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Max, Nek, Renga: gli anni ritornano

Puoi toglierli dalla provincia, ma non toglierai mai la provincia da Nek, Max e Renga. Che a 50 anni riempiono i palazzetti con un inedito trio (anche se i loro figli gli danno degli sfigati).
Foto di Toni Thorimbert

Foto di Toni Thorimbert

«Un basso Fender Precision del 1974 e un trattore SAME del 1952, senza freno a mano, a trazione posteriore». Nek elenca le prime due cose che si è regalato grazie ai soldi guadagnati con la musica, e la reazione di Max Pezzali è immediata, onomatopeica: «Vroom… Eh, vabbè!». Sono entrambi ferrati in materia di agricoltura, e ora confrontano le rispettive esperienze. «Io ho una casa in campagna», racconta Nek. «A mio papà piaceva coltivare la terra: vederlo soddisfatto con il trattore che gli avevo regalato era un enorme piacere per me».
Anche Max Pezzali era un ragazzo di campagna: «Mio nonno era un coltivatore diretto. Quando mi portava in osteria, i suoi amici arrivavano con le moto-zappatrici BCS. Un casino, le usavano come mezzo di trasporto. TA-TA-TA!, tutto il tempo».

Con i primi soldi guadagnati suonando, a differenza del collega, Pezzali si era comprato una macchina fotografica: «Una Canon EOS 5, che poi mi hanno rubato, assieme a tutti i Telegatti». Francesco Renga, invece, ha investito il primo milione di lire incassato da musicista professionista in un’automobile: «Un’Alfa 33, che mi ha venduto un amico. Una schifezza. Ma già il fatto di riuscire a pagare le bollette e comprarmi la mia prima macchina, allora, era un grandissimo traguardo».

In oltre vent’anni di carriera, Francesco Renga, Max Pezzali e Nek di traguardi ne hanno tagliati parecchi, uno dopo l’altro. Ora sono in tour insieme, trainati dal singolo Duri da battere. Ci incontriamo a Milano, la sera prima hanno suonato a Torino e per loro è un bel day-off domenicale. «Hai dormito?», si chiedono l’un l’altro. Risponde per primo Nek: «In piedi, come i cavalli». È come se fossero membri dello stesso gruppo, compagni di band. Ma quel che li accomuna non sono solo i rispettivi successi discografici, o questa impresa collettiva partita negli scorsi mesi. Quando si parla di Nek, Renga e Pezzali, viene da sé tirare in ballo la provincia italiana: più che un’entità geografica-istituzionale, un luogo dell’anima. Un’anima trafitta da bottiglie di birra Ceres.

«Rivendico con orgoglio la mia provincialità», spiega Renga: «Me la coccolo, ho fatto crescere i miei figli lì, in provincia». Per la precisione, Brescia. «La provincia ti dà la possibilità di guardare alle situazioni più evolute con maggiore curiosità, con una fame diversa. Infatti con i Timoria cantavamo Milano non è l’America».
A proposito del capoluogo lombardo e degli Stati Uniti, in passato Pezzali ha dipinto un bell’auto-ritratto del giovincello di provincia che era: «Come Springsteen dal New Jersey guardava Manhattan, io da Pavia guardavo Milano». A distanza di anni, però, la lettura è differente: «Nell’era pre-internet quello che vedevi dell’esterno era quel poco che ti arrivava, per il resto dovevi unire i puntini. Negli anni ’80 Pavia era una situazione particolare. Una città universitaria, dove c’erano lo staff di Rockerilla e un giornalista come Claudio Sorge, etichette indipendenti che pubblicavano roba post-punk davvero strepitosa. A noi sembrava di essere esclusi dal mondo, ma in realtà eravamo un po’ il centro dell’universo». Un gruppo e un aneddoto su tutti: «C’erano i Not Moving, la cosa più vicina ai Joy Division e ai Cramps che potevi avere: erano di Piacenza. Fossero stati di Berlino, chissà come se ne parlerebbe ora. Il loro primo concerto l’ho visto al Celebrità: il bassista comincia a tagliarsi come Sid Vicious, ma rimane impressionato dalla copiosa fuoriuscita di sangue e sviene. Arriva la Croce Verde, concerto finito».

Il giovane Nek da Sassuolo non puntava Milano, ma sognava Modena: «Lì c’erano i negozi di dischi più grandi e quelli di strumenti musicali più forniti. E poi c’era lo stadio Braglia, dove hanno suonato tutti i più grandi, portati dal compianto David Zard. Per un po’ Modena è stata la capitale del rock: c’era un sottobosco musicale straordinario. Quando facevamo il festival dello studente, io ero un chitarrista deficientello con la riga da una parte, ma vedevo arrivare gente come i Ritmopolitan di Modena, che si vestivano come i Duran Duran, avevano la Yamaha DX7 e il Roland D-50. Loro firmavano autografi, ed erano conosciuti anche a Bologna. E poi c’erano i Rats e i Rocking Chairs». Breve nota: il batterista dei Rats ha suonato poi con Renga da solista, mentre alcuni membri dei Rocking Chairs hanno fatto parte della backing band di Luciano Ligabue.

