«Diciamo le cose come stanno: questa cosa degli artisti-candidati testimonial è un po’ una stortura da secolo scorso…». Non ci gira attorno, Max Casacci, la chitarra e il leader ideologico dei Subsonica. Disinnesca subito la prima, ovvia critica che gli si potrebbe fare. Ovvero: che ti sei candidato a fare? E perché? A far che? Vai a fare il santino elettorale per la sinistra, sperando così la spunti sugli avversari racimolando qualche voto in più dai fan di Samuel e Boosta?
La notizia della candidatura casacciana ha percorso ovviamente prima di tutto il piccolo stagno della scena musicale italiana (dove per una volta non ci si attacca all’Instagram story di qualche rapper o trapper e si parla di argomenti quasi adulti), ma poi pure la stampa generalista, che ha dato buona copertura alla sua candidatura. Buona, sì, infilandola però ovviamente nel classico articolo-pastone “ecco chi sono i famosi che a ‘sto giro si candidano”, un filone che negli anni ’80 craxiani ha dato il meglio di sé con candidature indimenticabili (e improbabili) ma che in realtà non si è mai avvizzito.
«Non avrei dovuto candidarmi, avrei potuto tranquillamente fare altro», chiosa Max, «ma alla fine molti miei colleghi non hanno fatto nulla, non si sono messi in gioco, e anzi continuano proprio a stare alla larga dalla politica. Hanno paura di essere criticati su Facebook. Peccato che poi saranno i primi a lamentarsi se nei prossimi cinque anni verranno chiusi i centri sociali, se verranno già tagliate le già poche risorse destinate a quel mondo che produce veramente cultura… Io capisco che schierarsi non sia necessariamente facile e comodo, va bene; ma mi pare che il mondo musicale in passato fosse più pronto ad impegnarsi e a metterci la faccia per davvero. Oggi, no».
Sarà forse che degli anni ’90 impegnati Casacci era già una colonna (prima ancora dei Subsonica nella sua vita ci furono gli anni con gli Africa Unite, nel pieno dell’esplosione del fenomeno delle posse e della musica italiana alternativa), sarà che arriva da un certo tipo di educazione e di attitudine, ma il «non avrei dovuto candidarmi, avrei dovuto fare altro» in bocca sua suona, a dire il vero, credibile a metà. È sempre stato la prima coscienza politica della band, infatti; è sempre stato quello che per primo e più di altri si esponeva su certe tematiche; è sempre stato quello che nelle interviste metteva l’accento su un certo tipo di argomenti diciamo così seriosi.
Max, ecco, guarda che questa cosa che ti candidi alle Comunali di Torino è una sorpresa da quattro soldi: era ovvio avvenisse. Anzi, strano che sia avvenuto solo ora, nel 2021, e non già anni fa. «Ma io avrei preferito non doverlo fare, sinceramente. La verità è che almeno da un anno lavoro assieme a un gruppo di persone sempre più nutrito alla creazione di un documento rappresentativo, Capitale Torino, che racconti l’importanza e la forza della comunità musicale torinese: questo è l’aspetto che mi sta più a cuore. Un qualcosa che non si considera mai abbastanza ed è paradossale, visto il radicamento solidissimo che ha la musica in città e nella sua storia recente. Però ecco: a portare avanti queste istanze avrebbe dovuto pensarci, candidandosi, qualche operatore di settore, magari anche più abituato a relazionarsi con le istituzioni; e invece…». Invece? «Ci sarebbe davvero bisogno di un contributo maggiore nella vita politica da parte di chi opera nella musica. Soprattutto se giovane. Abbiamo bisogno di più protagonismo in questo campo, ce n’è troppo poco. Altrimenti ci sarà sempre una generazione che detiene le leve del comando ed altri che “staccano il bigliettino”: una dinamica che è presentissima già nei partiti stessi, è triste venga replicata anche nel nostro campo. Noi, con la lista civica Torino Domani, che è quella per cui mi candido, abbiamo incoraggiato tantissimo i giovani ad impegnarsi con noi. Non per avere una nota di colore da sfoggiare, no, ma perché abbiamo proprio bisogno di nuovi laboratori politici».
