Il glam che si unisce al Northern soul, all’r&b, al sound della Motown in un album che è una scarica di energia. In questi tempi bui il nuovo Change the Show di Miles Kane, quarta prova solista per il musicista britannico, sembra scritto ad hoc per tirarci su di morale, per farci alzare dal divano e scatenarci a ritmo perché indipendentemente dalle difficoltà della vita “non ci stancheremo mai di ballare”, per citare il testo di Never Get Tired of Dancing.
Non mancano note nostalgiche, vedi la ballata di apertura Tears Are Falling, ma il gusto revival del cantante e chitarrista già nei Little Flames e nei Rascals e al fianco di Alex Turner degli Arctic Monkeys nei Last Shadow Puppets, è qui al servizio di 11 canzoni infarcite di cori, intrecci armonici e melodie da inno dal sapore beatlesiano (ai Fab Four è dedicato un altro progetto di Kane, il supergruppo The Jaded Hearts Club, con, tra gli altri, Matt Bellamy dei Muse e Graham Coxon dei Blur), in cui il groove si fa spesso così vibrante e contagioso da risultare irresistibile.
Alla base c’è «un intenso periodo di riflessione in cui ho scritto brani che parlano di alti e bassi, sogni a occhi aperti, amici veri e sentimenti profondi», dice lui, che per questo ritorno ha voluto accanto a sé Corinne Bailey Rae in Nothing’s Ever Gonna Be Good Enough, duetto dichiaratamente ispirato al duo Ike & Tina Turner, e il comico inglese Paul O’Grady, famoso sin dagli anni ’80 per il suo personaggio drag queen Lily Savage.
Quando parli di riflessione a cosa ti riferisci?
Le mie canzoni sono sempre personali, ogni album rappresenta un capitolo della mia vita. Le tracce di Change the Show non fanno eccezione: rispecchiano la consapevolezza che ho maturato in questi ultimi anni, rispetto al passare del tempo e ad alcuni cambiamenti che mi sono ritrovato ad affrontare. Non c’entra la pandemia, parlo di qualcosa di più personale.
Sei tornato a vivere a Londra, giusto?
Sì, tre anni fa ho lasciato Los Angeles. Dopo il mio album del 2018 Coup De Grace, il mio disco solista più recente, ho sentito che era arrivato il momento di tornare a casa. È stato bello vivere in California finché è durato, ma non mi sentivo più a mio agio.
È lì, negli studi di Rick Rubin, che hai registrato anche Everything You’ve Come to Expect, il secondo album dei Last Shadow Puppets uscito nel 2016: ce ne sarà un altro?
Al momento non ci stiamo lavorando, ma abbiamo sempre avuto in testa l’idea della trilogia.
Intanto in Change the Show unisci la passione per il Northern soul con i suoni Motown che avevi esplorato con Turner e soci e il risultato è una musica solare.
Presi da soli, però, i testi sono piuttosto malinconici ed è per questo che la musica è il contrario: ho sempre pensato che anche i versi più tristi possano diventare qualcosa di bello grazie a ciò che ci costruisci attorno. Amo quel tipo di contrasto, la bellezza nella tristezza, hai presente? Forse è qualcosa che ha a che fare con il mio modo di vivere i periodi più difficili, si tratta di esorcizzare. Dopodiché tutto nasce dai miei ascolti, con gli stili musicali che citavi ci sono cresciuto, sono nelle orecchie sin dall’infanzia.
Che ricordi ti vengono in mente se ripensi al te stesso bambino?
Quando ero piccolo a riempirmi di musica sono state mia madre e mia zia, non a caso la copertina del mio secondo album solista mi ritrae con loro due, che sono dietro al banco di macelleria dove io stesso ho lavorato da ragazzo per mettermi qualche soldo in tasca. Ascoltavano e adoravano Diana Ross, Four Tops, Temptations, Supremes, T. Rex… Un sacco di roba bellissima. Tenendo conto che con i Last Shadow è affiorato maggiormente il lato Motown e che i miei precedenti dischi solisti erano un po’ più glam rock, questo mio nuovo album non è, in fondo, che un’evoluzione naturale.
