Meglio una bella storia di una hit: intervista doppia a Vasco Brondi e Ariete | Rolling Stone Italia
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Meglio una bella storia di una hit: intervista doppia a Vasco Brondi e Ariete

I due hanno pubblicato oggi il duetto ‘Meccanismi’, nuova versione del pezzo di ‘Un segno di vita’. Li abbiamo fatti conversare sulla canzone, le differenze generazionali, il valore dei numeri, il mestiere di cantautore in questi anni ’20

Meglio una bella storia di una hit: intervista doppia a Vasco Brondi e Ariete

Vasco Brondi e Ariete

Foto: Annapaola Marin

Chi avrebbe mai pensato a una collaborazione del genere? Fino a qualche tempo fa neanche i diretti interessati, che lo ammettono candidamente. Invece è successo e non sembrano c’entrare (non solo) logiche commerciali, numeri, visibilità, perché più si confrontano sul mestiere del cantautore e più trovano punti in comune.

Così Vasco Brondi (40 anni) e Ariete (22), al di là di generi e generazioni, ci hanno raccontato com’è nata l’idea di provare a dare una nuova forma a Meccanismi, singolo estratto dall’album del musicista ferrarese Un segno di vita. Ne abbiamo approfittato per chiedere loro della canzone e di molto altro. Non si sono tirati indietro: la distanza tra le loro generazioni, il mercato dominato dai numeri (che mette ansia, ma si può gestire), la voce che deve essere «connessa al proprio centro emotivo», le belle storie «che hanno dieci punti in più rispetto alle hit».

Vasco, seguendoti dagli esordi non mi sarei aspettato una collaborazione come questa. Immagino di non essere il primo a fartelo notare.
Vasco Brondi: Prima di incontrare Ariete non avrei potuto immaginarla neanche io. Poi l’ho vista dal vivo alla Triennale di Milano dove si è presentata sul palco chitarra e voce. Sono rimasto ipnotizzato e ho capito meglio cosa avevo intuito dalle sue canzoni.

Che cosa?
Vasco: Che quel presentarsi sul palco chitarra e voce era estremo per la sua generazione. Altri sarebbero saliti sul palco con le basi. Che va bene, ma è una questione di stile. Invece vederla sola-contro-tutti, quando avrebbe potuto avere una band, mi ha colpito tantissimo. In particolare che fosse sicura di sé e nello stesso tempo tradisse una traccia di emozione, di tremore. Una palpitazione che si ha agli esordi, anche se lei non è certo agli esordi. Ho riconosciuto una mia simile. Così ho ascoltato meglio i suoi brani e ho scoperto una voce speciale. Anche perché avere una voce non è salire e scendere dalle scale, ma avere una voce connessa al proprio centro emotivo. Per me lei ha quel tipo di virtuosismo.

E a te, Ariete, cosa ha convinto?
Ariete: Il brano. Credo nella musica condivisa, a prescindere dall’età, dal genere, dal tipo di cantato. Gli unici aspetti che contano sono se c’è un bel pezzo e se c’è una bella persona dietro. In Vasco ho trovato uno spicchio della mia personalità. Conoscevo le sue canzoni, anche quelle delle Luci della Centrale Elettrica. La musica ci fa andare oltre ogni immaginazione, anche quando si tratta di allacciare delle collaborazioni.

Vasco, perché proprio Meccanismi?
Vasco: È l’ultima canzone del disco che avevo registrato, ma già allora avevo pensato a lei. Solo che ero in un momento di pressione per la consegna dell’album e quindi ho preferito non complicarmi la vita. Finché un bel giorno ho pensato di dare una seconda vita al pezzo, che tra l’altro è uno dei miei preferiti. Non sapevo come sarebbe andata, invece Ariete è stata da subito disponibilissima.

