«Uno sbandamento generale». Alla vigilia del festival La Mia Generazione, di cui è direttore artistico e che riporterà in scena il 10 e l’11 settembre alla Mole Vanvitelliana di Ancona, Mauro Ermanno Giovanardi descrive così questo complicato periodo storico. Dopo una lunga pausa, quest’estate la musica dal vivo è tornata a farsi sentire, ma chi conosce il settore a fondo non può far finta di non sapere che le capienze ridotte e i posti a sedere imposti dalle norme anti-Covid sono un problema serio per chi organizza concerti.
Sulla questione questa settimana è intervenuto Cosmo con una lettera pubblica al presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini e alla vicepresidente Elly Schlein; per quanto discutibile dal punto di vista del metodo, anche il concerto improvvisato da Salmo a Olbia in agosto ha puntato i riflettori – come sottolineato da Francesco De Gregori – su un tema controverso: per quanto tempo il settore dei live può resistere a queste condizioni? Ne abbiamo parlato con Giovanardi, classe 1962, raffinato interprete e cantautore, tra i protagonisti della scena indipendente anni ’90 con i La Crus e come co-fondatore dell’etichetta Vox Pop, ma anche ideatore di eventi e spettacoli all’insegna della contaminazione tra linguaggi.
Osservi uno sbandamento: che cosa intendi?
Non si capisce più un cazzo, ma una cosa è certa: a me questo periodo ricorda gli anni ’80. Ossia quel decennio segnato da una caduta di tutti quei valori per cui si era lottato fino a pochi anni prima: in un attimo è andato tutto allo sfascio, sono arrivati il craxismo, gli yuppies, l’inizio dell’era berlusconiana, e l’etica e l’ideologia nella sua accezione positiva, come insieme di ideali di uguaglianza e solidarietà, di verità e giustizia, sono andate a farsi fottere in nome del dio denaro. Ora sta accadendo la stessa cosa, vedo un crollo di valori, di ideali, di etica, e il risultato è che vale tutto. Per cui la gente è disorientata.
Da cosa lo percepisci? C’è anche chi ci sguazza, nel caos.
Basta leggere post e commenti su Facebook per rendersene conto, cosa che ogni tanto faccio perché sono un cantante mio malgrado, mi sarebbe piaciuto diventare un antropologo, amo analizzare i comportamenti delle masse. E mi sembra proprio che avesse ragione Umberto Eco, quando diceva che i social «danno diritto di parola a legioni di imbecilli». Perché un tempo le opinioni di chi non sapeva nulla di un argomento restavamo al bar, mentre adesso tutti parlano sentendosi esperti: esperti di politica, di medicina, di economia, di qualsiasi materia, a seconda di quale sia il dibattito del giorno. Ma è sufficiente interloquire un attimo per capire che la maggior parte di coloro che sono convinti – chissà perché – di avere la verità in tasca non sa di cosa sta parlando, non ha una cultura nemmeno generale. Allora perché quella supponenza nel sostenere una tesi anziché un’altra? Perché è diventato di moda prendere posizione in maniera superficiale su qualsiasi argomento, solo per partito preso, perché va di moda la lotta tra guelfi e ghibellini, lo scontro tra fazioni senza che ci sia dietro un approfondimento serio.
C’è chi la chiama democrazia…
Ma sì, fa tanto figo riempirsi la bocca di questo termine, però… A parte che se fossi una donna starei attenta a parlare di democrazia, userei questa parola molto relativamente, viste le disparità storiche che conosciamo. A parte anche che il nostro modello di democrazia è nato nell’antica Grecia per una polis come quella di Atene, di circa 250 mila persone, dove potevano votare solo in 50 mila e soltanto gli uomini, donne e schiavi no. A parte questi e altri fattori di cui sarebbe bene non dimenticarsi, ciò che mi chiedo è: siamo sicuri che quel modello sia ancora adatto alla contemporaneità, a un Paese di oltre 60 milioni di persone come l’Italia? Non ho una risposta, ma da un po’ di tempo me lo domando.
Di sicuro la democrazia rappresentativa che abbiamo in Italia non ha niente a che fare con l’uno vale uno tanto invocato dai 5 Stelle.
Già, e uno che ha fatto la quinta elementare non può valere tanto quanto un laureato in Medicina con 30 anni di ricerca alle spalle. Ma insomma, i 5 Stelle dicevano di voler aprire il Parlamento come una scatola di tonno, a me pare che ormai siano loro i tonni (ride). Del resto, fare politica e governare è difficilissimo, significa avere a che fare ogni giorno con la mediazione, con il compromesso, per cui hai voglia le belle parole…
E fare arte? Fare musica?
