Sono passati esattamente vent’anni da quando Carlos Santana ha fatto la storia raggiungendo il record di Michael Jackson per il numero di singoli Grammy vinti durante una singola cerimonia. E anche se quella sera la sua testa era altrove, ricorda bene quanto tutto fosse insolito. «Continuavo a scherzarci su. Dicevo: “Mi sento come un cane che riporta il frisbee”», racconta. «Continuavo a salire e scendere dal palco».
Il 23 febbraio del 2000 Santana ha conquistato otto statuette, tra cui le più ambite – Record of the Year e Album of the Year –, tutte per l’album Supernatural. Il disco, uscito l’anno precedente, è subito arrivato al primo posto in classifica e nel tempo è diventato 15 volte disco di platino. Il mega singolo Smooth, scritto con Rob Thomas, gli ha fruttato due statuette, mentre El Farol e la collaborazione con Eric Clapton The Calling hanno vinto nelle categorie strumentali; Put Your Lights On, insieme a Everlast, hanno battuto la concorrenza nella categoria Best Rock Performance; e Maria Maria è stata premiata come Best Pop Performance. I riconoscimenti erano talmente tanti che Sheryl Crow ha ringraziato Santana per non essere stato nominato come Best Female Rock Vocalist, categoria in cui ha vinto.
«È stato strano non essere considerato per 30 anni e poi, all’improvviso, ricevere praticamente ogni premio», dice Santana, che fino a quel momento aveva vinto solo un Grammy per Blues for Salvador, l’album solista del 1987. A settembre 2000, poi, vinse altri tre premi ai Latin Grammy Awards. Se ci ripensa adesso, ha ancora un atteggiamento umile. «Sono grato per ogni cosa», dice.
Cosa ricordi di quella serata ai Grammy?
Ricordo che mi guardavano tutti – persone che suppongo sapessero cosa stava succedendo. Io non sapevo nulla, ma qualcuno sapeva tutto prima di me, e mi guardavano con una certa attenzione. Sorridevano, come se volessero dirmi: “Ora ci sei dentro anche tu”. Io pensavo: “Ma che succede?”.
A chi ti riferisci?
Bob Dylan continuava a indicarmi. Ancora prima di aprire la busta con il nome del vincitore, era come se sapesse tutto. Mi guardava e mi indicava, come a dire: “Lo vincerai tu”. Avevamo fatto un paio di tour insieme, uno nell’83 e l’altro nel ’95, ma non l’avevo mai visto così. Aveva un divino sguardo da mascalzone, pieno d’empatia, come se fossimo uniti.
Come ti sentivi quella sera? Riuscivi a goderti quello che stava succedendo o eri solo sorpreso?
Tutte queste cose insieme. Pensavo: “Sto guardando il pubblico e va tutto a rallentatore”. Vedo Harry Belafonte. Vedo Clive Davis (produttore di Supernatural e fondatore di Arista Records, nda). Vedo Eduardo Olmos – un sacco di gente che rispetto molto. Quello che ricordo bene è il mio discorso, quando ho detto: “Vorrei dedicare il premio a John Coltrane e John Lee Hooker”. Credo sia l’ultima cosa che ho detto.
Ricordo anche di aver suonato Smooth. Non facciamo playback, perché la gente si alza in piedi quando suoni sul serio. L’energia che si crea è diversa da quella del playback. E non appena abbiamo attaccato Smooth, Gloria Estefan e Sting sono saltati sulle sedie. È stato davvero surreale.
Hai vinto otto premi quella sera. Non è stato difficile inventare ogni volta un discorso diverso?
Ricordo che gli altri dicevano roba come “Vorrei ringraziare il mio gatto e il canarino”, e qualcuno mi ha chiesto di essere breve: “Fai in fretta, così possiamo andare avanti”. Dopo un po’ mi sono limitato a dire “Grazie”, prendere il premio e tornare indietro. Sono stato piuttosto obbediente, ma nell’ultima mezz’ora, quando ho vinto gli ultimi tre – Record of the Year e Song of the Year, ho iniziato a pensare che avrei potuto dire qualcosa in più.
Ho ringraziato, ovviamente, Clive, perché è l’architetto di tutto, è lui che ha convinto l’azienda a investire in un messicano che non andava in radio dal 1972. È lui che ha combattuto per me con chi ha finanziato Supernatural. So che è stato difficile convincere quelli delle radio che quel disco sarebbe stato un successo in ogni angolo del pianeta.
Bob Dylan e Lauryn Hill ti hanno consegnato il premio più importante, Album of the Year. Cosa ha significato per te?
Era come se Bob Dylan mi avesse nominato cavaliere. L’ultima volta che sono andato in tour con lui, mi hanno comunicato: “Bob Dylan vuole parlarti”. Sono andato nel suo camerino, e mi ha messo le mani sulle spalle. Mi ha guardato negli occhi e ha detto: “Sei uno dei pochi che porta avanti i giusti principi”. E ho pensato: “Oh dio, Bob Dylan mi ha nominato cavaliere!”. Significava molto per me, Bob è come Miles Davis. Ci sono alcune persone… che sono più grandi della vita stessa.
