All’inizio degli anni ’90, all’autore, produttore e polistrumentista Stuart Matthewman, noto per il lavoro fatto con Sade, è capitato di ascoltare una demo impressionante: una ballata lunga quasi sette minuti, che si apriva per lasciare spazio a un falsetto temerario e una linea di basso elegante come una scala a spirale, che parlava di una relazione sessuale talmente estatica da continuare per due giorni, fino all’arrivo della polizia.
«Uno dell’etichetta mi ha detto che era di un nuovo artista e se mi andava di incontrarlo», ricorda Matthewman. «Ho risposto che lo trovavo fantastico, ma mi sembrava già sentito». Qualche tempo dopo Karl Van Den Bossche, percussionista e collaboratore di Sade, ha fatto una session a New York con il giovane autore di quella demo, un ragazzo di Brooklyn sconosciuto di nome Maxwell. Van Den Bossche è andato a trovare Matthewman portando Maxwell.
I due hanno poi collaborare in alcune canzoni di Urban Hang Suite, l’album di debutto uscito 25 anni fa che Maxwell ha festeggiato con una ristampa e una performance ai NAACP Image Awards. Si tratta del suo disco migliore, la dimostrazione che la tradizione R&B precedente all’hip hop aveva ancora un senso, creativo e commerciale, in un’epoca in cui il rap già dominava la cultura mainstream.
Urban Hang Suite è raffinato e cazzuto, eppure all’epoca Maxwell non aveva idea di quale fosse il suo posto nell’industria discografica. All’inizio degli anni ’90 era innamorato di Marvin Gaye, Prince, Graham Central Station, del suono caldo porodotto in studio con la console Neve, ma non era certo di voler fare il cantante. «Cercavo di entrare a far parte nel mondo della musica come autore», ricorda. «Non ero sicuro di voler stare in prima linea. Ho visto come le persone trattate e distrutte dai media, non pensavo di avere la pelle abbastanza dura».
Pensava anche di non avere il diritto di creare il tipo di R&B che amava tanto. «Mia madre è di Haiti e mio padre di Porto Rico, io sono nato a Brooklyn e non nel Sud. Mi chiedevo: merito di far parte di questa tradizione? Ci pensavo spesso, era una cosa che veniva sempre fuori con tutti quando cercavo di iniziare».
Il fatto che Maxwell si sentisse fuori posto può avergli reso più semplice emanciparsi dalle mode dell’epoca. La radio dei primi anni ’90 era piena di incroci tra rap e R&B: il New Jack Swing e l’hip hop soul basato sui campionamenti avevano reso le commistioni tra i generi sempre più comuni. Tuttavia, dice Matthewman, tutto suonava programmato. «Quello che facevamo noi, invece, sembrava suonato dal vivo perché lasciavamo spazio per respirare ad altri strumenti, che si appoggiavano alle voci. Nessuno faceva assurdi assoli smooth jazz».
Maxwell ha assemblato uno strano gruppo di musicisti: non solo Matthewman, che dice che il cantante «era innamorato del disco di Sade Love Deluxe», ma anche Leon Ware – cantante, autore e produttore che, in uno dei gesti più generosi della storia della musica, ha donato un intero disco solista a Marvin Gaye, disco che poi è diventato l’LP I Want You – e Wah Wah Watson, un chitarrista che aveva suonato in Let’s Get It On (sempre di Gaye) e Off the Wall di Michael Jackson.
«Avevo 22 anni e loro 50 o 60», racconta Maxwell. «Pensavano che l’industria avesse chiuso con loro. Io invece mi ero presentato dicendo: penso che voi siate incredibili».
Sono solo alcuni degli elementi della gran quantità di culture che secondo il cantante ha dato vita a Urban Hang Suite. Maxwell ha chiamato anche il chitarrista Hod David, che ha co-firmato tre pezzi e non ha più smesso di collaborare con lui, e altri veterani con curriculum invidiabili: David Gamson, già membro degli Scritti Politti che aveva prodotto dischi di Chaka Khan e Sheila E.; Mike Pela, produttore e fonico per Sade e Fine Young Cannibals; e Itaal Shur, che farà i soldi co-firmando una hit gigantesca di Santana, Smooth.
