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Michele Canova: «Ero stronzo e arrogante, ma l’America mi ha rimesso a posto»

Il produttore più amato e odiato della scena è tornato (umile) dagli States con un EP a nome CanovA. In passato ha lavorato con Jovanotti, Fabri Fibra, Tiziano Ferro. Su 'Xdono' ci ha detto: «Abbiamo fatto la marachella, l'abbiamo copiata»

Foto di Silvia Violante Rouge

La scusa è l’uscita di Level One: un EP dove chi di solito è produttore dietro le quinte si mette stavolta in gioco in prima persona, mettendoci proprio la faccia e la firma a nome CanovA (e creando incontri strani come Rosa Chemical versus Gianna Nannini, o Luca Carboni versus le giovani promesse ancora semisconosciute Lacray). Non è però un produttore qualsiasi, qui: è quel Michele Canova Iorfida che da quasi vent’anni è, nel suo ruolo, uno dei più amati ed odiati nel panorama musicale italiano. Amati: perché in due decenni ha raggiunto risultati pazzeschi, ne parliamo inevitabilmente nell’intervista, dall’esplosione di Tiziano Ferro a molte hit di Fabri Fibra, Jovanotti e mille altri. Ma anche odiati: perché ad un certo punto il suo suono e modo di lavorare i brani erano diventati talmente egemoni da diventare, beh, uno standard perfino abusato; ed anche perché – massì – lui non è che fosse proprio sempre il massimo della simpatia e anche di questo ne parliamo nell’intervista, eccome.

Dieci anni fa per Canova c’era stata una cesura forte: trasferirsi armi e bagagli a Los Angeles («Mi ero innamorato della città, ho fatto di tutto per venire ad abitarci e lavorarci. E ci sono riuscito»). Una cesura oggi ricomposta: perché anche se resta con ancora molti interessi, lavori e committenze nell’industria discografica americana, Michele se n’è tornato in Italia. Lo incontriamo a Milano, nel suo studio pieno di meraviglie (synth, chitarre, theremin rari, di tutto), e troviamo una persona affabilissima e con grande, grande voglia di raccontarsi. E di fare i conti senza filtri con il passato: per affrontare meglio il presente, e il futuro.

Allora, come mai questo ritorno a Milano?
Beh, non c’è un unico motivo. Ce ne sono almeno dieci. Uno di questi è che dopo un decennio in America sono riuscito finalmente a guadagnarmi la cittadinanza, e questo ora significa finalmente molta più facilità negli spostamenti, molta meno burocrazia e regole da dover seguire. Quindi posso tornare più a cuor leggero in Italia, e starci quanto voglio: prima non era così, non potevo assentarmi dagli Stati Uniti per più di sei mesi. Poi, va comunque detto che l’80% del mio fatturato arriva comunque dall’Italia. Sì, negli ultimi tre anni soprattutto ero riuscito a prendere dei lavori molto importanti negli Stati Uniti, anche adesso ho dei progetti piuttosto grossi in ballo con Epic, ci sono degli artisti che sto sviluppando in prima persona, ma mi sento molto più a mio agio ad avere una base in Italia e andare spesso in America, che viceversa. Sai cosa? Negli ultimi tempi sento veramente una bella energia a lavorare con gli artisti e i team italiani. Qualcosa che assolutamente non sentivo un decennio fa, quando decisi di trasferirmi a Los Angeles: davvero non c’era nulla che mi tenesse qui. All’epoca l’idea di collaborare ancora a progetti italiani mi attraeva ormai zero, ora è invece il contrario, ma perché sento una nuova linfa, percepisco molte energie nuove.

