trasandato e la sua lunga battaglia con la dipendenza da eroina (che racconta apertamente nei suoi testi) sembrano più i tratti di una rockstar degli anni ’70 che quelli di un millennial intellettuale che ama scrivere testi pieni di black humour e citazioni woke. Healy è anche celebre per le sue provocazioni social tanto che, durante le proteste del Black Lives Matter, è stato “cancellato” per un tweet, come racconta lui stesso – a metà tra il divertito e il sorpreso – nel brano di apertura del nuovo disco della band.
Being Funny in a Foreign Language, il quinto album in studio dei 1975, vedrà la luce il 14 ottobre. Nonostante il solito titolo ironico, è forse il primo lavoro davvero adulto della band. Abbandonato il desiderio (almeno per questa volta) di essere incredibilmente contemporanei, i 1975 si sono finalmente aperti ai grandi temi universali permettendosi di fare due cose da “vecchi millennial”: suonare gli strumenti ed essere sentimentali.
Non aspettatevi però un disco monocorde, Being Funny in a Foreign Language è – come da discografia della band – una giostra di generi molto differenti tra loro, dal super-pop di I’m in Love With You ai tratti cinematici di Part of the Band, dai richiami agli LCD Soundsystem di The 1975 alla ballatona strappatutto All I Need to Hear. Il tratto comune è il filtro con cui queste canzoni vengono scritte, una sorta di serie tv sulla rocambolesca vita personale di Healy.
Dopo una serie di album molto lunghi e sfaccettati, ritornate con un lavoro abbastanza conciso, oserei dire corto per i vostri standard, ma che comunque ha al suo interno molte anime sonore. Come nasce questa scelta?
Il motivo per cui i nostri dischi suonato così diversi è solo una: la noia. Non è che impazziamo mentre ci lavoriamo, e che ci annoiamo facilmente. Quando abbiamo iniziato questo disco eravamo in una sorta di crisi creativa. Sai, siamo una band che suona assieme da vent’anni, abbiamo iniziato che ne avevamo 13: ora è arrivato il momento di porci delle domande esistenziali: chi sono i 1975?
E che risposta vi siete dati?
I 1975 sono le nostre canzoni, questo perché a noi di definirci in un genere non ci interessa. La cosa più radical che abbiamo fatto non è stata far un certo tipo di musica, ma suonare assieme per vent’anni, con la stessa line-up, ed essere ancora rivelanti. Questo è radical. Non è una cosa che succede spesso, soprattutto ora. E ora per noi è radical andare in una stanza assieme, con gli strumenti, e suonare le nostre canzoni, semplicemente e senza troppa produzione. Dopo anni passati a lavorare molto col computer, tornare agli strumenti può far paura, per questo lo abbiamo scelto.
Immagino quindi sia cambiato il processo con cui avete scritto Being Funny in a Foreign Language, giusto?
Il disco è stato scritto in un paio di anni tra il 2020 e il 2021. A volte ci trovavamo solo io e George (Daniel), altre invece tutti assieme. È stato però difficile trovare una quadra, capire cosa volevamo fare. Siamo entrati in studio solo quando le canzoni erano definitivamente pronte e lì ci siamo potuti concentrare esclusivamente sulla performance. Ci sono brani molto differenti, alcuni sono dance altri più folk, ma son tutte canzoni che puoi suonare con la chitarra. Era importante questo, che fossero brani capaci di funzionare anche nella loro forma più semplice.
Per la prima volta avete coinvolto anche un produttore esterno. Avete iniziato con BJ Burton (Bon Iver, Charli XCX, Taylor Swift, Alicia Keys), ma avete poi optato per Jack Antonoff (Taylor Swift, Lorde, St. Vincent, Lana Del Rey, Florence and the Machine). Come mai questa scelta? Cosa vi ha spinto a preferire il secondo?
Sai, a trent’anni è difficile farsi nuovi amici, non è come quando ne hai venti. Però quelli che ti fai a quest’età sono amici veri. E così è successo con BJ Burton. Amo BJ, è un produttore formidabile, i suoi lavori parlano per lui. Però in studio non ha funzionato. Solitamente non chiamiamo produttori esterni proprio perché a quella parte ci pensiamo io e George. Con BJ ci siamo trovati ad essere tre sound designer per un disco che non aveva quello come punto focale. Così abbiamo capito che volevamo fare un disco più suonato e ho pensato a Jack Antonoff che è bravissimo a registrare le band dal vivo. Con lui ha funzionato, ha colmato una lacuna che io e George avevamo.
Vorrei tornare su un punto fondamentale della vostra carriera: la varietà sonora. Sin dal vostro primo album è stato impossibile definirvi con un genere. Da dove nasce questa esigenza di esprimervi in così tante differenti forme?
Vorrei farti un esempio con qualcosa di italiano, tipo la pasta, ma ho paura di dire una cazzata, quindi prendo questa via: se sei bravo a far le torte, magari sei anche bravo a cucinare una bistecca. Io penso che creativamente funzioni così. Se comprendi la cultura delle cose, puoi tutto. Son cresciuto con MTV negli anni ’90 dove i brani dei generi più disparati si susseguivano tra loro senza logica. Non sono cresciuto focalizzandomi su di un genere specifico, apprezzo qualsiasi brano con una bella melodia. Per questo disco volevamo essere i 1975, finora avevamo trascurato chi davvero fossimo; nei prossimi lavori possiamo pure impazzire e fare tutto l’opposto.
In passato per parlare di voi ho usato questa immagine: i 1975 sono quell’amico, e coetaneo millennial, che prova a spiegarti la Gen Z. Come se la tua scrittura, ma anche questo ADHD che pervade le vostre scelte musicali, fossero un ponte tra queste due generazioni.
