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Minor Victories, AAA cercasi compagno di band fico

Il supergruppo ha vinto la sfida: affidare la loro creatività alla posta elettronica, forte dell’esperienza fatta con le band d’origine. Boom
I Minor Victories si sono formati nel 2015 senza praticamente conoscersi e sono (da sinistra in alto, in senso orario): Rachel Goswell, voce degli Slowdive, James Lockey, filmmaker, Justin Lockey, chitarrista degli Editors e Stuart Braithwaite, chitarrista dei Mogwai

I Minor Victories si sono formati nel 2015 senza praticamente conoscersi e sono (da sinistra in alto, in senso orario): Rachel Goswell, voce degli Slowdive, James Lockey, filmmaker, Justin Lockey, chitarrista degli Editors e Stuart Braithwaite, chitarrista dei Mogwai

Cosa definisce una band? Siamo abituati alla retorica di ragazzi cresciuti insieme, che condividono tutto, si amano, si odiano, scazzano, si invidiano, si lasciano, si rimettono insieme, insomma più o meno il diagramma di una storia d’amore tormentata. Però, in tempi di Tinder, stress e vite piene di impegni, può capitare che al romanticismo si preferisca l’efficienza di una relazione sicura, fosse anche a distanza. È quello che hanno pensato i Minor Victories, ovvero: Stuart Braithwaite, chitarrista dei Mogwai, Rachel Goswell, voce degli Slowdive, Justin Lockey, chitarrista degli Editors, e suo fratello James, filmmaker, dando vita a una band senza praticamente conoscersi; un’intensa frequentazione virtuale, dove l’idea di ritrovarsi nella stessa stanza non sembrava poi tanto necessaria. Il risultato è Minor Victories, un album così ricco e sensuale che potrebbe farci rivedere il nostro concetto di storia a distanza, perché forse è proprio nello spazio che ci separa che riusciamo a essere più liberi. Per questa intervista, però, Justin e Stuart li incontro dal vivo, al Village Underground di Londra, dove suoneranno poco dopo. Stuart stringe in mano una tazza di tè, Justin beve vino rosso da un bicchiere di plastica: «È che è scattata l’ora per bere senza sembrare un loser», mi dice Justin appena arrivo.

Beh, il vino non è da loser, magari il bicchiere di plastica…
Stuart: Sì, Justin, prenditi una tazza.

Guarda, tra le due meglio il bicchiere di plastica.
Justin: Non temere, sto profanando vino spagnolo, non italiano.

Allora okay! Intanto volevo farvi i complimenti per il nome: “Minor Victories” mi sembra bellissimo, come l’avete trovato?
Justin: L’ho rubato ai miei amici Lanterns on The Lake, che qualche anno fa hanno fatto uscire un LP che si chiamava: Misfortunes and Minor Victories. Gli ho detto subito che era un nome perfetto per una band, quindi ora me lo sono preso, perché a sei anni di distanza chi se lo ricorda quell’LP? (Ride).

È andato bene a tutti senza alcun dibattito?
Justin: Il dibattito è andato più o meno così: “Questo no, questo no, questo no. Minor Victories: sì, perfetto, prendiamocelo!”.
Stuart: Non proprio una discussione all’ultimo sangue…

E queste non-discussioni come avvenivano?
Justin: Come tutto il resto, via mail.

Nemmeno una conferenza Skype per guardarvi negli occhi?
Justin: Skype solo ogni tanto, perché serve per il business, la parte creativa è per mail.

Che mail vi spedivate?
Stuart: Beh, ognuno mandava quello che aveva fatto, tipo un demo, e poi gli altri ci aggiungevano cose fino a quando eravamo tutti contenti. Poi si mixava. Una cosa semplice, alla fine.

Stuart, che effetto ti ha fatto sentire delle parole e la voce di Rachel sui tuoi pezzi?
Stuart: Ah, ero felicissimo. Il fatto che i Mogwai siano perlopiù strumentali non vuol dire che odio i pezzi più tradizionali e cantati.

Figurati, però devi aver detto da qualche parte che i testi sono solo una roba per far contento il pubblico, più o meno.
Justin: Stuart il fustigatore!
Stuart: Sì, non lo so… ero anche ironico, la maggior parte dei musicisti che amo non fa roba strumentale. Per me era un sollievo non dover essere quello che va a dire “ciao” al pubblico.