Meccanismi (con ARIETE)

Nel presentare il feat hai parlato di «verità nella voce di Ariete» e tu Ariete dell’importanza del testo in una canzone. Sono aspetti che in quest’epoca sono un po’ trascurati?
Ariete: Credo che la ricerca sui testi sia stata abbandonata dalla mia generazione. Il testo è la prima cosa che mi arriva quando ascolto una canzone. Il pezzo può essere orecchiabile o meno, può essere di nicchia o una hit, ma è il testo che mi permette di entrare nella testa dell’autore, nelle sue emozioni. E di testi belli ce ne sono, anche al di fuori della cerchia dei cantautori storici. Quando ho sentito Meccanismi e l’ho analizzata mi sono detta: questo è un bel testo e una bella storia da raccontare. E per me le storie belle hanno dieci punti in più rispetto alle hit da radio che non contengono niente.
Vasco: A me viene in mente quel che diceva De André, più o meno scherzando, e cioè che per lui la musica era un tram che portava in giro le parole. Che significa anche che il tram serve, quindi la musica è indispensabile. È uno strano meccanismo, un’alchimia dove non si sa dove finisce una cosa e ne inizia un’altra. Come Ariete, anch’io sono cresciuto con parole importanti nella musica, che fossero di De André, di De Gregori, di Battiato, dei CCCP o degli Afterhours. I tre minuti e mezzo di una canzone diventano più ampi quando si usano parole, situazioni, luoghi e riflessioni che prima non ci sono mai stati. Come fa Ariete, che inserisce parole che fanno parte delle comuni conversazioni intime. È così che la canzone acquista una eco fortissima. Per me è fondamentale che le canzoni non contengano parole da canzone. L’importante è che tutto giri bene musicalmente, che ci sia dell’intimità, ma anche qualcosa di più grande. L’attualità, cioè parlare dei nostri anni, così come una scintilla di eternità.

«È fondamentale che le canzoni non contengano parole da canzone»

Vasco Brondi

Si sottolinea spesso che cosa divide le generazioni, ma cos’è che unisce le vostre?
Ariete: In passato, e questa cosa la apprezzo, era più difficile lasciare un segno rispetto a oggi, con sedicenni che già riescono ad avere contratti con le major e pensano solo ai soldi e all’apparire. Guardo con stima chi ha fatto musica in un periodo in cui arrivare in radio non era così facile e Sanremo era molto più selettivo. Della generazione di Vasco rispetto anche la cura dei dettagli e il fatto che abbiano dato vita a una grande scena indipendente, che si sia evoluta una nuova scena di cantautori che vorrei portare avanti. Come diceva prima Vasco, il valore di salire su un palco con una chitarra o l’essere autori delle proprie canzoni. Pur sembrando controcorrente, vorrei continuare su questa strada.
Vasco: Cerco di frequentare musicisti che hanno ormai vent’anni meno di me e in loro trovo tanta ispirazione. Penso alla possibilità di partire con tutti i pronostici contro e riuscire a fare questa strana vita dedicata alla musica. In Ariete questa cosa la sento forte. Ottenere quel che vuoi senza fare tanti compromessi. Di loro mi piace anche la possibilità di sconfinare, di essere fuoriluogo, di non dover rispettare per forza i generi e gli abbigliamenti. Questo genera una grande libertà creativa. Non era così un tempo, è una cosa che ho patito della mia generazione.

Foto: Annapaola Marin

Negli anni ’90 chi usciva dall’ambito indie veniva accusato di essersi venduto.
Vasco: Nel 2008 quando sono uscito con il demo andava tutto bene. Quando invece il demo è diventato un disco che ha vinto il Premio Tenco e i concerti iniziavano a essere pieni e non più nei centri sociali, sono diventato un nemico pubblico. Adesso non c’è più questa follia, che hanno subìto anche gli Afterhours, i Baustelle, Calcutta. C’era una violenza maggiore di quella degli hater di oggi, c’era una pesantezza che oggi non c’è più. È vero che c’era un forte investimento identitario, però a me piace la libertà nella musica. Non c’è più paura di andare incontro agli altri, che è la missione della vita. Jung diceva che la grande allucinazione dell’essere umano è credere di sentirsi separati dagli altri. Ecco, la musica dovrebbe essere uno di quei motori propulsivi che ci fa andare al di là di questa separazione. Vedo che le giovani generazioni se ne fregano, giustamente, facendo quello che sentono di fare a cuore aperto e buttandosi allo sbaraglio.