Ok, ottimo, tutto bello. Ma perché proprio ora? «Onestamente: c’è preoccupazione per un potenziale scivolamento a destra di Torino. C’è un clima, in città, quasi di incoscienza su questo: come se non facesse molta differenza se vincesse l’uno o l’altro… Ma il programma della destra soprattutto nell’ambito della cultura fa davvero drizzare i capelli. Non ha nessuna memoria verso un certo tipo di realtà e di pratiche, che sono state in passato molto importanti». Qui il discorso è interessante, approfondendo, e si entra quasi nel campo della psicanalisi: «C’è stato un momento in cui Torino aveva preso a credere fortemente in se stessa. Una stagione contrassegnata dalla presenza di un assessore come Fiorenzo Alfieri che sì, avrà avuto dei momenti di grandeur, ma sicuramente non ha mai fatto l’errore di permettere alla città di sottovalutarsi, come invece fa troppo spesso. Quello che un festival come Traffic ha fatto per la città – parlo di Traffic perché è un argomento che conosco in prima persona, essendone stato co-fondatore e condirettore artistico, ma gli esempi sono tanti – è incredibilmente prezioso. Vogliamo parlare del concerto dei Daft Punk nel 2007? Vogliamo ricordare un giovane Apparat che dice davanti alle telecamere “Io una cosa così a Berlino non l’ho mai vista” o, qualche anno più tardi, Oliver degli xx che racconta “Io volevo venirci da Londra apposta, a Torino, ma non avevo ancora 18 anni e miei non mi hanno lasciato andare”? Questo tipo di segnali sono sempre stati colti poco dalle amministrazioni locali, molto poco, troppo poco. Non se ne è mai capito fino in fondo il grande valore aggiunto. Non si è mai capito come Torino stesse per diventare la nuova Barcellona – come mi è stato confermato di recente da una persona che ha lavorato ad alti livelli per anni per il Sónar – e non si è mai analizzato il perché non ci sia riuscita. Il mondo nel frattempo va avanti. Veloce».
E non sarà in nessun modo la destra a poterlo intercettare, questo mondo in movimento? «Leggere il programma sulla cultura dello schieramento che presenta Damilano sindaco racconta di persone che non hanno idea di cosa sia successo negli ultimi trent’anni, di quali siano le dinamiche più interessanti ed efficaci per essere rilevanti nella contemporaneità. Non riconosce ad esempio le eccellenze locali che si sono succedute in questi anni – penso ad esempio a Club To Club, diventato un grande incubatore di talenti e professionalistà locali, non solo un grande festival internazionale: se un artista come Nicolás Jaar decide di venire a vivere a Torino è anche e soprattutto grazie a loro – ma soprattutto propone un modello anonimo, che non ha nessuna specificità, che potrebbe essere proposto tale e quale in una qualsiasi altra cittadina. Si parla di fare dieci eventi l’anno della grandezza di quello che fu il concerto degli U2. Un loro concerto è di sicuro un grande evento, per carità; ma la verità è che come lo fanno a Torino, potrebbero farlo in qualsiasi altra città. Qual è l’idea alla base di tutto questo? Puramente imprenditoriale, e di corto respiro». Questo è il punto. «In quale modo rendi Torino speciale, diversa? In quale modo la rendi attrattiva per davvero e sul lungo periodo, con una sua identità, spingendo studenti e nuove forze a sceglierla come posto in cui trasferirsi a vivere, non solo per un turismo mordi e fuggi, come successe a metà anni 2000? Traffic era un festival che ti portava proprio a scoprire la città, la esploravi seguendone i vari eventi, te ne innamoravi i concerti erano grandi e piccoli eventi non standardizzati. Era un festival particolare…».
