Rolling Stone Italia

Mick Jagger: «’Goats Head Soup’ meglio di ‘Exile on Main St’? Ne dico di stupidaggini»

Il frontman condivide i ricordi delle session nel 1973 in Giamaica, spiega che sta scrivendo e registrando nuove canzoni per la band, immagina futuri concerti dei Rolling Stones non negli stadi, ma davanti a poche persone

Foto: Andrew Benge/Redferns/Getty Images

Mick Jagger pensava di passare il 2020 suonando concerti negli stadi per il No Filter tour dei Rolling Stones. Non è andata così, ma la pandemia non l’ha fermato. Nella sua casa di campagna in Europa, sta scrivendo, registrando e lavorando ad alcuni documentari. «Mai piangersi addosso», dice. Ha passato un sacco di tempo a pensare al passato: gli Stones hanno appena pubblicato un box set dedicato a Goats Head Soup, uno dei dischi più oscuri e incompresi della storia del gruppo.

Abbiamo intervistato Jagger e gli abbiamo chiesto del futuro della musica dal vivo, del prossimo album degli Stones e di molto altro ancora.

Come hai passato il tempo in quarantena? 

Sono in Europa, in campagna, e ho sempre accesso a un sacco di spazio all’aperto. Mi sento davvero in colpa per i miei amici che non hanno le stesse possibilità, che non possono uscire. Ogni volta che leggo i giornali americani mi sembra che la situazione sia orribile.

Come ne usciremo, secondo te?
Ci muoviamo in un territorio inesplorato. L’unica cosa che si può dire, analizzando la situazione, è che alcuni posti se la passano meglio di altri. Ma bisogna avere una prospettiva globale. È terribile. E non riusciamo a guardare al futuro. Ma possiamo imparare dagli errori e dai successi degli altri.

Che cosa hai fatto nel tempo libero? 

Stare all’aperto mi ha fatto molto bene. Il clima è sempre stato fantastico. Non c’era la pioggia di metà novembre, sarebbe stato deprimente. È stata una primavera molto bella, fantastica: di solito non sto a casa abbastanza a lungo da vedere la fioritura. E ho anche lavorato. Ho finito la canzone Living in a Ghost Town, poi gli extra per Goats Head Soup, tutto a casa. E ho anche lavorato ad alcuni pezzi che avevamo registrato, ma non finito. È quello che sto facendo ancora adesso. Sto scrivendo nuove canzoni e lavorando ad alcuni documentari su cose diverse. Alcuni film. Cerco di tenermi impegnato, ma cerco anche di godermi la vita, come tutti.

Dopo un periodo simile, apprezzi di più suonare dal vivo? 

Certo, amo stare sul palco. Sto cantando parecchio, cerco di restare in forma e fare esercizio. Ma sì, mi manca suonare dal vivo. Ma il punto è un altro: come faremo, a breve e lungo termine, a fare in modo che tutti possano tornare sul palco, al cinema e così via? Come funzionerà in futuro? Come funzioneremo? 

Beh, al momento non lo sappiamo. In Europa ci sono concerti su piccola scala, con il distanziamento sociale. Sta succedendo anche in altre parti del mondo: Nuova Zelanda, Australia e così via. Ma per quanto riguarda gli Stati Uniti, non sappiamo cosa ci riserva il futuro. C’è tanta gente senza lavoro e che continua a perdere denaro. Torneremo mai alla vita di prima? Sarà sempre diverso? Non lo sappiamo.

Beh, l’estate scorsa è stata incredibile. Quando tornerete sul palco sarà un momento pazzesco. 

Potremmo suonare per poca gente. Possiamo vendere molti biglietti, ma forse non riusciremo a esibirci per tante persone tutte assieme.

Farete un concerto con il distanziamento sociale? 

Se il mondo dovesse andare in quella direzione, sì, certo.

Che posto ha Goats Head Soup nella vostra discografia, secondo te? 

Per molti è un disco importante tanto quanto Exile on Main Street, che l’ha preceduto. Probabilmente lo è anche per me, visto che suoniamo quelle canzoni sul palco. Facciamo Angie, Heartbreaker. A volte anche Dancing with Mr. D. Dovrei parlarne con la lista delle canzoni davanti. Dovrei essere più informato sul mio lavoro.