Il titolo Change the Show riflette un tuo desiderio?
Come musicista non ho mai voluto rifare lo stesso disco, per cui ogni volta che mi metto al lavoro su del nuovo materiale mi lascio trainare da ciò che viene. Credo sia giusto seguire anche le idee più lontane da ciò che hai già fatto, cambiare, appunto. È a questo che si riferiscono il titolo dell’album e la title track, che ho scritto quando il Covid era appena arrivato, giornali e tv non parlavano che di quello e di Trump, tutte notizie negative da cui volevo staccare, ed è lì che mi è venuto questo pezzo che è quello che traina tutto il disco.
In passato hai dichiarato di fare musica mod, adesso…
Adesso sono oltre, ho voluto e voglio ancora progredire. Però non smetto di amare la cultura mod, mi ci sono avvicinato da adolescente, mi affascinava per i vestiti sfoggiati dai suoi esponenti e per l’attitudine che la contraddistingueva, da cui scaturivano canzoni pregne di rabbia: la rabbia che si ha da giovani quando si sta cercando di scoprire chi si è e per riuscirci si ha inevitabilmente bisogno di identificarsi con uno stile, un sound, un look. Per me la scena mod, che ho scoperto verso i 14 anni e forse anche prima grazie agli Oasis, è questo: uno stile di vita; la gang – diciamo così – cui ho avuto l’esigenza di appartenere per capire chi fossi; le radici cui torno sempre, immancabilmente, perché sono parte di ciò che sono. Da questo punto di vista l’artwork di Change the Show parla chiaro, come il mio look.
Chi è il tuo modello numero uno?
Penso Paul Weller, anche perché ha saputo costruirsi il tipo di carriera che ho sempre sognato.
Oltre a collaborare con Pretty Green, la linea di abbigliamento di Liam Gallagher, Weller ha sfilato, posato ed è diventato testimonial per marchi e case di moda. Il tuo percorso non è dissimile, hai anche collaborato come lui con Fred Perry.
I vestiti hanno sempre avuto un grande impatto su di me, amo la moda tanto quanto la musica. Ti alzi al mattino e a seconda dell’umore scegli cosa metterti: considero gli abiti una forma di espressione importante, dicono chi siamo.
E quando ti guardi allo specchio vedi una rockstar?
Capisco cosa intendi, ma no, non vivo me stesso come una rockstar, sono una persona che vive una vita normale, ho gli amici di sempre e non andiamo in posti di lusso per gente elegante, semmai ci troviamo al pub a bere, guardiamo incontri di pugilato, giochiamo a FIFA. Insomma, sono abbastanza basico nella mia quotidianità, ma credo in me stesso? Sono una cazzo di rockstar? Ci vuole un equilibrio, non vado al supermercato sentendomi chissà chi, però sul palco… Ciò che provo sul palco è qualcosa di inspiegabile a parole e di incomparabile: non esiste niente di meglio delle sensazioni che provo quando faccio un buon concerto. O perlomeno, io per ora non ho trovato niente di meglio.
Come stai vivendo questa pandemia che ostacola in primis gli eventi, concerti inclusi?
L’estate scorsa ho fatto tre concerti, ma a parte questo è dura. Amo il mio pubblico, amo cantare le mie canzoni con i fan, ciò che mi manca è quella connessione con la gente che ti guarda, ascolta e canta con te i pezzi quando suoni dal vivo. Da un lato sono abituato a trascorrere dei periodi in cui non sono in tour e sto in studio, dall’altro la situazione attuale un po’ mi preoccupa.
Change the Show potrebbe essere perfetto per un film, che ne pensi? Ti piacerebbe scrivere colonne sonore?
Molto, credo che il suono delle mie chitarre sia particolarmente adatto al cinema.
Con quali registi vorresti collaborare?
Oh, sono aperto a ogni possibilità (ride). Ma se devo fare due nomi, parto con Quentin Tarantino e Martin Scorsese.