Non solo movida, sui Navigli. Ben altra aria, e ben altra musica, si respira all’estremo ovest di via Ludovico il Moro: qui, al numero 57, si fa la storia della musica italiana sin da quando questi studi di registrazione si chiamavano Regson e ospitavano Gaber, Jannacci, i giovani Pooh o il primo Battiato. Rilevati da Mauro Pagani nel 1998 e ribattezzati Officine Meccaniche, sono tra i pochi templi musicali rimasti in piedi, e non solo per le creazioni del loro (ri)fondatore.
È al loro interno, tra luci soffuse, tappeti orientali, immagini e strumenti d’epoca, che si tengono le prove generali per il tour che partirà il 21 giugno e che celebra i 40 anni di Crêuza de mä, capolavoro scritto a quattro mani con Fabrizio De André (ma la scaletta, come vedremo, non si limita alla tracklist dell’album). Un’anteprima riservata a una ventina di amici, pochi fotografi, ancor meno giornalisti, tanto che lo spazio riservato alla band sembra più affollato della platea stessa: attorno a Pagani si schierano le due nuove voci di supporto, Elena Nulchis e il senegalese Badara Seck; Walter Porro (tastiere e fisarmonica), Claudio Dadone (chitarre e bouzouki), Max Gelsi (basso), Giovanni Damiani (batteria e percussioni), Eros Cristiani (pianoforte e tastiere) e lo storico compagno di palchi Mario Arcari ai fiati. Fiati con cui alle 17.15 lo stesso Arcari suona la campanella per dare inizio alla dress rehearsal, come dicono oltremanica.
Una manciata di brani da Crêuza per iniziare, prima che il padrone di casa introduca un breve percorso in un altro album «molto importante» prodotto assieme a De André, Le nuvole. Scorrono Ottocento e ‘A cimma, poi Mauro presenta il suo «fratello africano» Badara Seck, al centro della scena in un paio di brani.
Giunti alla Domenica delle salme la batteria della Godin acustica di Dadone decide di esaurirsi: «È per questo che servono le prove generali», si scherza. Ben più serio il commento al brano: «Quando lo abbiamo scritto non pensavamo che il colpo di stato di cui parla andasse a finire così». Si ritorna a Creuza de mä, con Jamin-a e la title track, che parte senza la celebre introduzione fiatistica di Arcari e viene invece firmata ancora da Seck con i suoi interventi in lingua wolof durante il ritornello.
«Facciamo un bis?», chiosa Mauro anticipando la richiesta del pubblico ristretto: parte dapprima Impressioni di settembre, unico richiamo in scaletta al periodo con la Premiata, seguita da un inatteso «augurio» per tutti i presenti, la dylaniana Forever Young, perfetto inno allo spirito che questo giovane settantottenne continua a dimostrare. Anche nelle parole che ci concede il giorno dopo.
“Mauro Pagani 2024”: il titolo del tour alle porte sembra evidenziare l’importanza di un anno cruciale, di ripartenza non solo personale.
È un anno denso, un anno rumoroso che “risuona” non solo per il 40° di Crêuza de mä. Ieri mi è parso che tutti i presenti avvertissero questa sensazione di ritrovarsi in un momento di notevole peso. Un peso in parte positivo, sicuramente, ma è impossibile non pensare a quello che succede attorno a noi, alla situazione politica, al fatto che dopo poco più di settant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale ci ritroviamo in una situazione di conflitto continuo.
Quale funzione può avere la musica in questo contesto storico e sociale?
Dobbiamo ricominciare ad avere cura delle nostre anime, rispetto per il mondo che ci circonda e per i nostri stessi sogni. Sembra che non siamo più in grado di sognare, ma una società triste e senza sogni è una società che perde la capacità di prevedere il proprio futuro. È fondamentale ricominciare a riflettere, che lo si voglia o no, non essere complici di questa teoria del divertimento frivolo come antidoto ai problemi che ci circondano. Jannacci ironizzava su “Quelli che una dormita e passa tutto, anche il cancro”… non è così. Dobbiamo ricominciare a farci sentire, quanto meno per dimostrare che i nostri cervelli sono accesi, che le nostre anime sono accese. Almeno per non sentirci dire, al momento del disastro, che non l’avevamo detto.
Magra consolazione.
Sì, una magra consolazione, ma quando leggi le cronache relative alla presa del potere da parte di fascisti e nazisti, ci ritrovi sempre gli stessi commenti su una sinistra che “presa in discussioni sterili, non riuscì a fare nulla”. Gli stronzi non è che decidono di esserlo da un giorno all’altro. Non possiamo non schierarci, perché loro lo sono già, e tentano di conquistare tutto lo spazio possibile e immaginabile; lo vedi nelle scelte disastrose su scala mondiale, nello sfruttamento del Terzo mondo, nell’estrema e iniqua concentrazione della ricchezza. E noi cosa facciamo? Ora non voglio dire che gli artisti abbiano la responsabilità principale, ma non possono neanche limitarsi a scrivere canzoni disimpegnate…
Tornando alla nuova veste data ai tuoi brani, i ritocchi mi sembrano minimi, essenziali. Alcuni passaggi, penso alla coda di ‘A pittima e della stessa Crêuza de mä, sembrano voler ridare centralità alla voce anche nelle sezioni che prima erano essenzialmente strumentali.
I miei musicisti conoscono i pezzi, li amano, non ne sono succubi. Anche quello che faccio con loro è un viaggio comune. Durante le prove ognuno dice la sua, suggerisce, contribuisce.
Era così anche in studio, per Crêuza de mä?