Oggi però, tra social e streaming, la libertà è vincolata ai numeri.
Ariete: Fino a cinque anni fa, cinque milioni di streaming erano abbastanza per far gridare al miracolo, soprattutto se facevi musica nuova. Oggi invece, per considerarti soddisfatto secondo le strane leggi del mercato musicale se non fai 30 milioni in due mesi sembra che tutti si siano dimenticati di te. Io ho vissuto il boom degli streaming con diversi brani. L’ultima notte ha 80 milioni di streaming, altri miei pezzi hanno numeri simili, ma a questi se ne affiancano altri meno ascoltati. Ma non bisogna perdere la testa stando dietro ai numeri e così prima del tour estivo, in un periodo in un periodo in cui inizia la rincorsa ai numeri, ho pubblicato un pezzo come Ossa rotte, a cavallo tra rock e grunge. Ma è vero che i numeri un po’ li temi. Se li fai, smuovi qualcosa del tuo percorso. Ma la tua identità deve andare oltre. La tua voglia di esprimersi artisticamente non si può piegare al modo in cui tutti si stanno già esprimendo. Certo, è una bella montagna russa, perché può capitare il pezzo che fa milioni di views, così come il pezzo di cui sei soddisfatta ma ha meno ascolti. Per me essere lontana da Milano e da tante persone che lavorano nel mercato discografico è un bene. Faccio musica, ma cerco di rimanere distante dall’ambiente, visto che non ne conosco uno che non sia stressato dai risultati numerici. Ovunque vai si parla di numeri. Anche i presentatori dalle radio alle tv: «È con noi Ariete, che ha tot milioni di stream e ha scalato le classifiche». È una gara che piace a tutti.

Basta solo la distanza per non farsi prendere dall’ansia?
Ariete: Bisogna anche chiedersi: io cosa sto facendo? Musica. Quindi devo fare quella che mi piace. Sennò va a fare qualsiasi altro lavoro. Questo lo fai perché lo senti come un’esigenza.

«Non si fa musica per i numeri, ma perché la senti come un’esigenza»

Ariete

Vasco, non è che i numeri hanno sostituito la critica musicale che, ai tempi dei tuoi esordi, era ancora rilevante?
Vasco: Mi sono accorto che in questo disco tutti gli algoritmi saltavano. Dopo 17 anni di tour, l’ultimo nei club con 80 date di cui molte sold out e senza avere delle hit, neanche mezza, c’era sempre più gente che mi seguiva. Quindi ho pensato: forse non è così vero che tutti questi numeri sono fondamentali se io da tanto tempo vivo, e benissimo, di musica. Con i miei tempi, sempre autoprodotto. Anche quelli dell’etichetta Carosello mi hanno detto di continuare a fare esattamente quello che ho sempre fatto. Quindi senza numeri enormi si può fare. I CCCP ce lo dimostrano.

Rimanere fedeli alla linea?
Vasco: Hanno realizzato una tournée che sta facendo registrare numeri enormi e loro sono una band che prima di sciogliersi faceva concerti davanti a 100 persone. Solo che a quelle 100 persone i CCCP hanno cambiato la vita. Quindi vorrei che il parametro non fossero i numeri che fai, ma se la musica tocca le persone. C’è gente che dopo le canzoni dei CCCP ha detto di aver capito che era possibile una alternativa all’eroina e alla lotta armata. Non c’è numero che tenga di fronte a questo. Non voglio sembrare troppo romantico, ma esistono parametri non misurabili. Anche perché il lavoro che stiamo facendo è da qui all’eternità. Ho visto un documentario su Paolo Conte, che è passato attraverso i decenni con lo stesso tipo di canzone senza curarsi dei numeri, dell’avvento della disco music, della new wave o del punk. La ricerca non è orizzontale in ampiezza, questo lo possono fare gli addetti al marketing. I musicisti, invece, lavorano in verticale partendo dal centro incandescente di noi stessi e andando verso l’alto. Che è lo stesso motivo per cui gli esseri umani hanno scoperto la musica, come hanno scoperto il fuoco, e continuano a farla. Ogni tanto bisogna ricordarsene e, come dice Ariete, ci aiuta non stare sempre nella bolla.

Anche se passano gli anni “i meccanismi del cuore” sono sempre gli stessi?
Ariete: Direi di sì, che dici Vasco?
Vasco: Sì, le leggi dell’universo.

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