Sono passati quasi 50 anni da quando Mick Rock ha fotografato per la prima volta il geniale frontman dei Pink Floyd, Syd Barrett. Un paio d’anni dopo documentava l’avvento del glam rock e fotografava David Bowie, Lou Reed e Iggy Pop – le foto sono state inserite in Transformer e Raw Power. Nel corso degli anni ha fotografato i Queen, Blondie, i Mötley Crüe, i Sex Pistols, Snoop Dogg, gli Yeah Yeah Yeahs e tanti altri. Ha pubblicato numerosi libri ed è sicuramente uno degli sguardi più importanti della fotografia rock & roll.
Mick Rock è il protagonista di Shot! The Psycho-Spiritual Mantra of Rock, un documentario sulla sua carriera. Diretto da Barnaby Clay, lo stesso regista che ha lavorato per Rihanna, il film racconta la vita del fotografo, del modo in cui l’LSD ha migliorato la sua creatività e naturalmente le storie più importanti dietro ai suoi ritratti più famosi. Nel documentario Rock si è soffermato a lungo su David Bowie e Lou Reed, a cui il film è dedicato. Il vero centro narrativo della pellicola, però, è la dipendenza dalla droga: il film è strutturato intorno a un’esperienza quasi fatale con la cocaina che lo ha costretto a mettere un bypass cardiaco.
In questa intervista Mick Rock ci ha raccontato cosa gli è piaciuto – e cosa ha odiato – della sua vita raccontata nel film.
Perchè hai voluto fare questo documentario?
Non so se volessi davvero farlo. Ma molte persone, tra cui la BBC, mi hanno chiesto di lavorare a un prodotto del genere per quasi 15 anni. Sono stato indeciso a lungo, temevo fosse un cazzo di errore. Alla fine mi sono detto: «Fallo, ormai sei troppo vecchio».
Come è stato coinvolto il regista Barnaby Clay?
Ho preteso di poter scegliere il regista in prima persona. Il fatto che fosse la sua prima esperienza con i documentari era molto importante per me. Guardando i suoi lavori precedenti ho subito notato un grande senso estetico, un grande sguardo. È un londinese trasferito a New York, con una fissa per le donne americane – è sposato con Karen O, un altro aspetto interessante. Lui è salito subito a bordo, non abbiamo avuto bisogno di intermediari di nessun tipo. Insomma, a che serve l’opinione degli altri? Se guardi un film o ti piace o non ti piace.
Il documentario, originariamente, doveva essere due terzi sul passato e uno sul presente. Poi mi sono reso conto che c’era una sorta di atmosfera da letto di morte. Il risultato finale, per fortuna, mi sembra molto originale.
Il film racconta nel dettaglio il tuo rapporto con la droga, ci sono anche molte tue fotografie della cocaina. Volevi parlarne davvero?
Non ho mai pensato che fosse necessario, anzi. Pensavo fosse una distrazione, un po’ come per il documentario sulla vita di Robert Mapplethorpe – quel film parla troppo della sua vita sessuale. So che era un aspetto importante del suo lavoro, ma la cosa che mi è più rimasta impressa di quel film è una telefonata sul fisting. Ho pensato: ‘Ok, è una roba interessante, ma avevo davvero bisogno di sapere tutta questa roba?’
Hai capito qualcosa di nuovo su te stesso guardando il film?
No. Non sono sicuro di aver capito molto del documentario, è molto caotico. Non è un film lineare perchè la mia vita non è stata lineare. Le uniche costanti per me sono state lo yoga e l’importanza degli acidi. In un certo senso è stato importante per me iniziare a fotografare proprio con Syd Barrett. Per quanto riguarda tutto il resto… diciamo che avevo una sorta di intuito organico, molte delle persone che ho fotografato non erano ancora famose.
Pensi di aver creato uno stile unico di fotografare le rockstar?
Sarebbe stupido cercare di analizzare troppo questa cosa. Non amo analizzare le mie foto. Io ho un metodo – una sorta di processo interiore – e non riesco a spegarlo. So che a volte sembra una cosa molto drammatica, diciamo che ho un’attitudine un po’ ossessiva. Io vengo dal rock & roll, non posso avere una sola visione. Non sono un fashion photographer. Anche le mie foto di Kate Moss non sembrano normali foto di moda, e non volevo apparissero come tali.
Hai dedicato il film al ‘genio senza tempo di David Bowie e Lou Reed’. Perchè hai fatto qusta scelta?
Loro sono stati davvero importanti, mi hanno aiutato a sviluppare la mia sensibilità. Lou e David erano due persone fantatsiche: quando ero in difficoltà economiche mi hanno aiutato, hanno comprato le mie stampe. Quando sono stato in ospedale per mettere il bypass cardiaco, sono stati i primi a mandarmi dei fiori. Non solo erano veri amici, erano anche i miei eroi. La mia ammirazione per il loro lavoro è molto profonda.
Cosa rendeva David Bowie così fotogenico?
Era impossibile fare una brutta foto a David Bowie. Quando l’ho incontrato non sapevo quasi niente di lui. Una delle prime cose di cui abbiamo parlato era proprio della mia amicizia con Syd Barrett, Lou Reed e Iggy Pop. David li aveva incontrati a New York, avevamo queste persone in comune. Immaginati una conversazione di questo tipo nel 1972, avevamo tutti poco più di vent’anni.
Cosa pensi del fatto che oggi chiunque abbia un iPhone si senta come Mick Rock?
Lo adoro. Si, è facile per me fare una foto e posso scattare senza pensarci troppo. Mi piace il mondo contemporaneo, mi piacciono le cose che puoi fare con Phosohop. L’ho usato per resuscitare alcune mie vecchie foto di Syd, scatti sottoesposti che avevo tenuto da parte per anni.
Tutti sono grandi fotografi. Ho visto alcune foto scattate da mia moglie e da mia figlia, sono così belle che ci ho messo sopra il mio nome – ora valgono un sacco di soldi! [risate]