Inutile girarci intorno: Mauro Repetto non ha ucciso l’Uomo Ragno, Mauro Repetto è diventato l’Uomo Ragno. Sembra incredibile? Prima di questa intervista neanche lui ci aveva mai pensato. In fondo, però, non potrà far altro che prenderne atto. Ma solo per un attimo, perché subito dopo, con ogni probabilità, se ne sarà già dimenticato a caccia di un altro sogno.
La sua esistenza, effettivamente, ad ascoltarla tutta d’un fiato sembra un perenne viaggio onirico a rincorrere qualcosa che non ha ancora raggiunto. E quando la raggiunge, fra lo stupore generale, la lascia sul più bello per recarsi altrove. Forse anche per questo il libro dove ha deciso di spiegare per la prima volta la sua vita, che si intitola Non ho ucciso l’Uomo Ragno (Mondadori), scritto insieme al giornalista Massimo Cotto, ha per sottotitolo Gli 883 e la ricerca della felicità. Essendo un orizzonte, non vede perché dovrebbe smettere di inseguirlo. In più oggi, alla soglia dei 55 anni che compirà il 26 dicembre, non sembra aver perso un briciolo di quell’energia alla quale aveva abituato i fan del duo pop italiano più famoso degli anni ’90, quando al fianco di Max Pezzali ballava sulle note di Nord sud ovest est.
Lo abbiamo incontrato a IMAGinACTION, il Festival Internazionale del Videoclip di Ferrara, a margine delle prove della serata che lo ha visto tornare a esibirsi live, accompagnato alla chitarra da Marco Guarnerio («il vero responsabile del suono degli 883») e ai cori da Célie Angelon, giovane cantante conosciuta a Parigi e che considera «sublime».
Ma dov’è stato tutto questo tempo? Più precisamente da quell’aprile del 1994, all’apice del successo, in cui disse a Max Pezzali: «Vado a Miami e non so se torno». Non è più tornato e sono passati 30 anni prima che chiarisse la sua versione di quell’allontanamento e come ha trascorso questi decenni di silenzio pubblico. Si è favoleggiato di una infatuazione per una ballerina che poi lo avrebbe lasciato, che in America abbia perso grosse cifre di denaro, che sia finito a impersonare Pippo a Disneyland Paris, che abbia buttato via una fortuna per registrare ZuccheroFilatoNero («100mila dollari»). Finalmente ha deciso di parlarne, in un volume e in questa intervista, dove ha raccontato di come ha tentato invano di farsi strada a Hollywood, come mai le aspirazioni musicali di due liceali che si sono conosciuti sui banchi di scuola sono rimaste soltanto di uno, di come nascevano le loro canzoni in una sorta di ping pong a colpi di esagerazioni e perché, anche se sta lavorando a nuovi brani musicali, considera questa attività «soltanto un passatempo».
Mauro, ad aprile 2024 saranno 30 anni da quando hai lasciato gli 883.
Lasciati in base alla mia onda. Ho proseguito la mia rincorsa verso quello che mi piaceva fare. Avevo un ulteriore sogno, che era quello americano. Che oggi può far sorridere, ma allora era normale averlo, con tutte le canzoni che ascoltavamo e i film che vedevamo della colonizzazione hollywoodiana. Per me è stato semplice guardare le linee del destino sul palmo della mia mano e dirmi: «Questo lo hai fatto, adesso devi fare altro a Hollywood». Mia nonna mi parlava di quelle attrici meravigliose che sembravano quasi delle fate, per cui provare ad andare là mi sembrava la cosa più logica del mondo.
Hai inseguito i sogni, sia d’amore per una ballerina che professionali di far parte del mondo di Hollywood, però ti sono sfuggiti.
Per ora sì, ed è vero che sono passati 30 anni, ma se mi volto indietro mi sembra ieri. Non è che ho abbandonato gli 883, ho continuato il mio sogno come Max ha proseguito il suo. Era iniziato insieme dai banchi del liceo fino a Nord sud ovest est, a quel punto i nostri sogni erano incollati. Poi per me è cambiato qualcosa. Ma nessuno dei due voleva far entrare l’altro in qualcosa forzatamente. Sai, la coppia può essere la formazione che va più veloce da un punto A a un punto B, ma è anche quella che consuma di più. A un certo punto ti ritrovi improvvisamente senz’aria, tanto ti sei sentito la stessa persona. Allora inizi a essere in panne, a non parlarti più come prima e a perdere quell’alchimia.
Ricordi ancora il momento in cui hai detto a Max: «Vado a Miami e non so se torno».