La prima parte di Urban Hang Suite è primaverile e soave. Si apre con The Urban Theme, un’introduzione funk senza voce, piena di chitarra col wah-wah. Il brano verrà ripreso più avanti in forma differente, un trucchetto che Gaye ha usato due volte in I Want You. L’etichetta pensava che l’idea di iniziare l’album così fosse sconcertante. Lo diceva il capo dell’A&R: «ma a che serve lo strumentale?». Maxwell aveva risposto che «è proprio quello il punto, l’idea è aprire il disco con uno strumentale e chiuderlo con lo stesso pezzo, ma in versione più lenta».
Dopo l’introduzione arrivano quattro brani dolcemente ballabili, tra cui Sumthin’ Sumthin’, scritta con Ware – originariamente si intitolava Hot Chocolate, ha una linea di basso che si contorce come una frustata, la più aggressiva del disco –, e il singolo Ascension (Don’t Even Wonder), scritta con Shur e originariamente intitolata XXX.
Ascension ha venduto più di un milione di copie, e non è difficile capire i motivi: il groove semplice e scivoloso; la melodia in falsetto con cui Maxwell apre il pezzo; la strana costruzione del ritornello, un po’ dubbioso e un po’ empatico; la sottile rullata che lo precede. Maxwell chiude la prima parte del disco con la demo che colpì Matthewman, …Til the Cops Come Knockin’, scritta da Hod David e con una linea di basso che ricorda lo stile della leggenda Motown James Jameson.
La seconda parte di Urban Hang Suite è più sommessa, piena di ballate quiete. Whenever Wherever Whatever, un brano scritto con Matthewman ma privo di batteria, in cui Maxwell canta su uno sfondo di chitarre acustiche, è l’omaggio più evidente a Sade. «Amavamo quella musica, era così semplice», ricorda Matthewman. «Un tipo dell’etichetta ci aveva detto: “è bellissima, ma non arriva la batteria?”» (no, non arriva). Se Whenever Wherever Whatever dimostra l’abilità di Maxwell a cantare su registri alti, Suitelady (The Proposal Jam) è più graffiante, basata su ritmiche non così diverse da quelle che all’epoca sperimentava anche Prince.
Negli anni successivi all’uscita, Urban Hang Suite è stato citato, insieme a Brown Sugar di D’Angelo (1995) e Baduizm di Erykah Badu (1997), come uno dei dischi fondamentali del neo soul. Quei due album, però, sono molto diversi. La musica di Maxwell è più ariosa, adatta alla pista da ballo, con un ritmo che si spinge oltre ai 95 bpm, in zone dove Brown Sugar non si avventura mai e che Baduizm frequenta saltuariamente.
In più, il motore ritmico di D’Angelo e Badu era puro hip hop – i loro dischi di debutto sono stati prodotti in parte da Bob Power, fonico che ha contribuito al mix di The Low End Theory degli A Tribe Called Guest. In più, in Baduizm c’è anche il contributo dei Roots. Urban Hang Suite è invece puro soul, un disco con antenati come Risin’ to the Top di Keni Burke, Haunt Me di Sade, la band inglese Loose Ends – «amavamo il loro mix tra drum machine e strumenti live», dice Matthewman – e Shuggie Otis, tra gli altri.
L’album non è stato pubblicato per quasi un anno dopo essere stato iniciso («è successo anche con Sade, avevano paura di pubblicare», dice Matthewman, «hanno aspettato parecchio prima di far uscire il nostro primo album in America»). «Vivevo in un appartamento studio con una finestra che si affacciava su un muro di mattoni», ricorda Maxwell. «Avevo il disco nella mia piccola cassetta, mix e mastering erano di Tom Coyne, che ora non c’è più. Era un genio del mastering. Me ne restavo seduto lì ad aspettare».
L’ambivalenza sul suo percorso artistico è rimasta anche dopo che Urban Hang Suite è arrivato nei negozi, nell’aprile del 1996. «Non volevo la mia faccia in copertina», dice ora Maxwell. «Sembra una scelta di marketing ovvia, oggi, ma avevo paura di quello che sarebbe potuto succedere. Volevo il successo, ma segretamente avevo paura».
«Poi è uscita Ascension», aggiunge, «e a quel punto l’idea di non avere visibilità non funzionava più».
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.