Insomma, è cambiato qualcosa.
Di sicuro. Ma al tempo stesso sono anche cambiato io, probabilmente. Non puoi capire il piacere che provo ora a lavorare con altre persone, a scambiare idee, a confrontarmi coi ventenni, anche perché ora ce ne sono veramente parecchi in gamba. Un tempo il mio sogno era lavorare da solo, non avere interferenze. Adesso invece il fatto che ci sia gente giovane che arriva da me perché vuole imparare mi gasa: ma anche e soprattutto perché poi sono anche io ad imparare da loro, sai? È in America che ho imparato l’importanza dello scambio, della collaborazione. Anche se lì la dinamica era diversa: perché lì ero io che per tanti anni ero semplicemente un signor nessuno, ero io nel ruolo del “giovane”, di quello che deve emergere. La verità? I primi cinque anni ho sofferto come un cane. E io, che sono uno che vive di pressioni, mi sono pure ammosciato, perché là a Los Angeles che pressioni vuoi che avessi, visto che nessuno mi conosceva e nessuno mi cagava! La pressione me la sono messa allora addosso pensando a comprare una casa, a costruire e rifinire bene i miei studi di registrazione, ad arrivare finalmente ad avere la cittadinanza americana – tutte cose, se ci pensi, collegate al fatto di spaccare finalmente lì e accidenti ci sono voluti almeno sei, sette anni prima di riuscirci… Che poi, non è che abbia spaccato, non esageriamo; ma appunto negli ultimi tre anni sono iniziati ad entrare progetti importanti, ho piazzato alcuni brani per la serie The L Word, ho degli artisti da sviluppare per Epic, come ti dicevo, e uno è considerato come una priorità (Kid Himself, un ragazzo di Portland). Però sì: nel momento in cui ho deciso di tornare a Milano, ho trovato subito un comitato d’accoglienza fantastico da parte delle label e degli artisti. E questa cosa mi ha caricato ulteriormente a mille.

Beh, potresti dare una voce a questo punto al tuo amico e collega Luca Pretolesi, per dirgli che magari pure lui potrebbe tornare…
(Scoppia a ridere, nda) Lui non penso proprio che voglia tornare…

No, eh?
Ma sai: ora che è stato coinvolto così tanto nelle ultime cose di Drake, un colpo pazzesco… E non è certo l’unica cosa grossa che ha per le mani. Però, non sbagli del tutto a nominarlo. Ci sono delle cose su cui stiamo lavorando assieme che, sì, potrebbero riportarlo in Italia, almeno temporaneamente. Ma non posso dirti altro.

Ti chiedevo di Luca perché so che siete amici…
Sì, ci siamo conosciuti nel 2016, era venuto nel mio studio assieme a Dave Pensado (ingegnere del suono americano di enorme profilo, ndr).

Ah, ma io in realtà pensavo vi conosceste già da prima. Ti dirò di più: pensavo vi conosceste dall’epoca della sua “vita precedente”, chiamiamola così, non quella da ingegnere del suono di profilo mondiale ma…
Quella di quando era Digital Boy negli anni ‘90?

Esatto!
Non lo conoscevo di persona, ma accidenti se ero un fan.

Che appunto anche tu, ai tuoi inizi, ti sei fatto la gavetta nel mondo della dance.
Sì, ma quando io facevo la gavetta e sfornavo i primi remix lui era già una leggenda. Però vero, hai ragione, ho iniziato proprio in quel modo lì: andando a fare i pellegrinaggi alla Time Records, dalle parti di Brescia, con la mia Panda rossa scassata, facendo sentire le mie produzioni a Giacomo Maiolini. Che periodo strano. Era una cosa velocissima: arrivavi lì, attendevi un attimo in sala d’aspetto, vedevi la gente che entrava e usciva dal suo ufficio nello spazio di pochi minuti, ed in effetti quando poi toccava a te entravi, ci si presentava in pochi secondi e pum, si premeva il tasto play. Lui commentava in tempo reale: «Ok, bella questo intro», poi partiva la voce e «no, la voce non va bene. Ciao. Alla prossima».

Cosa pensavi di quel sistema, proprio da catena di montaggio? Tra l’altro tu avevi pure un background musicale completamente diverso: legato alla classica, all’educazione da conservatorio…
In prima media, a 11 anni, comincio a studiare violino. Dopo tre anni faccio l’esame per entrare al Conservatorio: su 103 candidati, arrivo terzo. Mi prendono. Ma quello è l’inizio di un periodo da incubo per me. Perché contemporaneamente facevo il classico, il Tito Livio a Padova, uno dei licei più prestigiosi e difficili d’Italia, e andavo pure bene; ma poi nel pomeriggio dovevo fare violino, dovevo fare solfeggio e teoria, dovevo fare pianoforte e altri complementari… Non avevo più una vita, punto. Quindi, un giorno all’improvviso dico a mia madre: «Ti prego, basta». Anche perché nel frattempo avevo scoperto l’esistenza delle tastiere elettroniche…

Ecco!
Scopro il Roland D 10 a casa di un mio amico, uno di famiglia ricchissima, aveva già un set up della madonna. Vedo quel Roland e mi si apre un mondo. Capisco che era possibile fare tutto da soli: basso, batteria, fiati, fare campionamenti. Mi dico: «Ma che cazzo me ne frega del conservatorio». Tanto più che lì c’erano ancora i metodi alla vecchia maniera, ai limiti delle punizioni corporali: le bacchettate con l’archetto sulle dita da parte dei docenti, così così, ancora si poteva fare… Ad ogni modo: mollo il conservatorio, mi butto per passione a fare le cose da solo, senza più nessuno a insegnarmi nulla. Dopo tre anni, riesco a piazzare una prima produzione alla BMG Ariola, la mia prima produzione pagata.