Avete fatto uscire dei video per i vostri pezzi che sono proprio parte del progetto, dei mini-film…
Justin: Sì, io e mio fratello avevamo in mente questa cosa da un po’ di tempo.

È una mia interpretazione o quello che chiamate Film Two ha una citazione – un frame identico – dal video Stress dei Justice?
Justin: Ah, deve essere inconsapevole! Noi volevamo solo fare un video sullo skate, perché è una passione condivisa, però il video dei Justice lo considero un capolavoro.

Avevate in mente un’estetica ben precisa?
Justin: Non siamo dei veri cinefili, volevamo più che altro rappresentare il posto da dove veniamo, queste città inglesi dimenticate da Dio, insomma dei non-luoghi dove la gente, al massimo, può aspirare a lavorare in un McDonald’s. Immagino che la Scozia di Stuart non fosse tanto meglio… Insomma, non è che potevamo metterci a fare commedie.

E la scelta del bianco e nero?
Justin: Quella è perché siamo dei ragazzi tristissimi (ride) e perché non siamo dei maghi con la fotografia: col bianco e nero puoi imbrogliare meglio. E poi sono stato in fissa col Neorealismo e la Nouvelle Vague.

La negatività l’abbiamo già vissuta nelle altre band

 

Avete fatto una band che mette un po’ in crisi il concetto di band, e questi video lenti e ripetitivi che sembrano degli anti-video. State facendo i conti con qualcosa?
Stuart: Non lo so, per me è stata la libertà di fare quello che ci andava. Justin e James hanno fatto per anni video per altre band, e magari certe proposte gliel’hanno cassate, per me è lo stesso, credo anche per Rachel, ma non ci vedo un sentimento di opposizione sotto, o della negatività.
Justin: Sì, la negatività l’abbiamo già vissuta. Abbiamo avuto il nostro percorso conflittuale all’interno di una band, fa parte di un processo di formazione che poi si riflette nella musica che fai. Tra di noi non c’è stato bisogno di riviverlo.

Nemmeno un momento di tensione? Non vi è capitato di ricevere un demo e pensare: “Oddio, ma che è ’sta roba!”?
Stuart: No, perché non ci sentivamo sotto pressione. Con l’esperienza, sai che negli anni farai un certo numero di cose che non funzionano, e tenderai a farne sempre meno. Adesso siamo a quel punto in cui sappiamo benissimo cosa stiamo facendo. Al massimo si discuteva di quanto dovesse durare una intro.
Justin: Non abbiamo scartato praticamente nulla del materiale. Cioè, ormai lo capiamo se una cosa è buona o fa schifo, ce ne rendiamo conto da soli. Certo, non avremmo potuto lavorare a un album in questa maniera a 20 anni.

È l’album della mezza età?
Justin: (Ride) Sì, ma è una maturità rinvigorente.

Pensate di continuare con questa band e di conservare lo stesso metodo?
Justin: Sì, anche perché nel futuro prossimo non prevedo che saremo meno impegnati di adesso da poterci permettere di lavorare diversamente.
Stuart: E credo anche che il prossimo album sarà migliore di questo, perché ormai un po’ ci conosciamo e possiamo prenderci certe libertà. Io per esempio a volte mi sono trattenuto, non ho mandato cose di cui non ero sicurissimo.
Justin: Sì, Stuart mandaci le tue cose pazze!

Ragazzi, è un po’ frustrante parlare con voi, siete troppo consapevoli. Non avete nessuna paura rispetto a questo album?
Stuart: Beh, certo: la paura che non piaccia a nessuno e nell’immediato di fare un casino coi pezzi al concerto.

A proposito, com’è stato quando avete finalmente suonato insieme per un pubblico?
Justin: Questo è il primo concerto.

Ah, non l’avevo capito… Neanche un concertino privato per gli amici?
Stuart: Volevamo farlo ma eravamo troppo pigri per organizzarlo.

Siete un po’ agitati?
Justin: La cosa buona è che nessuno conosce i pezzi, quindi non si accorgeranno se toppiamo.

Cazzo, ma avete pensato a tutto!
Justin: Deve essere la mezza età.

Per la cronaca, il concerto è stato fico e – nonostante tutta la consapevolezza della mezza età – imperfetto, intenso, quasi una prova aperta.

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