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Ministri: a cosa serve cantare?

Lo abbiamo chiesto al trio alla vigilia della pubblicazione di 'Giuramenti'. «Oggi la musica non crea comunità e senza comunità non c'è cultura, rimangono solo Sanremo e l'Eurovision»

Foto: Chiara Mirelli

Gli ultimi due sono stati per molti anni di bilanci, anni in cui tra un lockdown e l’altro ci si è chiesti cosa stessimo facendo delle nostre vite, dove stessimo andando. E quando fare i conti con se stessi significa farlo con i propri giuramenti, quelli delle origini, non è escluso che si finisca per chiedersi a cosa serva cantare. Serve a tante cose, tutte scandagliate dai Ministri nel nuovo disco Giuramenti, in uscita il 6 maggio, che traccia ancora una volta la linea di demarcazione oltre la quale l’autenticità e la credibilità non possono andare, il confine che il trio milanese, da una quindicina d’anni sulle scene, non ha mai superato e non ha alcuna intenzione di oltrepassare. A tutela non solo di una forma d’arte, ma anche di un modo di vedere la cultura e la comunità.

Rispetto a quando nel 2006 i Ministri pubblicavano il loro esordio I soldi sono finiti le condizioni del mercato nel quali gli artisti si muovono sono cambiate tantissimo, ma anche pochissimo: i soldi che per la musica, o per lo meno per la musica fatta in un certo modo, erano finiti non sono tornati e le modalità di intendere e fruire le canzoni hanno confermato il trend emerso già a partire dai primi anni Duemila. Anche per questo ha senso riprendere in mano le promesse di tanti anni fa.

C’è un filo diretto che collega I soldi sono finiti al nuovo album, che mette in comunicazione i giuramenti degli inizi ai giuramenti di oggi. Il vostro primo e il vostro ultimo disco sembrano essere due facce della stessa medaglia. Lo vedo solo io?
Davide “Divi” Autelitano: È vero, i pezzi di I soldi sono finiti volevano esprimere quello che per noi significava fare musica. Volevamo rispondere a una situazione di crisi, a uno scenario in cui una professione come la nostra veniva liquidata con una pacca sulla spalla. Come dire, se vuoi fare l’artista buona fortuna. Giuramenti è un po’ il punto d’arrivo di questo ragionamento.
Michele Esposito: Mi fa piacere questo collegamento. Un giuramento ha un carattere anche temporale, nel senso che deve passare del tempo per valutarlo. Se hai percepito che le tematiche del nuovo disco riprendono quelle del primo vuol dire che quelle promesse sono ancora presenti dentro di noi, nonostante i cambiamenti e le trasformazioni. Significa che quello che ci siamo detti quando abbiamo iniziato a fare musica insieme ce lo portiamo addosso e probabilmente è anche ciò che ci ha permesso di attraversare molti anni di carriera e di situazioni, compresa la pandemia e un’eventuale guerra che speriamo non accada.

A proposito di bilanci, il testo di uno dei brani del disco, Comete, mi ha ricordato un po’ L’avvelenata di Guccini. Il suo “credete che per questi quattro soldi, questa gloria da stronzi, avrei scritto canzoni?” non mi sembra tanto distante dal vostro “forse era meglio restare fermi, forse era meglio restare spenti”.
Divi: Beh, di sicuro i quattro soldi di Guccini non corrispondono ai nostri quattro soldi (ride).
Federico Dragogna: Bello però il riferimento, non è così diretto. Diciamo che Francesco Guccini non è tra i nostri riferimenti musicali, ma ha comunque fatto anche grandi cose. Comete però, vuole raccontare come la natura ragioni in un modo completamente diverso rispetto all’uomo, in termini di economia di energie. Noi ci sbracciamo, ci arrampichiamo, ci danniamo, ma viene da chiedersi per che cosa. Forse dovremmo imparare da quell’eternità e da quell’immobilità, quella delle pietre per esempio. Poi Comete parla anche delle esistenze più piccole, del fatto che in questa grande ricerca quasi doverosa della felicità c’è chi la felicità non l’avrà mai, di chi non avrà neanche mai l’amore, chi non riesce a stare dietro a questa agenda di miglioramento, al motto che c’è sempre una soluzione. Invece tutto sommato una soluzione non c’è, ci sono mille esistenze che volano basse, che non sono viste da nessuno e falliscono anche se fanno del loro meglio. È la loro voce che nel brano si chiede se forse non sarebbe stato meglio non fare nulla.

