A livello di percezione, Meg è un’artista senza tempo e senza età. Negli anni ’90, quando ha iniziato la sua carriera con i 99 Posse, alle orecchie di noi italiani il suo pop elettronico suonava talmente futuristico e sofisticato che ci sembrava già molto più matura dei suoi vent’anni e spicci. Nel 2022, dopo aver potuto ascoltare in anteprima il suo nuovo singolo Non ti nascondere (in uscita il 29 aprile prossimo), possiamo anticiparvi che la sua attitudine suona talmente fresca e contemporanea che si fatica a credere che di anni ne faccia 50 quest’anno. Il brano, co-prodotto da lei e Frenetik, segna il suo ingresso in una delle label italiane più interessanti del nuovo millennio: Asian Fake, la stessa che ha lanciato Venerus, i Coma_Cose, Ginevra, Ketama126 e tanti altri, e che ha dato una nuova propulsione alla carriera di leggende come Inoki.
«Ho ricevuto un’accoglienza fantastica e soprattutto ho capito che avrei avuto la possibilità di mettere la musica e la creatività al primo posto: se non fosse stato così, non mi sarei mai convinta a pubblicare un album sotto etichetta», dice Meg, visibilmente felice all’idea di questa nuova avventura, che coronerà con un album di imminente uscita e con un concerto sul palco del MiAmi, il prossimo 28 maggio. Notizia che ha allietato particolarmente i suoi fan, visto che il suo ultimo disco autoprodotto, Imperfezione, risale al 2015 (seguito dall’album live Concerto ImPerfetto, del 2017). In un’epoca di consumi iper-accelerati, non è un lasso di tempo breve.
«C’è stato un momento in cui, per via della guerra, mi sono chiesta: “Ma che cacchio la faccio a fare, la musica? Perché io posso fare un lavoro che mi piace così tanto, e a poca distanza da me ci sono persone che soffrono fino a questo punto?”. È come se questa tragedia avesse tolto senso alla dimensione creativa. Non ti nascondere parla anche di questo: del sentirsi inadeguati, come se non ci fosse un posto per noi a questo mondo. E del valorizzare ciò che c’è di buono: se abbiamo la fortuna di essere felici, abbiamo il dovere di esserlo. La nostra missione, forse, è proprio questa: portare gioia ed energia a chi ci circonda. Non solo come esseri umani, ma anche come artisti. Quando ascoltiamo una canzone, guardiamo un film, ammiriamo un quadro, è come se dentro di noi si accendesse un fuoco. Quando capita a me, provo profonda gratitudine per chi ha plasmato quell’opera. Ed è proprio questo che dobbiamo fare: continuare ad accendere fuochi. Così, pian piano è venuto fuori questo disco».
Quando è scoppiata la pandemia eri discograficamente ferma già da un po’. Eri intenzionata a ricominciare?
Per niente! Non sono mai stata una di quelle musiciste che deve per forza fare un album ogni due anni, ho sempre cercato di seguire i miei ritmi. Poi, però, c’è stato un incontro pazzesco, quello con Frenetik. Mi ha raccontato che da ragazzino veniva a tutti i miei concerti, che ci incontravamo in manifestazione, e mi ha invitato in studio da lui per fargli sentire le mie nuove canzoni. La prima che gli ho fatto ascoltare è stata proprio Non ti nascondere: a metà del pezzo si è girato verso di me e ha detto, entusiasta, «Maria, questa la devi per forza fare con me, ti prego!». Dopo qualche traccia, ha alzato la posta: «Maria, ma perché non vieni con me in Asian Fake?» (ride). E mi sono chiesta: già, perché no? Così, negli ultimi sette mesi abbiamo accelerato il processo e ora abbiamo 12 pezzi praticamente pronti.
Negli ultimi anni, il mercato musicale italiano ha subìto delle trasformazioni radicali. Un «largo ai giovani» che spesso, portato agli estremi, finisce quasi per svalutare tutto ciò che c’era prima del loro avvento. È un problema che hai vissuto anche tu?
