Non pubblicava album da un bel po’ (Astronave Max, 2015). Non che sia stato fermo: in questi anni sono arrivati una raccolta con sette brani nuovi (uno con Nile Rodgers), un disco/tour con Nek e Francesco Renga, un po’ di televisione (The Voice of Italy, Che fuori tempo che fa). E avrebbe fatto pure due date a San Siro, se non fosse intervenuto il 2020. La verità è che di Max Pezzali si parla SEMPRE, è un punto di riferimento sia per la musica italiana degli ultimi trent’anni che – in generale – per la sua generazione. E per quelle successive, per le quali è la musica dei genitori. Per certi versi, pure troppo: in qualche modo, l’ex 883 è diventato una sorta di colonna portante del boomerismo italiano. Lo ha notato, non gli fa molto piacere, ma capisce come la cosa sia potuta succedere. Uno dei motivi principali è il suo atteggiamento verso il tempo che passa e i cambiamenti, uno dei temi forti di un disco che tuttavia auspica Qualcosa di nuovo.
Cominciamo dal lato musicale. Cosa vuoi che si senta nelle tue canzoni, oggi? Che suono vuoi avere per chi ti ascolta?
È un grande cruccio per chi ha fatto musica per anni e vuole fare un album in questo periodo. A me piace tener d’occhio le cose nuove, c’è una new wave di produttori fantastici soprattutto nel mondo della trap, ma se ci prova uno che ha il mio percorso alle spalle diventa una scimmiottatura. Anche chi fa canzoni pop melodiche come me, per esempio, può essere affascinato dalle batterie elettroniche con gli hi-hat ripetuti come nella trap, aiutano a dare un passo diverso a un pezzo dai bpm bassi. D’altra parte, accanto alle cose nuove mi capita di rivalutare la forza del pianoforte, ad esempio uno degli elementi che tiene insieme In questa città è l’intro di piano. Insomma, bisogna essere più attenti con gli ingredienti che non fanno parte da sempre del tuo mondo. Devi saperli dosare. Tipo il curry.
Ecco, entriamo in argomento. Molte canzoni di Qualcosa di nuovo evocano il passato. Tu hai scritto Gli anni quando avevi 26 anni, quindi non si può dire che sia un tema subentrato con l’età adulta. Ma è facilissimo pensare a te come a un nostalgico.
In parte, ammetto di avere una ossessione per un passato migliore, una specie di delirio ossessivo-compulsivo di voltarmi indietro per cercare qualcosa che non avevo più, qualcosa che mi mancava tanto. Ma non è il passato di per sé, quanto una nostalgia di certi aspetti di noi stessi che sono venuti meno con l’età, magari l’incoscienza, magari la fede nelle proprie possibilità e l’idea di avere davanti un futuro con mille opzioni, mentre col tempo le scelte si riducono.
Però la sensazione prevalente che i tuoi pezzi comunicano è che una volta la vita fosse più facile.
Lo sembrava. Ma per fare un esempio, i nonni apprensivi di oggi sono quelli che fumavano in macchina col bambino dietro, quelli che non si preoccupavano delle cose che potevano capitare ai figli in cortile e comunque minimizzavano, ti sei fatto male, ti bullizzano? Non è niente. La frase chiave era «non è niente».
Che però è un aspetto che oggi viene rivendicato dai 40-50enni, come dire «per noi la vita era più dura».
Ogni generazione racconta alle successive quanto era difficile e come hanno affrontato da fighi tutte le avversità, ma nel pezzo I ragazzi si divertono io ricordo il geometra del mio bar, un ex sindacalista che diceva a noi quello che molti miei coetanei dicono ai ragazzi del 2020: «siete una generazione di merda, non volete prendervi responsabilità, né crescere».
Ma poi è successo? Crescere, eccetera?