Per Leandro Barsotti.
Esatto. Con Leandro l’incontro fu perfettamente casuale: ci incontrammo dopo che mi diplomai al Classico, era il fidanzato di una ragazza che faceva l’animatrice a Caorle con me.

Il caso ci vuole sempre.
La fortuna aiuta gli audaci. L’incontro con Tiziano (Ferro, ndr), che è quello che mi ha cambiato la vita dopo dieci anni di stenti senza vedere quasi una lira, fu anch’esso fortuito. Lavorando con Leandro, avevo conosciuto Mara Maionchi e Alberto Salerno, e questo abbastanza presto, tant’è che in realtà ci perdemmo poi di vista; ma dopo quasi otto anni all’improvviso ricompaiono e mi chiedono di provare a produrre una tipa brasiliana che faceva dance. Io sento il provino e anche se ero in quel momento assolutamente bisognoso di soldi ho la faccia tosta di dire: «State perdendo tempo, questa secondo me non va da nessuna parte». Loro si guardano, mi guardano, e poi mi dicono: «Bene. Sai che c’è? Facciamo che abbiamo altri due artisti da proporti». Erano Emanuele Dabbono e, appunto, Tiziano Ferro. Con Tiziano avevano già provato con un team di produzione toscano e con uno veneto senza cavarne fuori nulla. Io ero il terzo tentativo. Prima, solo buchi nell’acqua e grandi no dalle major. Provo a lavorarci sopra io, allora. Portano tutto a Fabrizio Giannini, che allora era in Warner ma si sapeva già che sarebbe andato in EMI, e lui impazzisce. «Si è innamorato così tanto del progetto che vuole sia la sua prima firma appena si insedia nel suo nuovo posto», mi riferiscono. E così effettivamente è stato.

Col senno di poi: cosa hai portato a quel disco, all’esordio di Tiziano, che fu subito un successo dirompente?
Io non ho portato granché.

Ah no?
Il genio fu Tiziano. Lui era super appassionato dell’r&b contemporaneo di quei tempi, io invece non lo cagavo quel genere lì. Zero. Mi faceva schifo, o così credevo. Questo perché ero ignorante: avevo in mente un altro r&b che comunque girava ancora a quei tempi, quello cioè tutto suonato, con un sacco di virtuosismi di maniera. Mentre invece non avevo idea dell’esistenza di R. Kelly.

No? Sul serio?
Ma zero proprio. Tiziano mi fa conoscere lui, e quel filone lì dell’r&b: cantanti gospel che cantano su basi hip hop, creando un contrasto stranissimo. Io, che prima di tutto sono un produttore, vado giù di testa quando sento l’uso della 808 e del campionatore in un contesto che mai e poi mai mi sarei aspettato. «Cazzo, Tiziano. Che figata», gli dico. E poi aggiungo: «Ma io non so fare questa roba. Però, ci provo». Ecco, mi prendo il merito di averci provato, quello sì: con la mia strumentazione, con i miei campionatori. Che poi R. Kelly inizialmente l’avevo pure snobbato, perché ero partito dal suo album doppio, quello della mega hit, di I Believe I Can Fly, un disco che comunque è abbastanza tradizionale. Quello dopo, invece… incredibile. Incredibile. Lo sentii e andai subito a comprarmi un Akai MPC 2000xl, perché avevo capito subito che certe cose di quel disco lì non si potevano fare con un computer, con un Atari, perché sarebbe venuto fuori troppo pulito. Impossibile proprio. E lì entro davvero nel mondo dei sequencer analogici, delle batterie elettroniche: i chip all’epoca non potevano assolutamente essere multitasking come adesso, quindi c’erano sempre delle piccole imperfezioni in quello che veniva fuori e lì stava la magia. Erano i chip Eprom progettati da Roger Linn, che è poi proprio l’inventore della batteria elettronica. Uno che ho ancora conosciuto personalmente. E ci ho pure un po’ scazzato, se è per questo. È uno un po’ pignolo, ecco.

