«Possiamo alzare un po’ l’aria condizionata? Inizia a far caldo qui». Miles Kane, Milano, il rock, l’estate. La presenza del co-fondatore dei Last Shadow Puppets in città gioca a favore del surriscaldamento globale e, con uno sprezzante piglio da frontman, per rendere tutto ancora più hot a un certo punto chiede pure se può levarsi la camicia.
Kane è fiero della sua ultimo album e da bravo show man non vede l’ora di mostrarsi al mondo, mettendosi a nudo. Durante l’ultimo Mi Ami è salito sul palco per duettare con Angelica su Amarsi un po’ di Battisti (la giovane cantautrice ha aperto le date del suo tour italiano già nel 2019) perché a Miles Kane l’Italia piace di brutto e non ne fa mistero. Uno dei singoli estratti dal nuovo album One Man Band si chiama Baggio e, proprio come il titolo lascia intendere, è un omaggio devoto al campione della nazionale italiana. “Mi stai mostrando la strada da percorrere. Quando mi sentivo perso mi sedevo e ti guardavo mentre t’impadronivi della scena”, canta Kane trattando un fuoriclasse del pallone come un modo per trovare conforto.
Nell’album Kane si riappropria sia del linguaggio intimista che ha contraddistinto i Last Shadow Puppets, il gruppo che ha fondato con Alex Turner degli Arctic Monkeys, sia del rock chitarristico. La sensibilità artistica che gli è valsa una nomination al Mercury Prize e che emergeva dai suoi precedenti album solisti oggi è filtrata dalla maturità dei 37 anni e codificata in testi che non lasciano spazio all’immaginazione. The Best Is Yet to Come, canta nella traccia numero due del disco.
Crescere a Liverpool con la fissa per Roberto Baggio. Ci spieghi com’è possibile?
Avevo otto anni quando lo vidi per la prima volta in tivù a casa di mia madre, durante i mondiali del ’94. Lo stile in campo, la corsa morbida ed elegante, il look differente, il numero 10 sulla maglietta hanno subito catturato la mia attenzione. In breve tempo è diventato un’ossessione. Ho iniziato ad appassionarmi sempre di più al gioco e a tutto ciò che fosse italiano, dal calcio alla moda. Una magia che mi accompagna da allora e che mi ha portato a comporre Baggio, una canzone che ritorna con lo sguardo al me bambino, sbloccando tutta una serie di memorie che mi hanno accompagnato nella crescita fino a oggi.
Hai anche girato un breve documentario, Searching for Baggio, che testimonia l’incontro con il mito…
Sì. Ho preso un volo per Milano, ho tenuto le dita incrociate e con l’aiuto del mio staff sono riuscito a conoscere Roberto Baggio. Quando ho realizzato che stava per accadere veramente ho rischiato un attacco di panico, poi è andato tutto in discesa. Ci siamo incontrati ad Altavilla Vicentina, a casa sua.
Che cosa vi siete detti?
Mi ha subito abbracciato facendomi sentire benvenuto. Mi ha chiesto se volessi del caffè o del vino. Ha vinto il prosecco, un ottimo rosé. Mi ha autografato una sua t-shirt e abbiamo parlato di quanto sia importante seguire il proprio cuore nella vita e di quanto lui sia stato per me un modello, come uomo e come sportivo. È stato emozionante, quasi spirituale per certi versi.
Quanto di quel bambino che ha realizzato il suo sogno c’è nel nuovo disco?
Quando ripenso alla mia infanzia non lo faccio per guardare al passato con nostalgia, ma per essere più consapevole di ciò che sono oggi. È qualcosa che riguarda tutti, ha a che fare con il percorso che tutti affrontiamo per diventare noi stessi. One Man Band è questo. È un disco personale che ho inciso a Liverpool, la città in cui sono cresciuto e in cui ho deciso di ritornare proprio per lavorare all’album e riflettere sul mio viaggio.
Lavorare “in famiglia” ha semplificato le cose?
È stata la cosa migliore che potessi fare. Mi ha aiutato a tirare fuori quello che avevo dentro. Certo, ci sono stati momenti difficili e situazioni frustranti ma l’entusiasmo di voler dimostrare ciò che so fare non mi ha mai abbandonato.
Con il calcio d’inizio del disco, Troubled Son, scendono subito in campo le chitarre. Hai riscoperto la tua vecchia anima da musicista?
Ho registrato One Man Band nei nuovissimi Kempson Street Studios di Liverpool, con la produzione di James Skelly dei Coral. Mi sono tornati alla mente i primi tempi, quando volevo soltanto fare il chitarrista: essere quel ragazzo che sul palcoscenico sta nell’angolo mi rendeva felice. Poi ho cominciato a prendere confidenza anche con il canto, sebbene fossi molto timido. Lo sono ancora a dire il vero. Mi sono esercitato cantando nella mia stanza a casa di mia mamma fino a quando i tempi non sono diventati maturi per prendere in mano il microfono davanti alla folla. Quel figlio “problematico” è diventato grande e questo disco è espressione di questa crescita: ho imparato a non rendere le cose più complicate di quanto già non lo siano. Troubled Son in particolare l’ho scritta mettendomi in gioco al cento per cento con me stesso. La parte compositiva ha degli aspetti drammatici, la produzione è totalmente rock and roll. Un po’ come tutti i testi dell’album che sono l’equivalente di me nudo su un tavolo.
Esattamente quando crescere smette di essere un problema?
Quando impari a esprimere i tuoi sentimenti e smetti di combattere con le relazioni. Non ho trovato risposte a tutte le mie domande, ma ho non più problemi a mostrarmi per ciò che sono.
Niente più pose da rockettaro?
Nella mia musica non ci sono pose fighette, non c’è make-up.