In parte ti tocca, ma non è che il mondo ti aiuti. Forse sono intervenute molte circostanze che hanno assecondato quella irresponsabilità. La mia è l’ultima generazione che ha visto gli anni di piombo e la Guerra fredda, il mondo prima di internet, ma oggi usa internet e i social. Siamo un trait d’union tra i mondi, potremmo dare un contributo importante ma la verità è che il boomerismo nasce perché i ragazzi vedono i nostri profili Instagram e si vergognano per noi, «come cazzo si fa!». Il nostro tentativo di rimanere aggiornati, di rimanere nel tempo giusto spesso è interpretato come un’invasione di campo. Per cui tutto l’album è una rincorsa tra il cercare di essere credibili per i giovani portando un’eredità, cercare di spingerli verso la narrazione di sé, la propria narrativa.
Non ne hanno una?
Mi pare che vivano in una sorta di sospensione, anche se loro hanno un modo più rapido del nostro nel processare l’informazione, essendo nativi del mondo delle fake news e delle post verità sono scettici di natura, sanno che i loro gusti sono pilotati dagli algoritmi. Ma non si capisce ancora se la cosa li preoccupi o la facciano propria.
Bene, ma non intendo cambiare argomento finché non mi dici qualcosa di male sui decenni passati.
Ma ho due milioni di cose che potrei dire contro quegli anni. A partire dalla politica: si dice che oggi non abbiamo grandi statisti, ma non mi pareva che in Italia negli anni 80 ci ritrovassimo con Adenauer. Vivevamo in una Repubblica in cui il primo pensiero dei genitori per i ragazzi era «chi conosciamo per sistemarti?». Era un sistema-Paese in cui tutti come e forse più di oggi ricorrevano all’amicizia per un favore, anche solo una multa. Era un Paese clientelare, di menzogne continue su Ustica, Bologna, atti terroristici, rapporti con Paesi stranieri. Gli anni ’70 erano bui e gli ’80 non erano uno splendore. C’erano i Talking Heads, ma pure i Modern Talking, ahaha!
Nella memoria collettiva vanno forte i ’90.
Di quelli posso trovare un argomento positivo al contrario: da tutte le cose negative nasceva la sensazione che il futuro sarebbe stato meglio. Per esempio, le stragi di mafia del ’92 portarono orrore, costernazione e sgomento ma la risposta degli studenti a Palermo in piazza e la fase degli arresti fecero sperare per un attimo: vuoi vedere che la mafia potrebbe essere distrutta? Oppure, quando la corruzione superò il livello di tollerabilità e arrivò Mani Pulite, anche lì pensammo «vuoi vedere che…». E poi la caduta del Muro di Berlino, la prima fase dell’Unione Europea… Insomma, c’era una propensione a sperare.
O a illudersi.
Si sa che sono cose che confinano.
Ma musicalmente, è giusto avere nostalgia?
Negli anni ’90 era tornato il rock, dopo anni di pop ed hair metal. Arrivarono i Nirvana e la scena grunge che era a suo modo un ritorno del punk. E la dance divenne più varia e interessante. Ho la sensazione che nell’immaginario i decenni prima del Duemila siano rimasti cruciali, sono diventati dei generi. Ogni anno escono dischi definiti anni ’80, ma non sono nostalgici, il disco di The Weeknd è anni 80 come quello di Dua Lipa è anni ’90, ma non c’è nessuna intenzione di revival, è come se tu volessi fare un disco di bossa nova: è quella, non è che c’è una nova bossa nova… Se un linguaggio ti somiglia, lo prendi senza voler fare una specie di affermazione su un’epoca, che sia quella attuale o una passata. La prendi per come suona, da Post Malone al revival dei Fleetwood Mac su TikTok. Sono tutti mattoncini di una costruzione che è il mondo oggi. Ai ragazzi suona nuovo comunque, quindi l’aspetto interessante è che alle orecchie suoni bene, senza analisi di alcun tipo.
Però “i ragazzi” è un insieme un po’ enorme. I 12enni ascoltano molta musica, ma è diversa da quella dei 22enni.