È esattamente quello che ho detto a Max proprio sotto casa sua, che era il tempio di tutte le canzoni che abbiamo scritto e di tutti i pomeriggi a Pavia passati insieme, con la nebbia o il sole. Volevo passare un po’ di tempo a Miami e non sapevo se sarei tornato, e così gli ho detto quella frase.
Poi però sono passati 30 anni…
Ma sì, cosa vuoi che siano. Io e Max siamo due irrisolti, due equazioni non pienamente definite. Per questo dobbiamo cercare la maniera di far passare quei “pomeriggi”. Lui ha scelto di essere una popstar da 30 anni, io qualcos’altro.
Avete continuato a dialogare?
Non siamo più compagni di banco, quando è stato richiesto ci siamo sentiti e ci sentiamo. Nessuno dei due vuole forzare nulla, ma quando capita ridiamo ancora di brutto. Abbiamo un affiatamento incredibile pensando a qualsiasi momento trascorso insieme. Quando ci vediamo, per almeno quattro, cinque ore sghignazziamo.
Nello speciale dedicato agli 883 andato in onda nel 2016 su Real Time, Claudio Cecchetto ha detto: «Mauro era fondamentale, perché Max aveva in mente di scrivere una cosa, ma la trovava troppo esagerata. Interveniva Mauro, gliela faceva scrivere e, anzi, ci aggiungeva del suo ed esagerava ancora di più».
(Ride) Diciamo che ha omesso un altro aspetto. Io esageravo, Max razionalizzava la mia esagerazione e le dava una veste accettabile, io esageravo ancora e lui, come se fosse una partita di ping pong, la rendeva presentabile. Continuavamo così finché non eravamo costretti a fermarci, e alla fine nascevano i pezzi degli 883.
Nel libro scrivi: «C’è sempre qualcosa dietro un’altra cosa, a meno che sia un muro. No, anche se è un muro dall’altra parte troverai qualcosa. È la mia filosofia di vita, il mio atteggiamento».
La prima volta che ho visto Max era in un’aula del liceo di Pavia e dietro di lui c’era una finestra. Da quella finestra si vedeva un campo di atletica con le ragazze vestite tipo Flashdance. E ancora dietro, il fiume Ticino con i club dei ricchi della Motonautica Canottieri. Già allora, guardandolo, è stato come vedere una serie di orizzonti uno dopo l’altro. L’inizio di un viaggio che non si è mai interrotto. In effetti vedo ancora Max a quel modo, come un piacevolissimo schermo, ma oltre ce ne sono altri. Probabilmente è così anche per lui.
Ancora dal libro: «Ho sempre pensato che se ti riesce una cosa sei un genio e se non ti riesce sei un saggio». Sei un inguaribile ottimista?
In ogni caso non hai niente da perdere. Se ci riesci benissimo, altrimenti saprai come fare la prossima volta. Cadi e ti rialzi, ma sapendo come appoggiarti. O sei un genio o sei saggio.
Non c’è mai stato un momento in cui ti sei dispiaciuto di aver lasciato gli 883?
Non sono assolutamente questo tipo di persona. Mai e poi mai mi sono arrabbiato per una mia scelta. Io mi considero un fiume in piena che non fa danni, né a me né agli altri. Devo seguire questa mia voglia di andare avanti, come un fiume che non torna mai indietro.
Quando ti sei ritrovato sul palco con Max lo scorso anno all’Arena di Verona è vero che hai ritrovato le stesse sensazioni di quando te ne eri andato?
Proprio così. Le stesse sensazioni del 1991, prima di Castrocaro, quando noi due eravamo quasi la stessa persona. Ci siamo guardati negli occhi, abbiamo cantato insieme le nostre emozioni e rivisto quello “schermo” che vedevamo prima del grande successo.
Ma veramente Max non si è risentito neanche un po’ della tua scelta?
No, ma sai perché? Max, come me, è un surrealista. Anche se sembra molto razionale, ti assicuro che è decisamente surrealista. Una delle prime frasi che mi ha detto in una assemblea di classe, di quelle che durano cinque ore e fai fatica a stare sveglio, è questa: «Pensa che bello sarebbe se arrivasse un capriolo o uno stambecco a saltare dappertutto». Per questo non ho mai sentito una cesura da parte sua sul mio essermene andato a Miami. Perché forse è una scelta nelle stesse corde che ha anche lui.
Oggi in quali realtà musicali risenti l’energia degli 883?
Assolutamente nel rap, in particolare quello francese che ascolto molto vivendo a Parigi. Ultimamente mi ha colpito Doja Cat. Nel rap sento quell’energia come allora, quando con Max siamo partiti campionando Run-DMC, Beastie Boys e Public Enemy. E anche nell’R&B. Poi ascolto un po’ di tutto, come tante cose rock. Il rap però è sempre al primo posto.
