«Cosa sta dicendo il rap in questo periodo?», chiede Militant A degli Assalti Frontali. «Escono canzoni come se nulla fosse. Non si può fare finta di niente, chi è morto è morto e chi si è salvato si è salvato. Questo è il momento della verità: dobbiamo chiederci quali sono le cose veramente importanti, anche per noi rapper».
Veterani dell’hip hop militante, gli Assalti Frontali raccontano in Città fantasma i mesi del lockdown e i quartieri di Roma, i romani, in realtà tutti quanti noi, in equilibrio precario a causa del Coronavirus.
Com’è nata Città fantasma? Il titolo fa venire subito in mente la Ghost Town degli Specials…
Anche Living in a Ghost Town che i Rolling Stones hanno registrato durante la quarantena. Nel momento più tremendo del lockdown, quando sembrava non finisse più, ho sognato che stavo facendo un concerto, ma era passato così tanto tempo dall’ultimo che non ricordavo più le parole delle mie canzoni. Il giorno dopo, camminando per Centocelle deserta, ogni tanto incontravo qualche compagno. Non sapevamo come salutarci perché non potevamo darci la mano o abbracciarci, allora alzavamo il pugno. Da lì mi è venuto prima il ritornello, “alziamo il pugno da lontano quando ci incontriamo”, e poi il resto della canzone.
Chi sono le persone che si vedono nel video di Città fantasma?
È un racconto del quartiere che si è mobilitato per trasformarsi in una comunità. Quando sembrava potessimo parlarci solo su Zoom e non fosse più possibile vedersi, né aiutarsi, si è attivata una rete di solidarietà per le persone che avevano più bisogno. Nel video si vede il gruppo di appoggio mutuo di Centocelle, nato in seguito all’incendio della libreria Pecora Elettrica. Da una serie di eventi negativi sono nate cose positive. Ancora oggi, raccolgono nei mercati rionali quel che dona la gente e consegnano a chi ha bisogno di venerdì e sabato. Abbiamo girato il video durante quei giorni. Ma si vede anche la scuola, l’Istituto Comprensivo Simonetta Salacone con cui ho fatto altre cose in passato: dopo i giorni della didattica a distanza, hanno cercato di fare di tutto per ritrovare un contatto spezzato.
Com’è Roma adesso, soprattutto il centro della città, dopo due mesi di lockdown?
Le zone di Roma centro sono come abbandonate. Erano state svuotate dai residenti per dare spazio ai turisti e quindi, ora che i turisti non ci sono più, non c’è nessuno. Ma in generale c’è voglia di alzare la testa, riprendersi. Questa storia è stato un trauma collettivo, che va superato.
Durante il lockdown comunque non sei stato fermo. Hai fatto Rap dell’infermiere, com’è nato quel pezzo?
Mi ha contattato la caposala del policlinico di Tor Vergata, dicendomi che aveva letto e apprezzato i miei libri, e mi ha chiesto: “Mi aiuti a scrivere qualcosa per la Giornata internazionale dell’infermiere?”. Per me è stato un grandissimo onore e così abbiamo scritto insieme il pezzo. Mi ha raccontato quel che voleva dire, ossia che gli infermieri non sono degli eroi, ma esseri umani come tutti gli altri che si ammazzano di lavoro. Sottopagati, saranno dimenticati quando tutto questo finirà. E nel giro di una settimana è uscita la canzone con le immagini girate dagli stessi infermieri montate nel video. Mi chiamavano da altri ospedali dicendo che cantavano il pezzo in corsia. È stato commovente, un modo per esserci.
Un altro modo per esserci durante i giorni del lockdown è stato partecipare alla challenge lanciata da Emis Killa, un rapper che appartiene a una generazione molto più giovane della tua.
Quando Emis Killa ha lanciato l’idea del freestyle coinvolgendo altri giovani rapper l’ho vista come una cosa positiva perché penso che il valore storico del rap sia proprio raccontare la realtà. Per questo mi ci sono buttato e ho aderito umilmente, raccontando quel che per me è importante: la solidarietà, ritrovarsi, aiutarsi. Com’è che non riusciamo a difenderci da questo virus? Per me il rap deve fare i conti con questo evento, non si può far finta di niente e chi è morto è morto e chi si è salvato si è salvato. Dobbiamo in qualche modo capire quanto accaduto e farne tesoro. Questo è il momento della verità, anche per noi rapper: quali sono le cose che valgono veramente? Tanti della nuova generazione hanno sempre cantato solo di chi aveva la macchina più bella, la donna più svestita, chi faceva più soldi… Ma adesso cosa è veramente importante, cosa ci dite di questo virus?