Sai, per la mia generazione – di qui il nome di un festival come quello che dirigo, incentrato sull’idea di raccontarla, quella generazione, mettendola a confronto con altre – fare musica significava esprimere delle cose. Per noi era importante dare un senso artistico a tutto ciò che facevamo, e quindi indossare una divisa, prendere posizione contro quel sistema dove, invece, tutto era regolato dalla smania di denaro.
Perché – ormai va precisato persino l’ovvio – nessuno è così ingenuo da pensare che allora il dio denaro non fosse al comando, o no?
Ma sì, infatti… Mentre per noi che negli anni ’90 portavamo avanti determinate scelte artistiche, l’essere musicisti era una questione identitaria. Cioè: io faccio Nera signora (brano dei La Crus del 1995, nda) perché non voglio fare roba commerciale, perché sono diverso da te, da voi. Era proprio un’urgenza di questo tipo quella che spingeva band musicalmente diverse come i La Crus, i 99 Posse, i Casino Royale, gli Afterhours o i Marlene Kuntz a scrivere canzoni e a incidere dischi. Avevamo sound differenti, ma ci accomunava quest’attitudine, questa visione autonoma e contraria a quella offerta dall’alto, dalle radio, dalla politica. Non a caso eravamo culturalmente più vicini ai centri sociali e alle etichette indipendenti che ai network e alle major. E sia chiaro, non sto dicendo che prima fosse meglio di adesso, la musica è lo specchio dei tempi, punto. Fatto sta che oggi ai ragazzi interessano due cose: i like e il grano. Omologarsi non è un problema, se una cosa funziona va bene fare quella cosa lì. Non c’è l’esigenza di rinunciare ai soldi e alla visibilità per far venir fuori quello che davvero ti rappresenta e ti viene da dentro. No, c’è l’esigenza di stare sui social dalla mattina alla sera, di comunicare continuamente, di buttar fuori roba a ritmo costante perché altrimenti non esisti. Ma io mi chiedo: perché dovrei far vedere al mondo cosa faccio ogni due secondi? Che necessità è questa?
Probabilmente indotta. Ma per chi è nato con uno smartphone in mano credo sia arduo rendersene conto e soprattutto ammetterlo.
Sì, come dicevo tutto questo è lo specchio dei tempi che stiamo vivendo. Però io che ho avuto la fortuna, nel 1994, di firmare con Warner, avevo delle persone che lavoravano per me, sulla promozione e il resto, mentre io dovevo occuparmi solo ed esclusivamente di fare l’artista. Non dovevo fare il PR di me stesso, quello che dovevo fare era scrivere canzoni il più possibile belle e che fossero le mie canzoni. Quindi faccio fatica a stare ore sui social e oltretutto mi imbarazza dover parlare della mia musica, magari incensandomi; in teoria dovrebbero essere gli altri a parlarne e a giudicare se ciò che scrivo, suono e canto vale la pena di essere ascoltato o meno. Non a caso poi ho dei momenti di depressione, perché se un post è più importante che scrivere una canzone, se una foto conta più che emozionare, è ancora questo il mio mondo?
Mi verrebbe da dire di no, ma è il mondo in cui sei costretto a muoverti, come tutti. A quando un nuovo album?
Ho un album solista di inediti praticamente pronto, che ho scritto con alcuni compagni di viaggio e colleghi che stimo, da Colapesce a Francesco Bianconi, passando per Matteo Curallo, con cui avevo scritto Io confesso (il brano portato dai La Crus a Sanremo nel 2011, nda). Ma è un disco fermo da due anni.
Come mai?
Per due motivi. Ti dico prima il secondo, ossia che molti artisti che hanno pubblicato un disco durante la pandemia hanno pagato dazio. Far uscire un disco senza poterlo promuovere come vorresti significa buttare via denaro e passione. Penso a quanti concerti e al tipo di tour che avrebbe meritato, per esempio, l’album di Bianconi.