I pre-teen assemblano tutto, senza attitudine. I ventenni invece cercano la propria narrazione, e questo li ha riportati all’indie, che non sono i Baustelle, ma Coez, i Pinguini, il piccolo che diventa grande, e mi viene da dire che è un’attitudine che arriva dai miei tempi, da quel mondo lì. E torna la canzone.
Stiamo parlando di tutto tranne che del genere dominante. Che è tra l’altro un genere che ti è sempre stato contiguo, il rap.
Io stravedo per Salmo, la Machete, Carl Brave – poi, però ho l’età per sapere che la musica non è solo quello. Anche se se ne parla come se lo fosse diventata.
Ci sono tre rapper nel tuo album. Uno è Gionny Scandal, gli altri due però ti sono molto vicini per età e formazione, J-Ax e Tormento. Diciamo che sei sfuggito al cliché dell’artista senior che si dà la rinfrescata con gli idoli dei giovani.
Io cerco di raggiungere sia i miei coetanei che i più giovani. Non è semplice, sono due mondi che sono molto separati, e dal punto di vista musicale in particolare. Però mi insospettisce come venga assecondata la divisione della musica in barriere generazionali. Il pop si è evoluto, da quando si è smaterializzato il concetto di musica non posso pensare che Vasco Rossi sia diventato meno importante. Quando uno vede come è strutturato l’act, proprio come è strutturata la narrativa, dice «Questa è l’America».
Però intendiamoci, non è un demerito per i rapper. Si trovano in una situazione strana, come se tutti guardassero solo una parte dell’edificio e non tutto quanto. La massa critica della musica in Italia ha bisogno di tutte le sue componenti, anche quelle che non sembrano à la page. La verità è che la percezione che abbiamo oggi della musica dipende molto dall’aver fatto di nuovo un vecchio errore, con un nuovo media. Ieri abbiamo dato il volante alla radio, poi alla tv, lasciando decidere a loro, e adesso ci gettiamo tra le braccia delle grandi corporation di servizi che ti utilizzano come contenuto qualunque. Attenzione però perché sono piattaforme, si basano sui numeri e non sulla passione. Se la musica è un asset, se tu demandi a settori industriali diversi, tu poi non conti un cazzo in confronto ad altri contenuti più vendibili e con più ritorni, tipo le serie tv. Alla fine ti ritrovi con la gente che è contenta se i lavoratori della musica vanno in rovina. La musica è come il mazzo di fiori che puoi avere in casa, ma puoi anche non averlo.
Oh, inizio a sentirti arrabbiato. È una delle cose che si sono perse rispetto ai tuoi primi album, dove in molti pezzi si sentiva un fondo di rabbia e rancore.
Era un’eredità della mia formazione adolescenziale punk, essere un po’ iconoclasta verso il buon senso comune.
Poi sei cambiato?
Ho cercato di sviluppare una qualità: comprendere le ragioni di chi mi sta sulle palle. Le difficoltà delle persone che non condivido. In certi momenti mi sono sentito incoerente con me stesso, ma ho capito che diventare grande significa scendere a compromessi. Perché sarai anche artista, ma sei anche quello che poi deve andare a colloquio con i professori, sei quello che deve andare a parlare in banca per il mutuo, io da giovane lo vedevo come la morte invece diventi quella cosa. La parte negativa del crescere non è diventare vecchi anagraficamente, sono le responsabilità, sono i legami che ti obbligano a compromessi anche piccoli, ma a 20 anni non lo puoi sapere.
Quindi reprimi la tua vera natura?
No. Impari la filosofia del judoka. Usare l’energia che dovrebbe abbatterti a tuo vantaggio.
E il Qualcosa di nuovo cos’è?
È capire che serve un cambio di passo. Oggi in giro c’è qualcosa che dovrebbe farci prendere in considerazione un nuovo inizio, valutare cosa siamo. O perlomeno provarci.