Mettiamola così. Io avevo le idee molto chiare, ci lavoravo da tempo, avevo pubblicato il disco da solista cinque anni prima e accumulato parecchio materiale. Dal punto di vista compositivo, in un paio di mesi ho scritto tutte le musiche, ma la produzione in studio è stata molto più difficile. Abbiamo iniziato ad agosto e consegnato i master a Natale. C’era molto da fare, e lui è stato molto coraggioso perché da cantautore ha deciso di fare un disco che neanche a Genova avrebbero capito completamente, lo ha difeso e lo ha nascosto alla Ricordi fino all’ultimo. Solo che tutto questo ha comportato una marea di dubbi e ripensamenti. Dopo Crêuza de mä ero sfinito, sono stato a letto per tre mesi.
So di esiti simili per Anime salve…
In quell’album, per una decisione a mio avviso sbagliata, Fabrizio si è affidato ai musicisti di Fossati pensando di poter pretendere da loro quello che desiderava lui, cosa per niente facile: un gruppo di lavoro non è un jukebox umano. A me è dispiaciuto non esserci perché ho sempre sognato di lavorare con Ivano, che stimo enormemente. Ma Fabrizio era l’uomo dei dubbi, un oceano di dubbi che si riversavano su tutti noi: registra, ripeti, più lento, un semitono sopra, poi uno sotto, mille dubbi per ogni pezzo… Io ero il suo buon capitano di vascello, lo difendevo dai suoi stessi dubbi, tranquillizzandolo. Per Le nuvole ha funzionato, ci abbiamo messo meno di due mesi a registrarlo.
Facciamo un salto indietro, per tirare le fila del percorso che porta a Crêuza de mä partendo proprio dall’esordio solista omonimo che citavi poc’anzi.
Certo. Quel disco è del 1978, io ero andato via dalla PFM un paio d’anni prima e avevo iniziato a dedicarmi anima e corpo alla musica che sentivo far parte di me. Frequentavo Moni Ovadia, Demetrio Stratos, Pasquale Minieri del Canzoniere del Lazio, andavamo tutti nella medesima direzione. Erano gli anni della Nuova Compagnia di Canto Popolare, i Dischi del Sole, le ricerche di Lomax, Leydi, De Martino… Per molto tempo non sono più riuscito ad ascoltare rock, a parte i Police e poche altre cose.
Tre anni dopo, l’incontro con Fabrizio De André e l’inizio del cammino che avrebbe portato al vostro capolavoro.
Lui stesso veniva dall’esperienza in tour con la PFM, che aveva riempito i suoi brani di violini, mandolini, chitarre. E allora anziché ingaggiare diversi strumentisti ha chiamato me che suonavo un po’ tutto… da buon genovese amava risparmiare (ride). All’inizio con lui ero un musicista da palco, ma nel frattempo avevo iniziato a registrare i brani che sarebbero finiti sul disco: durante il tour ero io ad andare a prenderlo in macchina e in viaggio ascoltavamo queste mie cassette… «Bello, bello, facciamolo!», diceva. Per un po’ non l’ho preso sul serio, poi gradualmente è emersa questa idea di fare un disco in grammelot, prima di scegliere come lingua il genovese.
In corridoio c’è una sua foto, sguardo incazzoso, con una scritta: “Chi stava alla sua sinistra a cui voleva mangiare un orecchio?”.
Sì, l’ha scattata un nostro amico fotografo, Reinhold Kohl, anarchico che vive da anni a Carrara, sul palco del tour di Crêuza de mä. L’uomo alla sua sinistra non inquadrato era il fonico dei monitor, soprannominato Cina, cuore d’oro, si lasciava dire e fare di tutto. Anche sul palco c’erano sempre mille dubbi, le prove potevano durare ore… Io per fortuna ho conquistato la sua fiducia: lo lasciavo brontolare un po’, poi dicevo «Fabrizio, va bene così». Lui mi rispondeva: «Belìn, se lo dici tu», ma con aria minacciosa, come a dire «Se stasera non va bene sono cazzi tuoi» (ride). Ma il concerto poi filava liscio…
Più che un produttore, uno psicologo.
Beh, ma in effetti il compito del vero produttore è aiutare l’artista ad amplificare i propri pregi e limitare i propri difetti.
Una definizione da manuale…
I bravi produttori permettono all’artista di dare il meglio di se stesso. Quelli meno bravi, invece, restano troppo spesso ancorati alle proprie idee anche se non sono adatte all’artista, perché magari volevano essere il cantante dei Rolling Stones e non fanno altro che proiettare i loro sogni personali sull’artista.
È sempre una questione di sogni, insomma. In un certo senso, le tue Officine Meccaniche sono esse stesse fucine di sogni, al cui interno sono passate generazioni di artisti (per fare un nome recente, i Måneskin). Che impressione hai della musica contemporanea e delle sue tendenze?
Ogni periodo ha la sua musica, con cicli fatti di nascita, crescita e fine. Il barocco ha avuto trent’anni di fulgore prima del suo declino, il rock’n’roll è stato la musica giovanile della cultura occidentale per oltre cinquant’anni… Oggi stiamo vivendo un periodo di trasformazione, quello che manca secondo me è proprio il rapporto tra la qualità dei sogni e dei discorsi. Per far musica devi avere sogni. Però non è che hanno sparato gas esilarante e ci siamo rincoglioniti tutti. Da qualche parte nel mondo si sta scrivendo la musica di domani, solo che è nascosta perché l’industria si è espansa talmente tanto che sta mangiando se stessa.