Visto che si parla di lui, questo secondo me vale anche per Psychodonna, l’album della sua compagna di avventura nei Baustelle, Rachele Bastreghi. Un disco non solo bello, ma anche coraggioso, che, se vogliamo parlare di riconoscimenti almeno da parte della critica, avrebbe meritato di essere tra i finalisti della Targa Tenco tanto quanto quello di Bianconi. E invece…
Sono d’accordo, infatti al festival La Mia Generazione li ho invitati entrambi. Tra l’altro l’album di Rachele lo sto ascoltando un sacco, è figo, contemporaneo, audace, ci sono le canzoni, ci sono gli esperimenti, c’è la voglia di uscire dal mondo sonoro dei Baustelle e questo le fa onore. Però, insomma, una ragione per cui non ho ancora pubblicato il mio disco è il Covid, e come si sa il settore della musica dal vivo, che è ciò di cui campano artisti come me, è quello che è stato fermo più a lungo. Ma vabbè, in Italia sembra che esistano solo i ristoranti.
E l’altro motivo per cui il tuo nuovo album solista non è ancora uscito?
Qualche giorno prima del primo lockdown mi sono ritrovato a cena con Cesare (Malfatti, nda) e Alex (Cremonesi, nda) dei La Crus e con Marco Tagliola, che era il nostro fonico. Marco era venuto a Parma a vedere il nostro spettacolo Mentre le ombre si allungano ed è rimasto colpito dalla risposta calorosa del pubblico in sala da spingerci a provare a scrivere di nuovo qualcosa insieme, a buttare giù idee per dei pezzi. «Se non provate siete dei coglioni», ci ha detto. E ci ha convinti, nel senso che ci siamo decisi a provare a scrivere delle nuove canzoni dei La Crus, alla condizione che le avremmo pubblicate solo se da questo tentativo fosse scaturito qualcosa di buono, ma davvero buono. Questo ha distolto la mia attenzione dal mio lavoro solista, perché in effetti nel giro di un po’ di mesi abbiamo scritto dei pezzi secondo noi validi.
Quindi questa volta stiamo parlando di una riunione vera e propria? Quando uscirà questo album?
Ecco, il bello è che il mio disco è fermo perché mi sono concentrato su un album dei La Crus che, però, nonostante mi manchino solo quattro o cinque tracce da ricantare – perché sono un puntiglioso, altrimenti potrebbero anche essere solo due o tre – potrebbe non uscire mai.
Perché?
Ma non so, è che ci teniamo tantissimo. Sai, se non ce ne fottesse un cazzo potremmo dire «ma sì, facciamolo uscire, la buttiamo sul ritorno dei La Crus, facciamo un po’ di concerti, ci divertiamo e chi se ne frega».
E invece? Qual è il problema?
Il momento dei mix e di come decidi di chiudere i pezzi può ribaltare completamente un disco e visto che noi che facciamo questo mestiere abbiamo la fortuna di lasciare un piccolo segno del nostro passaggio su questa Terra, fortuna che per esempio mio padre che ha fatto l’idraulico tutta la vita non ha avuto, abbiamo il dovere morale di far sì che ogni disco che pubblichiamo rappresenti al 100 per cento ciò che noi siamo. Questa è la nostra visione, per cui prima di pubblicare, vogliamo arrivare lì.
Come sono le nuove canzoni? In linea con il repertorio passato dei La Crus?
No. O meglio, siamo io, Cesare e Alex, c’è la mia voce, però credo sia… I La Crus che si confrontano con la contemporaneità, per cui c’è anche molto di inaspettato. Ma non posso dire altro.
Ok, torniamo a La Mia Generazione: ho visto che sabato 11 suonerai anche tu.
Sì, in realtà non volevo, fare il padrone di casa e poi suonare è faticoso, ma sia Massimo Cotto, che conduce il festival, sia l’Assessore alla Cultura di Ancona, Paolo Marasca, mi hanno quasi obbligato! A parte gli scherzi, proporrò un mio personale tributo a Crocevia, l’album dei La Crus, visto che quest’anno compie 20 anni.
Sempre l’11 saliranno sul palco anche Niccolò Fabi, Francesco Bianconi e Diodato.
Più Gianluca De Rubertis, che ho inserito all’ultimo minuto facendo impazzire tutti, ma ci tenevo, il suo ultimo disco La violenza della luce è molto, molto bello.
Sono d’accordo, l’ho consumato. Mentre quella di venerdì 10 sarà una serata tutta al femminile, con Nada, Rachele Bastreghi, Violante Placido e Giorgieness. Ti sei riscattato, visto che l’anno scorso avevi parlato del dispiacere di non essere riuscito a inserire donne nel cast a causa di vari forfait. Com’è andata questa volta?
Bene, l’anno scorso era scoppiata una mezza polemica per l’assenza di donne nel cast, ma ribadisco che avevo cercato di fare la stessa cosa. Tra l’altro quest’anno ero anche riuscito a ottenere l’ok di un’artista straniera che, però, a fine giugno ha dovuto rinunciare a causa della pandemia. Peccato, mi sarebbe piaciuto avere un’ospite internazionale.