In primis perché era gratuito, questa la particolarità numero uno, non dimentichiamolo. Cosa che peraltro all’epoca – e non solo all’epoca – generò molti malumori. Anche a Torino stessa. Ce lo ricordiamo, non lo abbiamo dimenticato. «Anche la scelta della gratuità era il segnale di una città che era molto più inclusiva e accessibile di altre. A Milano un festival così non sarebbe mai stato possibile: essenzialmente perché Milano è la città di tutti i pesi massimi del business industriale attorno alla musica, a partire da quella live, e non avrebbero mai e poi mai permesso una cosa del genere. A Torino invece si poteva. Già questo è significativo. Ma poi, una delle ragion d’essere del festival era proprio valorizzare in modo serio i talenti e le professionalità locali, inserendole in un network di livello europeo (in cui la gratuità faceva da catalizzatore), facendo così da incubatore e acceleratore. E lo facevamo non per assistenzialismo, attenzione, ma perché credevamo davvero nelle qualità che la città aveva da offrire. Torino non era – e non è – solo un posto da grandi eventi standardizzati che arrivano da fuori e di piccoli concertini che restano nel quartiere, come più di qualcuno vuole farla diventare. Che poi all’epoca qualcuno tra gli addetti ai lavori si lamentasse della gratuità di Traffic e dei contributi che venivano dati al festival, vabbè, fa parte della inevitabile litigiosità torinese… Che forse non è solo torinese in realtà, ma proprio italiana».
Forse avrebbe preferito non candidarsi, Max, come dice, ma ora che l’ha fatto ci crede veramente. Ci crede sul serio. Altro che candidato-testimonial, lui è dentro al cento per cento. E non sfugge alla domanda su che effetto faccia il rischio di essere un semplice portatore d’acqua per il candidato del PD, un candidato contro cui lui nelle primarie era – indirettamente – in competizione. «Io mi sento prima di tutto un portavoce di una progettualità condivisa, come dicevo anche prima. Potrei essere la persona più illuminata del mondo, ma si è molto più efficaci se si è espressione di necessità e idee collettive. Questa è un po’ la caratteristica di tutta Torino Domani, la lista a cui appartengo nata dall’esperienza della candidatura dell’indipendente Francesco Tresso alle primarie. Vero, noi col candidato attuale del PD a sindaco, Stefano Lo Russo, siamo andati in competizione, perdendo per soli 297 voti. Poi però, a primarie finite, abbiamo avuto a che fare con una persona che ci è sembrata molto onesta e disponibile ad ascoltare quello che avevamo da proporre – anche perché Capitale Torino, la progettualità condivisa attorno alla musica di cui dicevo, non è patrimonio di una lista o di una parte. È lì, a disposizione di tutti».
Max, non è che stai rifacendo l’errore fatto con Fassino? Dare fiducia e credito a una persona che poi si volta dall’altra parte, rispetto alle istanze che rappresenti? «All’epoca facevo parte di una realtà chiamata Torino Sistema Solare che rappresentava il consolidamento dei club e di un certo tipo di realtà come veri luoghi di cultura contemporanea, come qualcosa che riesce a fare la differenza rispetto all’intrattenimento standardizzato (e sterile). Anche allora la destra faceva fatica a capire la differenza tra una pizzeria e un luogo dove si fa musica, non cogliendo la storia, la forza innovativa e dinamica e le istanze di quest’ultimo. Fassino era stato un po’ calato dall’alto dal partito, come candidato. Non conosceva la città, e con umiltà fu lui stesso a chiedere di avere un incontro con una componente che rappresentasse la cultura giovanile. Lì squillò il mio telefono, anche se giovane proprio non sono…». Eh: in effetti, no. «Ma mi sento di poter rappresentare bene un certo tipo di mondo. Lo conosco, lo vivo quotidianamente. Insomma: quello che volevamo fare allora era evitare che Fassino diventasse un nuovo Cofferati. Disastrosa, la sua esperienza a Bologna. L’esperienza di qualcuno che non aveva capito minimamente i valori e la specificità della realtà in cui era stato calato. Volevamo che con Fassino non accadesse. Da lì il prestarsi a quell’intervista, che lo so, poteva sembrare quasi un appoggio al candidato in sé, ma bastava ascoltarla per intero per capire quanto fosse invece altro. Col senno di poi comunque non fu Fassino a chiudere i Murazzi, fu più la magistratura a farlo, oltre a un progressivo sfarinamento della situazione generato anche dalle liberalizzazioni del governo Monti. Ad ogni modo, quello non era il nostro endorsement alla candidatura di Fassino, era più un tentare di strappargli la promessa che non si sarebbe comportato in un certo modo. Promessa, credo, in buona parte anche mantenuta. I problemi furono altri».