Non fate Silver Train e Winter… 

Sì, non suoniamo Winter e cose del genere. Ci sono tanti pezzi che non suoniamo. Non è un disco da cui prendiamo molto. È un album diverso dagli altri. È stato registrato tutto nello stesso posto e in un periodo relativamente breve di tempo. Exile, al contrario, è stato scritto più lentamente. E ha anche un suono diverso. Ma ci sono delle cose buone.

Avete registrato Exile, siete partiti in tour e poi siete subito tornati in studio… 

Sì. Ricordo che volevamo registrare a Los Angeles, ma avevamo dei problemi con il visto e abbiamo deciso di fare tutto in Giamaica. Alcune cose, se non ricordo male, sono state registrate a Londra. Qualcuno mi ha detto che c’erano dei brani inediti e non ero per niente contento. Gli inediti significano sempre un sacco di lavoro. Spesso sono cose che non mi piacevano e che non ho mai finito. Insomma, ero un po’ negativo. Poi li ho ascoltati e ho capito che non erano affatto male. Non so come mai non avessimo finito quelle canzoni. Forse eravamo pigri. Ma le abbiamo finite come se avessimo iniziato a registrarle la settimana scorsa. Ho finito le voci, ho sistemato qualcosa. Solo che ti chiedi: dove sono finite le maracas? Devo averle lasciate da qualche parte. Cose del genere.

Quindi sei tornato in studio per finire Scarlet, All The Rage e Criss Cross? 

Sì. In realtà non ci ho lavorato così tanto come con altri inediti. All the Rage non aveva tante voci, quindi ho dovuto idearle da zero e ovviamente registrarle. Per Criss Cross e Scarlet, invece, non ho cantato nulla. Ho solo aggiunto delle cose sul finale. Scarlet è un pezzo strano, perché non è stato registrato per Goats Head Soup. Era solo una canzone che suonavamo in quel periodo. Ricordo di averla registrata con altre persone, una versione diversa da quella che è stata ritrovata.

Come mai in Scarlet suona Jimmy Page? 

Ci ho parlato l’altro giorno. Gli ho detto che ero convinto che l’avessimo registrata all’Olympic. Lui mi ha risposto che ricorda perfettamente di averla suonata nello scantinato di Ronnie Wood. Mi è sembrato strano, perché Ronnie non ci suona e di sicuro non è un musicista che si tira indietro. Lui era convinto, ricordava tutto. Quindi c’eravamo io, Keith e Jimmy…

Come passavi le giornate in Giamaica? Avete cambiato il metodo di scrittura rispetto a Exile? Com’era il tuo umore, l’atmosfera? 

(Ride) È difficile ricordare che umore avessi nel 1973. Non ricordo nemmeno come stavo a colazione oggi. Comunqque, era una situazione diversa, non eravamo più nella cantina di una villa, ma in un vero studio, un posto gestito da un tizio di nome Byron Lee, dalla band Byron Lee and the Dragonaires. Suonavano reggae, suonavano di tutto, anche il calipso, e giravano i Caraibi in tour. Era diverso da vivere in una villa. Era più disciplinato, in un certo senso. Lavoravamo davvero duramente, restavamo in studio fino a tardi, ma eravamo più disciplinati rispetto a Exile.

Ci siamo ritrovati con un disco fatto in Giamaica, ma con nessuna influenza reggae nelle canzoni. Credo l’avessimo evitato di proposito. Pensavamo: siamo in Giamaica, ma non faremo un disco con quelle influenze.

Ci sono dei ritmi interessanti, però. Mi sembra che sia suonato con più libertà… 

Sì, le ritmiche di pezzi come Criss Cross… sono Billy Preston e Nicky Hopkins. All’epoca andava di moda suonare il clavinet con il wah-wah, gli dava un certo tiro. Non è proprio Herbie Hancock. Lo puoi sentire in 100 Years Ago e in Criss Cross, che abbiamo appena finito. Ma sono pezzi particolari, così come Heartbreaker.

Ti ricordi quando l’hai scritta? 

Vagamente. Non ho un ricordo così chiaro. Ricordo di aver scritto il testo, e credo che Keith abbia contribuito alla musica, alla struttura degli accordi. Il brano parla della violenza della polizia, e l’altro giorno qualcuno mi ha detto che riflette quello che succede adesso. Ma la polizia è sempre stata violenta. Insomma, quello era un pezzo sull’attualità.

Mick Taylor suona splendidamente in Winter, un brano molto amato dai fan. 