Di chi si trattava?
Non si può dire, voglio invitarla l’anno prossimo. Per quanto riguarda la presenza di donne, come dicevo sono sempre stato attento a dare loro spazio tanto quanto agli uomini, nel festival ho inserito una serata al femminile sin dal primo anno. Da parte mia l’attenzione verso la parità c’è sempre stata. Ciò a cui ho rinunciato quest’anno sono i momenti di chiacchiere, di talk, di confronto, momenti per me fondamentali perché come direttore artistico di eventi mi sono sempre mosso sentendomi più vicino allo spirito di una manifestazione come il Festival della Letteratura di Mantova che non all’Heineken. Però in questo 2021, dopo mesi di streaming, videochiamate, polemiche, parole, parole, parole, ho pensato che la gente avesse bisogno di musica, più che di altro, così ho voluto mettere in piedi più un happening musicale, due giorni di sola musica. Chiacchiere e riflessioni sono rimandate all’anno prossimo.
Tornando un attimo alle donne, della Bastreghi abbiamo già parlato; le altre come le hai scelte?
Con Violante Placido avevo collaborato per il mio disco del 2011 (Ho sognato troppo l’altra notte?, nda), in particolare abbiamo inciso insieme una cover di Bang Bang e per quel tour le avevo fatto aprire una serie di miei concerti. Adesso è impegnata su uno spettacolo di teatro-musica intitolato Femmes fatales, ma a parte questo a mio parere lei ha molta poesia e molto rock’n’roll dentro, mette tantissimo cuore nelle sue canzoni ed è brava, nonostante come prima attività faccia l’attrice. Ho pensato che invitarla potesse essere una scelta trasversale interessante.
E Giorgieness? È la più giovane delle quattro.
Di Giorgieness mi piacciono l’approccio, la scrittura, le cose vecchie che ha fatto, che erano più indie nel senso di independent – non mi riferisco all’indie italiano –; in alcuni passaggi mi ricorda vagamente Lana Del Rey. Diciamo che è nelle mie corde. Che poi non sempre ciò che porti a un festival deve rispondere ai tuoi gusti, è importante anche dare spazio ad artisti che dal punto di vista della contemporaneità sono interessanti, e se a te non piacciono amen, ma non è questo il suo caso. Nel cast del festival lei e Diodato rappresentano un po’ i figli legittimi della stagione degli anni ’90 che questo evento vuole celebrare, così come Nada è la madre putativa. E poi chissà, per il 2022 il mio sogno sarebbe avere Paolo Conte, vorrei alzare ancora di più l’asticella.
Com’è organizzare concerti con capienze limitate, posti a sedere, mascherine, distanziamenti e Green Pass?
Eh, come si dice a Milano,piutost che nient l’è mej piutost. Di sicuro un festival come La Mia Generazione lo puoi organizzare solo ed esclusivamente se sei appoggiato dalle istituzioni, come lo sono io dal Comune di Ancona e dalla Regione Marche. Nessuno potrebbe mai azzardarsi a fare una cosa simile: se per una serata con Diodato, Fabi, Bianconi e De Rubertis hai massimo 400 posti con i biglietti a 15 euro, sarebbe un fallimento economico disastroso. Quindi ok, è vero che in questo momento è importante continuare a fare musica dal vivo e trasmetterne l’importanza, ma è anche vero che per ora, con le limitazioni vigenti, puoi farlo solo se hai enti pubblici che hanno voglia di fare cultura e che ti finanziano, che ti pagano e ti sponsorizzano.
Faccio l’avvocato del diavolo: e allora, che male c’è?
Nessuno, ma se viene a mancare l’iniziativa privata, viene a mancare il 70 per cento delle iniziative, e la musica, così come la cultura in generale, non può diventare un monopolio del pubblico. Il problema vero è che la normalità, secondo me, ce l’avremo tra tre o quattro anni, e se sarà così i piccoli club, locali, circoli sono destinati a scomparire. Lo dicevo già l’anno scorso e ne sono convinto ancora oggi: se puoi far entrare nel tuo locale la metà delle persone, ma l’affitto lo paghi uguale, il personale pure, il riscaldamento anche, come fai? Sei costretto a chiudere. E bisogna dirlo: sono quei posti lì, quelli piccoli o medi, che permettono ai giovani musicisti di fare la gavetta e che danno spazio a tutto ciò che non è o non è già mainstream.