E ora? «Ora, Torino non può più permettersi di sprecare tutte le potenzialità che ha. Non può più permettersi di essere rappresentata da persone che non capiscono la sua storia degli ultimi decenni e non ne riconoscono gli elementi migliori, quelli che l’hanno trasportata in una dimensione europea senza però farle perdere l’anima e la specificità. Ecco perché io in questo momento non sto facendo campagna elettorale classica, proprio per nulla; sto invece soprattutto studiando, sto andando in più luoghi possibili di musica e cultura parlando con chi li anima e porta avanti – persone che conoscono benissimo quali sono i problemi pratici da affrontare – e da loro mi sto facendo spiegare proprio gli aspetti più concreti e tecnici. Sono io che ascolto loro, per capire come poter agire per davvero nel sostenerli. Nel fare tutto questo poi mi dimentico di farmi i selfie a fine incontro, di postarli sui social dove rappresentare delle situazioni in realtà spesso fake, che pare un po’ l’ABC del buon candidato, ma pazienza. È molto più importante portare avanti le istanze di una voce collettiva, che tanto ha dato e ancora di più potrebbe dare alla città. Pazienza per i selfie autocelebrativi».
Insomma, vota Casacci. Ora Torino, e poi… «No. Perché io credo che il ruolo migliore per un musicista non sia quello di candidarsi, ma quello di sostenere operatori del settore in grado di tradurre in pratica – e con atti amministrativi concreti – tutte le istanze più illuminate e costruttive. Ora però dobbiamo ancora fare venire fuori figure di questo tipo. Torino poi è una città dove davvero il mondo della musica ha espresso delle professionalità incredibili: parlo anche come servizi e come comunicazione, non solo come arte. Io fra dieci anni non vorrei essere in politica». No? «Fra dieci anni vorrei essere il sostenitore di un sindaco che ha la metà dei miei anni e che sa ascoltare, sa capire quali sono le energie più interessanti in circolazione».
Ah, ma dimenticavamo, e già ci stavamo salutando: e i Cinque Stelle? Che sarebbero anche quelli che hanno amministrato la città negli ultimi cinque anni? «Nessuno nasce geneticamente Cinque Stelle. Diciamo che i Cinque Stelle sono un’entità molto differente a seconda di in quale territorio si trovino – e a Torino c’è un radicamento forte a sinistra. Ci sono temi, come l’ambiente, in cui c’è contatto se non addirittura condivisione. Ma sulla cultura non credo che abbiano colto le dinamiche e soprattutto le potenzialità di una città come Torino. La destra è per i grandi eventi, loro invece insistono molto sulla cultura di prossimità – quest’ultima sicuramente va valorizzata, è importante ci sia, ma non puoi ignorare quella capacità tipica proprio della nostra città di misurarsi con l’idea di festival ed eventi ad ampio respiro, dove si parli di gusto, dove si parli di cultura della vita. Concentrarsi solo sul locale, senza input che sappiano guardare lontano, impoverisce l’esperienza… e alla lunga anche l’impatto sociale. Le cose a larga scala hanno il vantaggio di far capire e di valorizzare al massimo tutto ciò che Torino ha da esprimere. Ce n’è bisogno».