Sì, mi piace quel pezzo, è molto carino. Io e Mick abbiamo improvvisato un po’, l’abbiamo suonata due volte ed era pronta. Più avanti abbiamo scritto l’arrangiamento d’archi che senti alla fine. Mi è sempre piaciuto il modo in cui Mick tirava fuori belle melodie dalle canzoni. Gli veniva molto bene.

Cosa pensi del contributo di Billy Preston? 

Era molto particolare. Il modo in cui suonava l’organo aggiungeva un’atmosfera da gospel. E poi, ovviamente, c’è il suo pianoforte in Angie. Il pianoforte è una parte importante di quel pezzo. Ha suonato anche la chitarra.

I Rolling Stones nel 1973. Foto: Aubrey Powell

Bob Dylan ha detto che Angie è una delle sue canzoni preferite degli Stones. 

Mi piacerebbe sentirgliela suonare, una volta. Sarebbe bello, non credi?



Ti aspettavi che sarebbe diventata una hit? 

Sì, lo pensavo. Non ne sei mai davvero sicuro, ma ha volte lo capisci qual è la canzone del disco che potenzialmente può diventare un successo. È ancora nel nostro repertorio dal vivo.

Anche Silver Train è un grande pezzo poco conosciuto. Quando riascolti il disco, ti vengono in mente immagini di quello che succedeva in studio?
Sì, mi ricordo di Silver Train. L’abbiamo registrata a Londra, e ricordo di averci improvvisato su con Mick. Era una jam che alla fine abbiamo trasformato in una canzone. Non c’era niente di già scritto. E poi ci sono le canzoni come Hide Your Love. All’epoca pensavo che le avremmo dimenticate in fretta. Poi ti ricordi… mi pare di averla suonata al pianoforte nell’Olympic. E non so chi abbia suonato il piano nel disco (fa una pausa). Qui dice pianoforte nella settima traccia, ma non c’è nessuna settima traccia. Sto guardando su Wikipedia (ride). Ricordavo male. Avevamo registrato una versione completamente diversa, che credo sia nel cofanetto.

Credi che Goats Head sia un disco sballato, influenzato dalla droga?
Sballato? Era un disco sulla droga? Non parla molto di droga, a parte forse Coming Down Again, ma devi chiedere a Keith. Credo che potrebbe parlare di droga (ride). Ma il resto dei pezzi… c’è un riferimento in Heartbreaker, ma non lo definirei uno dei dischi più sballati degli Stones.

Quando è uscito hai detto che ti piaceva di più di Exile, che ti piaceva di più. 

Dico un sacco di stupidaggini quando promuovo i dischi. Devi prendere tutto con le molle. «È ovvio che è meglio quello nuovo. Se ti è piaciuto Exile, questo è ancora meglio!». Mi ci vedo a dire una cosa così.

Per alcuni rappresenta la fine di un’epoca, è l’ultimo disco prodotto da Jimmy Miller e uno degli ultimi con Mick Taylor. Sei d’accordo, era la fine di qualcosa? 

No, no. Prendevamo le cose giorno per giorno. All’epoca la nostra principale preoccupazione era ottenere un visto per gli Stati Uniti. Quando eravamo in Giamaica era tutto strano. Poi ovviamente siamo andati a Los Angeles. Era la nostra vita quotidiana. Nn pensavo a cose del genere.

Living in a Ghost Town anticipa un nuovo disco o è un singolo a sé stante? 

Fa parte di un gruppo di canzoni che abbiamo registrato di recente in vari posti. Sembrava giusta per questo periodo. Ho aperto il mio quaderno dei testi e me lo sono ritrovato davanti. Era una canzone che parlava di sentirsi un fantasma dopo un’epidemia. Ho aggiunto qualche verso più attuale, registrato le voci e alcune parti di chitarra. Adesso sto cantando sugli altri pezzi, li sto chiudendo.

Hai idea di quando riuscirete a pubblicare un altro disco?
Non lo so. Dipende. Non so quando riusciremo a rivederci, al momento. Non sappiamo quando potremo tornare a registrare. Dovrà essere in piena sicurezza e cose del genere. Sono sicuro che lo faremo presto, ma adesso devo finire i pezzi che abbiamo già registrato. Questo periodo mi dà l’opportunità di farlo e levarmeli di torno. Suonano bene. C’è molta verità. C’è tanta musica diversa.

Grazie Mick. Spero di vederti in tour la prossima estate.
Speriamo! Grazie a te.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US

Iscriviti