Qualche band italiana che ha raccolto il vostro testimone?
Mi hanno detto in molti, e credo sia la verità, i Pinguini Tattici Nucleari. Non so se sia una filiazione, magari è una cuginanza, però li sento molto vicini agli 883 delle origini.
Dopo questo libro, che ha riportato l’attenzione sulla tua storia, stai pensando di tornare anche dal punto di vista musicale?
Io questa la vedo come una festa, un momento di espressione, un vero passatempo. Come quando andavo a casa di Max ogni giorno dalle due alle otto di sera. Come oggi in questo teatro, è un passatempo. Non ho nessuna voglia di farlo diventare un lavoro. Mi esalta essere qui, ho incontrato il vecchio amico Marco Guarnerio, il “colpevole” del suono degli 883, ho portato da Parigi una cantante immensa come Célie Angelon, ma vedo tutto questo come un’avventura. Voglio continuare a essere un fiume in piena. Intanto con Marco ci divertiamo a fare nuovi pezzi, ma per divertimento. A livello musicale sono appagato così.
Quindi stai lavorando a nuovi brani che potrebbero vedere la luce?
Certo, ci sono. Ci stiamo divertendo a mettere insieme tre voci. La mia, che vuole essere un matrimonio tra rock e rap con riferimenti da Bon Jovi ai Beastie Boys, la voce sublime di Célie e la professionalità di Marco, che può tenere insieme il tutto. Mischiamo gusti musicali e canori e vediamo cosa ne uscirà. E inoltre vorrei suonare.
Quale strumento?
Ho la fortuna di essere un amante della chitarra. All’epoca con Max campionavamo, ora approfitto della maestria di Marco per potermi dilettare a suonarla (simula un assolo di Slash dei Guns N’ Roses con la voce, nda). Adoro le chitarre. Prima campionare era un must, mentre oggi preferisco attingere da chi sa suonare davvero e poi provarci anch’io.
Ormai non è più uno spoiler che, quando sei andato a lavorare a Disneyland Paris, non hai mai impersonato Pippo. Com’è nata questa falsa leggenda?
È una falsità, ma è vero che mia madre lavorava all’ufficio provinciale del lavoro e arrivavano molte offerte a italiani per andare a lavorare a Disneyland Paris. Così mia mamma, che ci teneva che trovassi un posto sicuro, mi ha concordato un colloquio e dopo la laurea in lettere mi hanno preso e vestito subito come un cowboy o un marinaio. Ma non ero Pippo. Io sono ripartito da zero e non volevo barare.
Ora sei diventato un manager.
Sì, perché dopo qualche tempo degli italiani che lavoravano lì mi hanno riconosciuto e il vicepresidente, anche lui italiano, mi ha proposto di diventare event executive. Così ancora oggi organizzo degli eventi da milioni di dollari. Sono ripartito dal nulla, non vestito da Pippo ma da cowboy o da marinaio.
Hai scritto che i tuoi colleghi ti davano del pazzo per aver lasciato gli 883.
E ogni volta gli rispondevo: «Ma io devo realizzare i vostri sogni o i mei?». Nessuno capiva perché me ne ero andato. Semplice: avevo un altro sogno. Volevo il mio e non i loro.
Sei un pazzo, un visionario o entrambe le cose?
Ma sai che mi sento la persona più normale del mondo? In questi anni ho avuto una vita tranquillissima, come dicono i francesi métro, boulot, dodo (metropolitana, lavoro e nanna, nda). Come ho cercato Hollywood, ho cercato anche una vita ordinaria. Non mi considero un pazzo, semmai uno con molta energia e altrettanta volontà di concretizzarla.
Hai qualche sogno oltre alla musica?
Di riuscire a fare una serie con Robert Watts, un produttore hollywoodiano che è stato il braccio destro di George Lucas e ha lavorato a film come Star Wars e Indiana Jones. Si è innamorato di un concetto che gli ho presentato e ci incontreremo qui a IMAGinACTION. Ma è sempre un passatempo. Lui ha un bagaglio culturale e professionale enorme e sarà un’altra avventura. Però non è un obiettivo con un traguardo.
Più parliamo e più mi sembra che Non ho ucciso l’Uomo Ragno sia un titolo al quale manca qualcosa. Perché in realtà mi sembra che tu lo sia diventato, l’Uomo Ragno.
Be’, credo che la soluzione dell’equazione, se ce n’è una, potrebbe essere questa. Spero di non risolverla mai, però è vero che Peter Parker rappresenta la mia vita da event executive métro, boulot, dodo, e invece quando inseguo i miei sogni vesto i panni di un supereroe. È giusto, adesso che mi ci hai fatto pensare non ho ucciso l’Uomo Ragno: lo sono diventato.