Capisco quello che dici: oggi, per l’industria musicale, a vent’anni si è già vecchi. Il problema non me lo sono mai posto, però, anche perché non mi interesso granché di classifiche, non so neanche chi ci sia alla numero uno in questo momento. Un musicista non dovrebbe mai lavorare pensando al mercato, una cosa che quando ho iniziato io, negli anni ’90, era ben chiara a tutti. Anzi, la norma era fare il possibile per tenersene alla larga, perché le cose interessanti arrivavano da tutt’altra parte. Da ragazzina mi sono trovata per la prima volta a fare canzoni grazie ai collettivi, agli spazi autogestiti, alle esperienze e conoscenze condivise. Si partiva da situazioni alternative, auto-organizzate e spontanee, che nascevano per necessità, e solo in un secondo momento venivamo corteggiati dalle case discografiche. Avevamo la possibilità di mettere al centro le nostre condizioni, quando firmavano un contratto, e già avevamo un’infarinatura di come funzionavano le cose. Entrare nei 99 Posse, per me, è stata una masterclass: avevo 21 anni e fin da subito mi sono arrivate ondate di informazioni su diritto d’autore, edizioni musicali, royalties… Il lato positivo dell’evoluzione, però, è che grazie alla rete ora anche molti ragazzini hanno accesso a un sacco di nozioni. C’è una grande consapevolezza, da parte di molti di loro. Forse, però, la cosa di cui non sono consapevoli è che rischiano di entrare in un tritacarne che li maciulla molto velocemente. Ma se ti si apre una porta, è giusto attraversarla e vedere come va.
Ti metti nei panni di questi giovani artisti, insomma.
Mi sento molto solidale nei loro confronti, sì. Da quando ho ricominciato a registrare musica, mi è capitato di incontrarne parecchi e di confrontarmi con loro. A volte è una situazione curiosa, perché molti di loro mi conoscono perché i loro genitori ascoltavano la mia musica: è un corto circuito interessantissimo e molto stimolante. Il sound di oggi non mi dispiace affatto. L’Inghilterra resta sempre la mia scena preferita, amo molto la drill, ma apprezzo anche i rapper americani, perfino quelli più commerciali come Travis Scott e Drake. La loro Sicko Mode è favolosa! Adoro anche l’elettronica attuale, e sono molto contenta che la drum’n’bass sia tornata in auge: al momento sono in fissa con Alcemist, che è un artista giovanissimo, e con gli Overmono. E guardando all’Italia, apprezzo Bawrut, Daniel Plentz dei Selton, i fratelli Fugazza. Napoli resta un punto di riferimento: mi sono innamorata dei Thru Collected, un collettivo di ragazzi freschissimi che mi hanno ricordato molto i 99 Posse (scrivono, cantano, producono, si fanno le grafiche) e J Lord, un rapper che non sente il bisogno di ostentare o dimostrare qualcosa.
A proposito di questo: nella tua storia personale, musica e messaggio sono sempre andati di pari passo. Oggi, invece, spesso l’apparenza regna sovrana, non solo nel senso dello sfoggio, ma anche perché spesso i brani non hanno un significato forte. Come ti spieghi questo svuotamento di senso?
Non vorrei ritrovarmi a fare discorsi da vecchia che si lamenta dello status quo. Secondo me, da una parte in Italia è venuto a mancare un movimento che faceva un po’ da volano per un certo tipo di tematiche, incoraggiandone la diffusione. Questa forza propulsiva al momento non c’è più, è tutto lasciato alla buona volontà dei singoli. Non esistono più luoghi in cui i ragazzi possono parlare delle proprie esigenze e della vita reale: tutto è filtrato dai social, e tutto diventa un po’ falsato, freddo. In più, c’è anche da dire che la quotidianità è sempre più difficile, è un’impresa perfino trovare un lavoro qualsiasi. In questa situazione, automaticamente i soldi diventano la cosa più importante, e diventa normale cantare di questo. Detto ciò, anche noi dei 99 Posse abbiamo fatto anche canzoni vacue, credo sia abbastanza normale che possa capitare.
Come nascono le tue canzoni, ultimamente?
Dipende. A volte so già qual è l’argomento di cui voglio parlare, e cerco di trovare le parole chiave, quelle che mi fanno risuonare meglio il concetto. Altre volte, viceversa, sto riflettendo su qualcosa, all’improvviso mi emoziono e mi rendo conto che sono arrivata a un punto cruciale di quel ragionamento, e che varrebbe la pena includerlo in un brano. O ancora, ho una strumentale che mi ispira un mondo e si accende una lampadina, tipo flusso di coscienza. Come dice David Lynch nel libro Acque profonde, viviamo in un mondo in cui le idee fluttuano come pesci, e dobbiamo solo avere la premura di lanciare una lenza in acqua e pescarle. Bisogna un po’ sfatare il mito dell’ispirazione, quello del «mi fumo una canna e arriva». Certo, può aiutare, soprattutto se sei pischello, ma andando avanti negli anni mi sono resa conto che se ti siedi e lavori, qualcosa di buono esce. Soprattutto se ormai ti conosci e ti fidi del tuo gusto, la paura del foglio bianco diminuisce.