Quando mi ha dato il premio, insieme a Lauryn Hill, si è fermato tutto. La gravità è sparita, il tempo è sparito. Mi sembrava di percorrere un corridoio verso l’immortalità, perché era come se mi stessero confermando che non ero un artista di passaggio. Che sarei rimasto nella memoria collettiva. Quell’album sarebbe diventato come Thriller di Michael Jackson e Greatest Hits degli Eagles. Ho ringraziato tutti dal profondo del cuore, perché dalla mia parte avevo un sacco di persone: i fonici, i produttori, gli artisti, chi lavora nell’etichetta, gli avvocati. Era confortante pensare che c’era qualcuno capace di esporsi per me.
Hai raggiunto il record di Michael Jackson quella sera. Ti ha telefonato per congratularsi?
Sì, mi ha chiamato Quincy Jones e ha detto: “Ehi, come va? C’è qualcuno, qui, che vorrebbe parlarti”. Abbiamo chiacchierato, mi ha invitato a suonare sul suo nuovo album. C’è un bambino in me che perde ancora la testa per Jimi Hendrix e Michael Jackson, per Marvin Gaye e Miles Davis, anche se in un certo senso ora sono uno di loro. C’è un bambino in me che è ancora meravigliato da Michael. E sarà sempre così. Sono loro le persone più grandi della vita stessa.
Adesso sei anche tu uno di loro…
Sto imparando a capirlo.
Pensavi che avresti vinto tutti quei premi?
Prima della cerimonia ho fatto una doccia. Quando sono uscito dal bagno, la mia ex moglie Deborah mi ha detto: “Ehi, come ci si sente ad avere nove nomination?”. Mi prendeva in giro. Io ho detto: “Che? Di che stai parlando?”. Ha risposto: “Quanti pensi di vincerne?”. Anche i miei figli: “Sì papà, quanti pensi di vincerne?”. E io: “Non so, forse uno o due?”. È la verità: non ero emotivamente preparato alla possibilità di vincere. Non avevo aspettative, avevo la testa e il cuore liberi. Pensavo: “Qualunque cosa accada, sono felice di essere qui”.
Qual è il premio più importante, per te?
Quello che ho vinto per El Farol. Stavo scrivendo quel pezzo con mio figlio, e ho ricevuto una telefonata. Mio padre era appena morto. Mi hanno premiato per quel brano e per quello con Eric Clapton. Anche quella è una bella storia, Eric è davvero cortese.
In che senso cortese?
Un giorno mi ha chiamato e mi ha detto: “Carlos! Senti, ho appena scoperto che mi hai invitato a suonare sul tuo nuovo album, ma il mio manager”, o ex-manager, non ricordo, “non mi ha detto niente”. Sembrava arrabbiato. Ha continuato: “Siamo ancora in tempo?”. Ho detto: “Certo”. È arrivato in studio e gli ho detto: “Eric, sono sicuro che un sacco di gente si aspetta che facciamo una sorta di duello dei banjo”. Si è messo a ridere, e ho aggiunto: “Io vorrei fare una cosa del genere, un po’ alla Larry Graham”. Abbiamo scritto il pezzo insieme e l’abbiamo registrato al primo colpo.
Meno di un mese dopo, sono arrivato in ufficio e tutti mi guardavano con l’aria strana. “Cosa succede?”, ho chiesto, e mi hanno detto. “Beh, è arrivato il conto da pagare”. “Che conto?” “Beh, Eric Clapton ha mandato il conto. È costretto a farlo, perché è sotto contratto”. Ho detto: “Ok, lo so. Ma che succede?”. Mi hanno mostrato la cifra e sono sbiancato. Era come se qualcuno mi avesse tolto l’aria dai polmoni e il sangue dal cervello.
Quanto aveva chiesto?
Eric Clapton mi ha chiesto solo un dollaro. Riesci a crederci?
È incredibile. Come ti sei sentito dopo la cerimonia?
Mi sentivo strafatto. Come se camminassi a tre metri da terra. Non sono riuscito a dormire. È stato intenso, perché facevo interviste per ringraziare i Grammy, e tutti mi chiedevano: “Beh, come ti senti?”. Jeff Beck continuava a fissarmi. Gli ho chiesto: “Jeff, che succede?”. E lui: “Dev’essere bello per te, stasera”. Ho risposto: “Amico, non so cosa si prova a essere me, stasera”. Ero sopraffatto. Mi vedo ancora come il lavapiatti di Tijuana, determinato a ottenere la possibilità di condividere il palco con Jerry Garcia, i Grateful Dead e Michael Bloomfield. Mi vedo ancora così… insomma, quel lavapiatti messicano sta vivendo un lunghissimo sogno.
Dove sono adesso tutti quei trofei?
Sono a Las Vegas. Abbiamo un nuovo ufficio lì, un posto splendido. Quando li guardo penso sempre a tre persone: Bill Graham (promoter dei suoi concerti), Clive Davis e ovviamente mio padre. Poi penso a Mr. Armando Peraza (percussionista storico della sua band) che, con Bill Graham, mi ha fatto sentire a casa. Erano i miei maestri. Quando guardo quei trofei, penso che è grazie a loro se sono connesso a B.B. King e Tito Puente. Mi hanno aperto tante porte.
Ricordo sempre con gioia quella giornata ai Grammy. Continuavo a sentire la voce di Bill Graham dentro di me, nel mio cuore, che diceva: “Tu sei la voce di chi non ne ha. Tu dai voce ai lavapiatti, a chi fa le pulizie in albergo, a chi lava i bagni, a tutta quella gente che non vedi a meno che non gli chiedi di restare due ore in più per tenere a bada i bambini. Sei la loro voce”. Quando me l’ha detto, tanto tempo fa, ha significato molto per me.