Avete pubblicato l’EP Cronaca nera e musica leggera meno di un anno fa. Cosa non era riuscito a entrare in quell’EP, a livello di suoni e contenuti, che ha invece preso forma in Giuramenti?
Federico: Tutto nasce dalla stessa sessione, in realtà. Avevamo deciso di raggruppare nell’EP i brani che forse si assomigliavano di più ed erano più urgenti e un po’ più aspri e di lasciare tutto il resto per il disco. Solo Numeri come composizione nasce dopo, nel 2021.
Divi: L’estate scorsa ci sembrava opportuno fare uscire pezzi con sonorità che, dopo un lungo silenzio, fossero più legate all’immaginario dei Ministri, a quello che la gente associa a noi, tinte più rabbiose e più forti.
Federico: Avevamo un po’ anche le palle girate di nostro. C’era la prospettiva di fare in estate i concerti con le sedie, che in fondo si sapeva già dalla primavera, e per questo inizialmente avevamo pensato di fare un EP musicalmente più morbido. Dopo dieci minuti abbiamo cambiato idea e abbiamo fatto esattamente il contrario.

Avete chiuso un tour nei club poco prima dell’uscita del disco e non in contemporanea o dopo la pubblicazione come avviene di consueto. Come mai?
Divi: Abbiamo preferito tornare subito sul palco. Sapevamo che andando a suonare nei club avremmo trovato gente che non aveva tanta voglia di sentire i pezzi nuovi, ma i vecchi classici che gli erano mancati di più in questi anni.
Michele: Partire subito ha avuto anche un significato simbolico. È stato bello rientrare in un club al chiuso e suonare forte, pogare, essere tutti uno di fianco all’altro, vedere questo trasporto tra le persone dopo tanto tempo.
Federico: Vorrei sottolineare che i concerti al chiuso sono molto diversi da quelli all’aperto. In un club le persone scelgono di andare a schiacciarsi tutti insieme in quel posto, testimoniando una convinzione diversa rispetto a un concerto all’aperto durante il quale esci, fai serata, ti fai un giro per prenderti una birra. Nel club c’è l’essenza del rock.

A proposito del vostro rapporto con chi vi segue, avete deciso di lanciare una newsletter attraverso la quale veicolare musica inedita, esclusiva e gratuita a chi si iscrive.
Federico: Sì, le abbiamo chiamate Canzoni ombra. Volevamo avere un po’ più di libertà e uscire dalla logica di fare le cose sempre nello stesso modo. È un gesto di libertà. La newsletter piano piano formerà una specie di discografia parallela, anche perché noi produciamo molti più pezzi di quelli che facciamo entrare nei dischi e ci dispiace lasciarli lì a prendere polvere. Non ci guadagniamo un euro, ma ti dirò che neanche coi guadagni dei servizi di streaming vai a fare una cena di pesce.

È anche un modo per sottolineare la differenza tra ascoltatore e consumatore. Come si mantiene negli anni una connessione con chi la vostra musica non la consuma, ma la vive?
Divi: È vero che la musica è sempre stata anche un fenomeno commerciale, però quando abbiamo iniziato c’era cura dei contenuti e la voglia di coinvolgere le persone, di fare cultura, una parola in Italia bistrattatissima.
Federico: La musica che ascoltiamo su una qualsiasi radio generalista non è cultura e non perché sia brutta o diversa da quella che facciamo noi. Non lo è perché non sta creando una comunità e senza comunità non esiste cultura. Nel mondo in cui siamo cresciuti, il rock aveva mille comunità e mille culture da cui sono nate cose interessanti che in seguito sono state cannibalizzate dal mainstream. Se togliamo le minoranze non rimane più niente, solo Sanremo e l’Eurovision.
Michele: Avrei la coscienza sporca, avrei dei problemi con me stesso e con gli altri se la mia musica diventasse solo una cosa da consumare.