In che modo il contesto e la fase che stai vivendo finiscono per riflettersi nella tua musica?
Già ai tempi dei 99 Posse, in Sfumature, dicevo che dal particolare arriva l’universale, che dalle piccole cose puoi tirare fuori i massimi sistemi. Per esempio Imperfezione, il mio precedente album, è stato scritto in un periodo in cui vivevo a New York, e la prima traccia, Concerto per, nasceva dal fatto che la città è una sorta di orchestra, ogni elemento è estremamente sonoro. Prendi la metropolitana e sei travolto dal ritmo, nel vagone ci sono persone che parlano tutte le lingue del mondo… È impossibile non emozionarsi. Anche Skaters nasce dall’esperienza newyorkese: sotto casa mia al tramonto arrivavano un sacco di ragazzi in skate, e quasi senza volerlo a un certo punto mi è uscita la frase «Metti un buon paio di ginocchiere / e se cadi tirati su / Non è più tempo di temere il vento / lasciati andare giù». Un’ottima metafora della vita, dettata dalle vibrazioni di quel luogo.
E le canzoni a cui stai lavorando oggi, che vibrazioni trasmettono?
Una grande carica, le ritmiche ne sono protagoniste. E anche un grande entusiasmo, quello che deriva da collaborare con persone come Frenetik, che ha la capacità di contagiare tutti quelli che gli stanno intorno con la sua energia. Parlano delle mie radici, ma anche della voglia di essere in giro per il mondo. Di uno spirito che si addormenta, come un vulcano, ma che quando si risveglia è capace di creare dei momenti di grande vivacità. È un disco di opposti, come Napoli, che contiene un lato intimo e uno potente. Ma soprattutto, è un disco di rinascita. In momenti storici così difficili, già solo il fatto di cantare è rivoluzionario: è qualcosa di ancestrale, che come esseri umani facevamo ancora prima di sviluppare il linguaggio, per vincere la paura e per farci dire «Io esisto e resisto». Due parole che non a caso si assomigliano. A te che ascolterai le mie canzoni: sei speciale, ce la puoi fare, non ti nascondere.
Hai co-prodotto Non ti nascondere e molti altri brani, tra l’altro…
Ho un carattere molto solitario, come dicevo prima: amo molto starmene rintanata, e quindi scrivere e produrre in studio mi piace anche più del live. Trovo che mi si confaccia di più, non so come dire. Sono felicissima anche di tornare a suonare dal vivo, però: sarà emozionante, straniante, esaltante. Il sentimento prevalente è la felicità, non l’ansia di sbagliare. Penso che tutti, sia chi sta sul palco che chi sta sotto, abbiamo voglia di ritrovarci e celebrare il fatto che siamo ancora qui. Dopo tragedie come quelle che abbiamo vissuto su scala globale, i concerti devono essere degli atti liberatori, dei riti propiziatori. È l’unico modo per reagire e rispondere.
Approfittiamo di te per un’ulteriore riflessione di sistema: qualche settimana fa abbiamo pubblicato un articolo sulla presenza femminile nell’industria musicale. Da cantautrice e produttrice, ti sei fatta un’idea sull’argomento?
Sicuramente oggi siamo molte di più rispetto a quando ho cominciato io: ero sempre l’unica ragazza nella stanza e non è più così. La mia manager è donna, il mio ufficio stampa è donna, tu che mi intervisti sei una donna… C’è ancora tanto da fare, ma lentamente aumenta anche il numero di cantautrici, produttrici, tecniche del suono. Che spesso trovo molto più brave dei colleghi uomini, tra l’altro. Però rimane comunque un ambiente estremamente maschile, come quasi tutti gli ambiti lavorativi, d’altra parte. La minore esposizione deriva anche un po’ dal fatto che, paradossalmente, le donne sono grandi ascoltatrici di musica, e quindi l’industria propone loro più soggetti maschili, convinta che sia quello che vogliono. E poi ovviamente c’è un po’ un pregiudizio nei confronti della donna artista, che viene considerata meno capace. Un esempio tratto dalla mia esperienza: quando dico che produco o co-produco i miei brani, l’informazione non viene proprio recepita dal mio interlocutore. E all’inizio della mia carriera mi chiedevano addirittura chi mi scriveva i pezzi, perché la possibilità che lo facessi da sola non era neppure contemplata. Prima ne soffrivo molto di più, ora cerco di andare dritta e dimostrare facendo. E mi sento di dire a tutte le ragazze che leggono questa intervista: lavorate, suonate, scrivete. Imparate a usare i software di produzione, che non sono così difficili, anzi: sono un mezzo espressivo potentissimo. Lasciate che il vostro talento emerga.