Hai sentito quindi cose interessanti cantate dalla nuova scena rap riguardo la crisi scatenata dal coronavirus?
Sono rimasto colpito dal fatto che tante canzoni escono come se non fosse successo niente. E mi manca che qualche rapper nuovo dica come se l’è vissuta, come ne sta uscendo. Mi manca questo tipo di rap perché è quello che fa crescere e fa cultura. Quando tra qualche anno ci guarderemo indietro, ci chiederemo: rispetto a questo momento storico, la musica cosa ha prodotto? Cosa sta dicendo il rap ai ragazzi? Capisco che un fatto sui migranti o i rom porti a pensare “riguarda solo loro”, ma questo riguarda tutti. Per esempio, è uscito il disco di Gué Pequeno, ma io non ho sentito un accenno su quanto accaduto, o forse è nascosto in qualche piega di qualche canzone e mi è sfuggito. Ma non l’ho sentito neanche da altri.
In Città fantasma citi anche George Floyd. Considerati i tanti ragazzi tornati in piazza, secondo te un movimento come Black Lives Matter può rimettere in circolo tra i più giovani, anche in Italia, un tipo di rap più consapevole?
In America sta accadendo. Per strada, durante le manifestazioni, si sono risentite Fuck tha Police e Fight the Power. È tornato il concetto: se non ci occupiamo noi stessi delle nostre cose collettive, chi se ne occupa? In Italia manca ancora. Ho voluto mettere in Città fantasma quel che è accaduto a George Floyd perché è parte di questo momento: anche il virus quando ti colpisce non ti fa respirare. E ora abbiamo tutti bisogno di respirare.
Per esempio, su TikTok, This is America di Childish Gambino è diventata la colonna sonora di una campagna contro la violenza della polizia sui neri.
Certo, e ho visto anche lo scherzetto che hanno fatto al comizio di Trump. Su TikTok viaggiano tantissimi video di attivisti e spesso per trovare cose interessanti in questo senso devi andare proprio lì. Le mie figlie lo usano e durante le manifestazioni andavo a vedere l’hashtag #BlackLivesMatter: c’erano dei video bellissimi.
Secondo te, ora, c’è un pezzo simile a This is America qui in Italia?
Ci vorrebbe una canzone così…
Cara Italia di Ghali?
È stata sicuramente una canzone che ha tentato di raccontare cose in questa direzione. Ma ci sono comunque molti spunti positivi nel rap di oggi.
Tornando a Città fantasma, è un pezzo che hai cantato con una backing band, Lo Zoo di Berlino. Chi sono?
È un trio rock strumentale di Latina: non hanno la chitarra, solo basso, tastiere e batteria (il batterista è Max Bergo dei Senzabenza, storico gruppo punk-rock italiano, nda). Inizialmente dovevo solo registrare la voce nello studio di uno di loro, Andrea Pettinelli. Ma gli piaceva il pezzo e così si sono proposti di suonarlo. Durante il lockdown era un problema andare in studio di registrazione, dunque gli ho dato delle indicazioni, volevo una cosa un po’ funk ed è uscita molto bene.
C’è un arrangiamento che ricorda Gangsta’s Paradise di Coolio: è voluto?
In realtà avevo chiesto ad Andrea de Lo Zoo di Berlino di riprendere un suono di N.Y. State of Mind di Nas. Lui l’ha ripreso con il violino e alla fine, in effetti, sembra Gangsta’s Paradise. Ho pensato che magari anche Coolio ha preso quell’idea da Nas.
A proposito di rap italiano e contaminazioni, nel ’96 hai registrato Conflitto con una backing band chitarra-basso-batteria. Ora tanti rapper più giovani di te suonano con un vero e proprio gruppo alle spalle. E spesso sono proprio autori più maturi o conscious: Ghemon, Frah Quintale, Rkomi…
Anche Salmo e Rancore. La performance dal vivo suonata bene è molto più affascinante, per esempio Nas fa delle cose con la batteria live, o Kendrick Lamar. Chiaramente in questo momento è dominante il suono della trap, molto elettronico, ma c’è una tale esplosione di creatività. Per me, che la trap sia diventata un linguaggio di massa è una cosa molto bella, super positiva.