Qual è la cosa che vi fa più paura, che temete di più come band?
Divi: Penso l’omologazione. È il grande spauracchio che credo dovrebbero avere tutti gli artisti che investono in credibilità come abbiamo fatto noi. Adattarsi è importante e non bisogna chiudersi in una gabbia, ma quando la contaminazione diventa tutto, quando diventa l’unico tratto distintivo della propria musica allora c’è un problema.
Federico: A me credo che faccia paura il fatto di non essere fiero di una canzone, rinnegare un brano o partecipare a un progetto musicale e chiedere di non apparire, di non essere nominato.

Avete parlato di contaminazione. C’è qualche ascolto o più in generale qualche opera nel quale vi siete immersi di recente, collettivamente o individualmente, che ha influito sulla composizione di Giuramenti?
Federico: Ci sono stati classiconi che sono andati forti nel rock negli ultimi due anni e che abbiamo ascoltato, come Idles, Fontaines D.C. e Viagra Boys. Ne abbiamo discusso tra noi, anche se non hanno influito sui suoni del disco. Per quanto riguarda i film, pur essendo un grande cinefilo, non avevo più voglia della finzione cinematografica, guardo un decimo di quello che guardavo tre anni fa. Invece ho letto moltissimo, quello sì, soprattutto saggi, da Raffaele Alberto Ventura a Slavoj Žižek.

Parlate spesso di adattamento, di credibilità, del rischio di snaturarsi. Ci sono stati dei momenti in cui avete pensato di lasciar perdere, in cui stare dentro al sistema e combatterlo allo stesso tempo vi è sembrata una battaglia senza senso? In Esploratori, per esempio, uno dei brani del disco, vi chiedete a cosa serva cantare.
Federico: Non ho mai provato uno scoramento di questo tipo, nel senso di arrivare a pensare di fare qualcosa di diverso dalla musica o dalla scrittura. Parlando invece come persona che scrive, non come musicista, negli ultimi due anni mi ha ferito questa specie di massacro delle opinioni, il dibattito polarizzato prima sul Covid, ora sulla guerra in Ucraina.

Qual è la funzione sociale dei Ministri?
Divi: Secondo me il mestiere degli artisti, e quindi anche dei Ministri, è riportare l’attenzione sulle scale di grigio, sulle sfumature, in un contesto in cui un’opinione predefinita si scontra contro un’altra opinione predefinita. Quello che sta nel mezzo invece è importantissimo non solo perché nelle sfumature c’è la verità, ma perché là c’è anche il confronto. Gli artisti devono avere questo ruolo, sensibilizzare ad avere una chiave di lettura propria e alternativa. È la massificazione delle opinioni che rende la gente stupida
Federico: Credo anch’io nel continuare a instillare il dubbio e allo stesso tempo rispettare la gente senza imporre cosa pensare, ma offrendo prospettive diverse. Questo significa anche raccontare i dubbi che ci attraversano, non pensiamo certo di avere la verità in tasca. Vorremmo che si tornassero ad ascoltare i nemici, a confrontarsi con loro, mentre il mondo della cultura e della politica sembra aver smesso di ascoltarli. Viviamo in un Paese di tolleranti che in fondo non tollerano più niente.
Michele: Aggiungo che i Ministri dovrebbero avere la funzione di fare tutto questo con la musica, che è anche una cosa leggera ed emozionante. È attraverso questo canale che ci confrontiamo con le persone e non è secondario.

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