Ah beh, perché tu no?
Eh sì, un po’ anche io (ride)… E comunque, oh: in quella discussione lì avevo ragione io.

Figuriamoci.
Me l’ha pure riconosciuto, un po’ di tempo dopo (altre risate). Comunque: con quel disco di R. Kelly che ti dicevo nasce insomma il mio amore per gli hardware esterni, per gli MPC, che diventa un po’ il mio marchio di fabbrica operativo da lì in poi. Partivo dall’MPC, passavo quello che veniva fuori dentro Pro Tools e poi ci suonavo sopra con gli strumenti. Ma se guardiamo bene a tutto, capisci che il merito è originariamente di Tiziano: è lui che mi ha fatto scoprire un mondo che non conoscevo, e nemmeno capivo.

Eh, «marchio di fabbrica»: si può dire che per un po’ di anni il pop italiano è stato letteralmente canovizzato?
Ne parlavo proprio ieri con il figlio di Fio Zanotti, Paolo, un A&R bravissimo. La mia posizione inizialmente era: «Boh, lo dicono tutti che avrei condizionato il suono del pop in Italia, ma io so solo che facevo la musica nel modo che più mi piaceva». In effetti però un giorno controllando un po’ di cose a caso sono andato a vedere una classifica annuale di iTunes di tempo fa – negli anni in cui era iTunes il vero re del mercato – e nella top 100 i miei brani, quelli insomma in cui in qualche modo c’avevo messo le mani, erano 25. Quelli della Universal, 18. Cioè, capisci? Da solo, avevo fatto più risultati di una intera multinazionale. Un’altra volta sono andato, sempre un po’ a caso, a fare una ricerca sul mio nome nel sito della FIMI: e scopro lì – credimi, lo scopro solo lì – che avevo fatto 150 multiplatini, 7 dischi di diamante…

Numerini.
Beh, onestamente: figata. Ma perché almeno questa cosa potevo usarla parlando con gli americani. A loro interessano i numeri, stop: inutile parlargli di altro. Io appena arrivato in America ero appunto un nessuno; ma quando poi facevi vedere che avevi fatto vendere 18 milioni di copie di dischi in cui nella produzione c’era il tuo nome, beh, allora magari gli veniva il sospetto che no, non eri proprio l’ultimo degli stronzi. Anche se sotto molti punti di vista lo sembravi. Ero bello arrogantello comunque prima di arrivare in America, diciamocelo…

Sì, eh?
Beh sai, appunto: 18 milioni di dischi, io che ormai potevo permettermi dire di no all’80% delle richieste di lavoro che mi arrivavano. All’improvviso mi ritrovo invece in un posto dove manco sapevano come si pronuncia il mio nome: «M’celiii… M’celiiiiii…». Ma sai cosa: ne avevo bisogno, di volare più basso. Sì. Ne avevo bisogno. Lo dico io per primo. Con la conseguenza che ora sono tornato in Italia e l’ho fatto certo di essere in un contesto che mi stima e dove sono molto considerato (e infatti, ne ho subito avuto le prove); ma oggi ho un assetto mentale diverso, non quello degli ultimi anni italiani prima di partire. Un assetto in cui voglio che la collaborazione sia al centro di tutto. E questo l’ho imparato proprio dall’America. Prima ero io, io, io; ma in America ho imparato che io, da solo, non conto un cazzo, è lavorare bene in team che fa davvero la differenza. Infatti io oggi ho assolutamente bisogno di qualcuno che mi tenga in ordine lo studio, di due produttori giovani che mi affianchino (e non solo con l’in the box, ma anche con le macchine esterne), dei miei autori di fiducia (i pezzi di Level One sono scritti da me, ma con più di una mano da parte di Vincenzo Colella, Leonardo Zaccaria, Alessandro Pacco). Non si può più ragionare da solisti, ecco. Il mondo è cambiato. Vale da tempo nel calcio, vale anche nella vita.

E appunto non si può essere sempre vincenti. Parlavamo dei tuoi numeri fantasmagorici, ma ci sono anche dischi che non sono andati come speravi e come si sperava. Ne parliamo un po’?
A me piaceva tanto il disco che avevo prodotto con Max Pezzali, Time Out. Tra l’altro, l’avevo fatto in un momento molto particolare della mia vita, dopo un gravissimo incidente in moto.