Erano gli anni ’80. Perché i ’90 per Renga, Nek e Pezzali sono stati davvero tutta un’altra storia. «Quando uscì l’Uomo Ragno ero nei Timoria», ricorda Renga. «L’ho sentita e mi sono chiesto: “Ma chi cazzo è questo qua?!”. Lo trovavo geniale».
Mentre emergevano gli 883, i Timoria erano già diventati un caso nazionale: il primo gruppo rock italiano a firmare con una major, battendo sul tempo i Litfiba. Pezzali: «I miei amici rocker parlavano di quella band come il futuro del rock. Sono stati dei game-changer, hanno cambiato la percezione del genere in Italia».
Per Nek era una questione di vocalità: «Mi aveva colpito il modo in cui Francesco finiva le note, con quel vibrato particolare. Una grande voce, tra le migliori. A parte la mia». Si divertono, si prendono in giro tra loro.

Tocca a Renga ora: «Eravamo i pulcini del rock italiano, però avevamo questo cantato diverso dagli altri, che ha fatto scuola. Una volta Giuliano mi ha detto: “Ho cominciato a cantare perché ho sentito te”». Lo dice imitando l’accento e la cadenza di Sangiorgi dei Negramaro. Scoppiano tutti quanti a ridere.
Max Pezzali e Nek si sono incrociati per la prima volta al Festival di Castrocaro. «Abbiamo cominciato insieme, nel 1991. Bocciati entrambi. Un anno strano, quello: aveva vinto uno ma poi, a telecamere spente, assegnarono il premio a un altro». Chi vinse? Ricordano un po’ a fatica: «Bracco Di Graci, era un pupillo di Dalla».

Qui scatta l’aneddotica di Pezzali: «C’era un altro concorrente che mi raccontava come il proprietario dello studio dove aveva registrato andava in giro in macchina con un gorilla seduto di fianco». Domanda corale, legittima: «Ma una guardia del corpo o una scimmia?». La seconda, ovvio. A questo punto apriamo le gabbie, ed ecco il doppio ricordo di Filippo Neviani, in arte Nek: «A Modena c’era uno che andava in giro con un maiale nel bagagliaio. E anche Lucio Dalla girava con una gallina, oppure un caimano».
Ma qual è stato il momento in cui ognuno di loro ha detto a se stesso “ce l’ho fatta”, provincia alle spalle e Italia tutta conquistata? Per Nek, il trionfo di Laura non c’è a Sanremo, nel 1997: «Il giorno dopo la mia esibizione sono sceso nella hall dell’albergo e fuori c’era tanta gente. Pensavo di prendere una boccata d’aria, ma sono dovuto rientrare perché erano tutti lì per me. Ho pensato: “Qualcosa potrebbe aver girato nel modo giusto”».

Foto di Toni Thorimbert

Perché Sanremo è Sanremo, anche per Francesco Renga: «Sicuramente la vittoria al Festival (con Angelo, nel 2005, ndr) è stata la svolta. Ho capito che forse avrei potuto farcela: persino mio papà era contento, fino a quel giorno si vergognava di dire che lavoro facessi. “Eh, quello canta”… Ma io vivo di piccoli step: per me già la prima tournée in Europa dei Timoria era stata un grande risultato».
Max Pezzali, invece, ha pensato che la sua carriera fosse arrivata al capolinea proprio a Sanremo: «Nel 2011. Pezzo sbagliato, situazione sbagliata. Sono tornato a Milano il venerdì notte e mi sono detto: “Forse non ha più senso quello che faccio, meglio dedicarmi ad altro». Chiaro che non è finita lì, anzi.

Nonostante gli 883 e il successo solista, Pezzali non è tipo da darsi pacche sulle spalle: «Non mi sono mai detto: “Ce l’ho fatta”. Ho sempre questo senso di catastrofe imminente, credo che derivi dalle mie origini contadine. Un po’ come diceva mia madre: “È andato bene il raccolto, però attenzione alla semina! Cresce tutto bene, ma poi c’è la grandine!”». Ribatte Nek: «Sono contento! Pensavo di essere l’unico a non godersi appieno le cose». «Ci vuole consapevolezza», aggiunge Renga: «Come diceva Murphy: se qualcosa può andar male… Io ho capito che da solo non ce la fai. Funziona se sei Peter Gabriel o David Bowie, altrimenti devi avere intorno persone che ti criticano, aiutano, illuminano».

Ora, però, è il momento di lasciar stare il passato e concentrarsi su questa insolita band. Eccoli insieme: Max Pezzali, Francesco Renga e Nek, tre padri di famiglia intorno ai 50, duri da battere. Dalla prima positiva esperienza in studio è nato questo tour, dove condividono tutto: scaletta, pubblico, palco, anche il camerino. E nel backstage di cosa discutono? «Parliamo dei figli. Una volta nei camerini c’era tanta fi… Adesso ci sono i fi… E presto sarà la fi…». Indovinate chi dei tre ha risposto così.
Ma che musica ascoltano i vostri figli?

«Mia figlia l’altro giorno è andata a Roma a vedere il concerto di uno che si chiama…». Renga tentenna un attimo: «Uuultimo!». Pezzali: «Sfera Ebbasta di brutto». Nek: «La mia piccolina di 7 anni sta scoprendo Ghali. Entra in casa e canta… Com’è quella filastrocca? Tu fumi cannella». Renga, parlando ancora della figlia: «“Papà, quello lì è un bong!”. Ma… amore, hai 12 anni, che ne sai?”. “Come che ne so?!? Sei tu che vai con quel gruppo di sfigati!”».

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