Ora mi sento a mio agio con quest’età. Negli anni ’90 tutte le persone cool avevano l’età che ho io adesso (33 anni, ndr), ora invece le persone fighe hanno settant’anni. I dischi precedenti erano contraddistinti da un bellissimo nichilismo fatto di individualismo, dipendenze, sesso, una cosa molto cool quando hai vent’anni, poi si cresce e questo viene sostituito da altri pensieri, idee meno sexy, che coinvolgono responsabilità, famiglia e cose così. E forse in questo punto della vita si è un po’ più universali.
Questo disco inoltre mi pare meno sul pezzo, meno sul trend, preferendo invece un approccio linguistico più universale.
Essere fan dei 1975 è come seguire una serie di cui ogni disco è una stagione. Il pubblico segue questa nostra narrativa, questo mio storytelling, che si evolve di album in album. Sono sempre io, che cresco, faccio, imparo. Dopo aver prediletto la scrittura di cose molto piccole, molto specifiche, ora sono in un periodo della vita in cui ho pensieri più universali. È stata una sfida provare a scrivere sui grandi temi della vita. Prima di oggi non avrei mai potuto scrivere un brano come I’m in Love With You, ma avrei optato per qualcosa come I’m NOT in Love With You, togliendo tutto il sentimentalismo. Ecco, in questo album mi sono permesso di essere sentimentale e scrivere cose che non avrei scritto come “dimmi che mi ami è l’unica cosa che voglio sentire”.
Being Funny in a Foreign Language è – più che mai – un disco sull’amore. Come pensi sia cambiato il tuo modo di parlarne in questi cinque dischi?
Quando scrivo un disco voglio scrivere tutto ciò che mi è successo, tutto ciò che sta succedendo e in qualche modo tutto ciò che potrebbe succedere da qui al prossimo. Quindi finora se dovevo scrivere d’amore, sentivo la necessità di scrivere del dolore dell’amore, della paura dell’amore, della perdita dell’amore. Ma per questo disco ho deciso che non doveva esserci passato e futuro, ma solo il presente. Questo ha reso la scrittura un filo più facile. Non dovevo scrivere un romanzo monumentale come Guerra e pace, ma una semplice polaroid.
Notes on a Conditional Form, il vostro disco precedente, ospitava Greta Thunberg e usciva in un momento in cui c’era una certa speranza verso il futuro, penso a movimenti di protesta, anche giovanili, come Fridays for Future. Poi la lunga pandemia, la guerra, Black Lives Matter e una serie di altri terribili eventi hanno ribaltato, in peggio, la situazione. Pensi ci sia ancora speranza? Tu hai ancora speranza?
A volte mi sento come un orchestrale del Titanic che suona mentre la nave affonda e l’unica cosa che posso fare è andare giù con tutta la nave e rendere gli ultimi momenti qui meno terribili. Spesso non mi sembra di poter aver alcun ruolo nel cambiare il mondo. Però, riflettendoci, molte generazioni di artisti hanno formato il proprio pensiero e la propria arte vivendo sul filo dell’apocalisse: penso a Bob Dylan durante la crisi dei missili di Cuba o agli artisti che hanno vissuto mentre JFK e Martin Luther King venivano assassinati. Probabilmente pensavamo fosse la fine, eppur siamo finiti ad aver un presidente afroamericano in America. Quello che voglio dire è che non sono pessimista, ma mi sono un po’ allontanato da ciò che non posso controllare.
Tipo i tuoi social?
Ho semplificato la mia vita sui social media. Ora mi limito a postare ciò che amo: musica e cose che mi fanno ridere. Voglio solo postare materiali dei 1975 e provare ad essere divertente, sperando di riuscirci ogni tanto. Ho smesso con la politica o tutti quei topic polemici.
Questo disco è sicuramente meno legato alla cultura internet rispetto ai precedenti. Dall’uscita di Notes on a Conditional Form tu hai cancellato il tuo profilo Twitter, su cui eri molto attivo, anche per via di una serie di contrasti. Being Funny in a Foreign Language, di conseguenza, mi suona molto più umano (e non solo nel brano auto-esplicativo Human Too). È un tentativo di tornare alla vita reale?
Assolutamente. Penso sia una chiara conseguenza del fatto che sto crescendo come persona. In tutte le cose si cresce, anche nel rapporto con i social media. Questo è ciò che mi è successo, sono cresciuto. Ciò che però molta gente non capisce è proprio questo: gli artisti crescono. C’è chi tiene un diario tutti i giorni, per tutta la vita; io non ci riesco, ma è da vent’anni che – tutti i giorni – faccio parte dei 1975. Non faccio musica perché voglio che la band cresca e diventi un progetto gigantesco, ma perché fare musica è quello che faccio.
Tu sei stato “cancellato”, un termine molto in voga che riprendi anche nell’album in due differenti occasioni, per aver postato un vostro brano che parlava di amore universale in un tuo post a favore dei BLM. Alcune persone l’hanno visto come un modo di sfruttare la causa con un gesto di auto-promozione. Pensi che la woke culture stia condizionando anche il modo di scrivere testi e canzoni?
Non mi interessa molto. Non credo tanto che abbia cambiato il modo di scrivere le canzoni, ma piuttosto che abbia cambiato cosa significhi essere di sinistra. Anche se non capisco bene cosa questo significhi. Il motivo per cui ho lasciato Twitter non è perché sono stato “cancellato”, ma perché lo trovo un luogo estremamente interessante. Non volevo più farne parte, ma scriverne. Così mi sono tolto da quella guerra mediatica per poterne parlare e fare battute senza essere tacciato di ipocrisia. Se fossi stato su Twitter in questi due anni questo sarebbe stato un album completamente differente.