Certo: quello che ti costrinse a una lunghissima convalescenza in ospedale, e che indirettamente ti fece scoprire Fabri Fibra. Altro snodo fondamentale nella costruzione della tua carriera da dominatore del pop.
Bravo. Perché proprio nel momento più duro della mia convalescenza mi misi ad ascoltare maniacalmente Mr. Simpatia di Fibra e me ne innamorai. Tant’è che dissi a Pico Cibelli, che di Fibra era il discografico: «Voglio conoscerlo. Fammelo conoscere». Cosa che poi è successa. Lui e il suo team stavano finendo Controcultura, ma c’erano alcuni pezzi aperti e mi ci fecero lavorare sopra: Tranne te, Vip in trip, Le donne, Qualcuno è normale. Fibra, come tutti gli artisti fuoriclasse, aveva un istinto molto spiccato e insomma aveva capito subito che ero un matto, che quando gli dicevo che mentre ero mezzo morto in ospedale il suo disco mi aveva salvato non stavo esagerando, lo pensavo davvero… Ci siamo presi bene così. Ma anche con Tiziano, sai, è stata subito questione di prendersi ad istinto: io ero uno sfigato, lui era uno sfigato, ci siamo messi insieme, e insieme abbiamo scalato la musica italiana contro ogni pronostico e anche un po’ contro tutte le persone che fino a qual momento non ci avevano considerato. Con Lorenzo Jovanotti invece l’affinità è nata per il grandissimo piacere di stare in studio, di fare session infinite.

Perfetto, ma torniamo a Time Out.
Secondo me in quel disco c’erano dei pezzi molto belli. In più era appunto il disco dove finalmente riiniziavo a lavorare dopo quattro mesi di fisioterapia e convalescenza in cui ho letteralmente dovuto reimparare a camminare. Ci siamo messi lì con Claudio (Cecchetto), Pierpa (Peroni) e Max, e abbiamo lavorato in modo davvero viscerale. Ma sai quale fu il problema? Secondo me il problema fu che Claudio, a disco finito, non capì quali erano i pezzi giusti su cui puntare. Lui su Max aveva un’idea ben precisa e si è dimostrata un’idea vincente: quindi non gli si può dire nulla; e un pezzo come la title track – e proprio io mi impuntai per far chiamare l’intero album come quel brano – era bellissimo, ci si sarebbe dovuto credere di più. Ancora oggi quando lo sento lo amo veramente tanto. Invece in generale quel disco non venne capito troppo, non ebbe il successo che secondo me meritava. Per nulla.

Quindi sbagli anche tu.
Eccome se sbaglio. Ti faccio subito un altro esempio: ti ricordi Damiano, venuto fuori da X Factor? Per lui produssi Anima. Per me era un gran pezzo. Invece, non funzionò un cazzo.

Eh, è questione spesso di fare non solo la cosa giusta, ma di farla anche al momento giusto…
Esattamente. Prendi Tiziano: secondo me, abbiamo avuto prima di tutto un gran culo. In tutto il mondo l’r&b stava funzionando, ma ancora nessuno lo stava facendo in Europa. Arrivammo allora noi: beh, mi ricordo ancora le 270 mila copie vendute del singolo in Francia o le 300 mila in Germania. Capisci che numeri? Ma non era stato un calcolo a tavolino: semplicemente, facemmo appunto la cosa giusta al momento giusto. Tiziano era un bel ragazzo, cantava bene; io avevo capito come copiare il suono che da sempre piaceva a lui, un certo tipo di r&b. E il gioco funzionò.

Aspetta aspetta: hai detto copiare?

Copiare, sì. Ovviamente non potevo campionare direttamente: perché se l’avessi fatto, poi giustamente ci facevano causa. Xdono, non è più un mistero per nessuno, era proprio presa di peso da un pezzo di R. Kelly. Io e Tiziano ci siamo guardati, me lo ricordo ancora oggi, mentre eravamo in studio: «Facciamo la marachella? Sì, dai: facciamola». E così semplicemente risuonai il pezzo: perché se lo risuoni al massimo possono dirti che hai copiato, ma giuridicamente non possono farti un cazzo. A meno che non diventi veramente grosso grosso, eh: e così fu, dopo. Inevitabile allora che a un certo punto ci arrivasse una lettera d’avvocato. Che arrivò. «Eh, c’hanno beccato». Ma poi in realtà, legalmente parlando, non poterono farci nulla.

Domanda potenzialmente malevola e cinica: quanto eri strategico e calcolatore, nel momento della tua ascesa, a coltivare i rapporti con l’industria, con le persone insomma che contavano davvero nel sistema?
Zero.

Zero?
Io ero la merda più totale. Chiedi in giro: te lo confermeranno tutti. Se ripenso oggi a certe cose che ho detto e a certe maniere in cui mi sono comportato mi vien male… Ma ero matto. Ero un ragazzino di Padova: uno che era già stronzo e arrogante quando non se lo filava nessuno, figurati poi quando è arrivato il successo per davvero. Ero pessimo. Credimi: l’America in questo mi ha davvero rimesso al mio posto. Mi ha insegnato tutto. Oggi se mi fai girare le balle te lo dico comunque, ma ho imparato il modo giusto e rispettoso per farlo. Oddio, non sono ancora perfetto, ma sono decisamente molto migliorato (sorride). Un tempo, invece, ero pessimo. Pessimo. Ogni tanto mi tornano in mente cose che ho detto o certi miei comportamenti, e mi dico «Ma veramente ero così?». Davvero, non sto scherzando. Tutto quello che di negativo puoi aver sentito su di me come persona, in quegli anni, era vero. Ma sai cosa: non ero stronzo perché sono stronzo e basta, no, ero stronzo perché non mi sapevo comportare. Dicevo le cose giuste, ma nel modo sbagliato.

Oggi capita l’inversione dei ruoli? Cioè, c’è qualcuno che arriva da te e ti dice con gran poco rispetto «Senti, non ci stai capendo un cazzo. Non è così che si fanno le cose, oggi».
Eccome!

E…?
All’inizio, ti incazzi.

Ecco.
Poi però ti dici: «Però, bello che me l’abbia detto, dai. Segno di personalità».

Indubbiamente.
Fino a quando continui a rimuginarci sopra, per poi ammetterti: «Accidenti, aveva ragione».

Ti arrivano ancora le lettere d’amore di Spotify, in cui ti veniva spiegato come costruire le hit passo per passo? Ne avevi parlato nell’intervista che ti facemmo cinque anni fa
Beh: più che a me direttamente, arrivavano agli executive delle major. Che poi le giravano a me. E sai cosa ti dico oggi? Ti dico che avevano ragione loro, aveva ragione Spotify. Erano consigli reali, concreti, giustificati.

Ma quanto è sottile il confine tra rendere tutto molto contemporaneo ed efficace, e rendere tutto maledettamente omologato?
No, io cambierei la domanda. Per me sarebbe più giusto dire: quanto è sottile la differenza tra fare un pezzo che suoni contemporaneo ed efficace, e fare un pezzo che non venga dimenticato dopo una settimana? Facciamo che non ti elencherò degli esempi di casa nostra, ma per quanto riguarda ad esempio una Selena Gomez – che è obiettivamente una numero uno, commercialmente – ti sfido a ricordarti i suoi ultimi tre singoli. Io non ne ricordo uno. E sì che a me lei piace! Il problema è che la musica che esce oggi è molto contemporanea e aggiornata, fatta in modo assolutamente competente, ma… vola via. Non resta. Svanisce dopo un attimo.

E ora ci sei tu, che addirittura vuoi scendere in campo in prima persona anche come artista, non più solo come produttore dietro le quinte.
Ma nemmeno troppo. Level One è soprattutto la voglia di dare una continuità a tutto il lavoro fatto durante il Covid, a tutti i progetti nuovi iniziati: l’etichetta, le mie presenze su Instagram e Twitch. Già nel 2017 Giorgia mi diceva «Tu devi fare un disco solista, e io sarò la prima persona che chiamerai per un featuring»: solo che nel 2017 non mi sentivo pronto, ora sì. E in realtà Level One potrebbe essere solo il primo capitolo di una serie regolare di uscite dove posso offrire una piattaforma di esposizione anche ai miei collaboratori e alla mia voglia di far collaborare le persone, di metterle in contatto fra loro, come già feci ai tempi con Tiziano e Lorenzo. Nulla di più. Non credo diventerò un mostro, uno che sgomita per apparire; poi oh magari succede, ma al momento non ho quella velleità lì. Se devo apparire, voglio comunque farlo ritratto nel mio ambito, ovvero lo studio di registrazione, e facendo interviste come questa: dove si parla un po’ di questioni tecniche, un po’ di psicologia collegata alla musica, un po’ della mia storia. E la mia è la storia di un produttore. Non voglio diventare un personaggio. O se lo divento, deve essere in un filone che è il mio, che conosco bene, dove so di poter dire delle cose sensate e non parlare tanto per parlare.

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