Mitski è scappata dal successo per rinascere
Era la promessa più interessante dell’indie rock, ma la popolarità e la discografia iperconsumista la spaventavano a tal punto da pensare di «perdere pezzi di anima». Ha deciso di mollare tutto. Poi, dopo aver ricostruito la sua identità a Nashville, ha scritto un disco, 'Laurel Hell', che parla di sopravvivere in un ambiente ostile
Foto: Josefina Santos per Rolling Stone US
Mitski ha gli incubi. Ha sempre sofferto d’ansia da performance, soprattutto nei sogni, che di recente sono diventati sempre più elaborati e terrificanti. In uno, in particolare, il suo gatto è bloccato su un albero e lei è in ritardo per un soundcheck. Quando finalmente arriva alla venue, scopre che dovrà esibirsi con un’orchestra con cui non ha mai provato.
«Tutti mi guardano storto», dice del sogno. «E mentre cerco di scaldare la voce, i musicisti dell’orchestra si mettono a fare lo stesso. Non riesco più a sentirmi e perciò mi rifugio in una serie di stanze sempre più lontane, fino a perdermi».
Forse quel sogno ha a che fare col suo prossimo ritorno on the road, dopo quasi due anni passati in casa. O forse col fatto che l’ultima volta che è stata su un palco, nel 2019, doveva essere l’ultimo show della sua carriera. In ogni caso preferisce non dire altro. «Parlare di sogni è noioso, no?».
Forse no, considerando che stiamo parlando della musicista più enigmatica e affascinante dell’indie rock. La musica di Mitski colpisce nel profondo sia chi si tatua i suoi testi, sia chi crea video su TikTok con il singolo del 2018 Nobody. E sono talmente tanti da spingere i siti di pop culture a spiegare che cosa stava succedendo.
Quando la incontro, apre la porta con insosso jeans denim slavati, una maglia a maniche lunghe color lavanda e scarpe da corsa Brooks. È un piccolo shock giacché l’ultima volta che l’ho vista indossava il suo tipico costume di scena con shorts da biker e ginocchiere.
È l’inizio di novembre e siamo al Bomb Shelter, uno studio di Nashville. Halloween è passato da poco, e la cosa non le piace affatto. «Forse guarderò un film horror», dice. «Posso far durare ottobre quanto voglio».
Entrare nello studio è come scoprire un club segreto, qualcosa di vicino a quello che Kendall Roy di Succession sognava per la sezione VIP della festa per il suo 40esimo compleanno. Lo spazio è accogliente, con copertine di dischi in vinile appese sulle pareti in legno e sul soffitto. Le piante che decorano il banco della cucina hanno visto giorni migliori, accanto c’è una padella di ghisa appesa a uno scaffale e su un forno a microonde è poggiato un gigantesco vaso di miele. Vicino all’estintore c’è un biglietto d’auguri di Natale firmato dalla famiglia di Margo Price.
Mitski prepara una tazza di tè sencha facendo battutacce, poi versa l’acqua bollente in una tazza col logo di New York. Si è spostata a Nashville due anni fa, ma all’epoca non l’ha detto praticamente a nessuno. «Mi sto affezionando alla città, credo», dice pensierosa. «Non volevo andare a Los Angeles o a New York, non volevo vivere in città costose e ipercompetitive dopo aver mollato il mio lavoro».
In realtà, Mitski non aveva affatto mollato. E qui, in questo stesso studio, ha scritto un nuovo album e capito che aveva ancora molto da creare.
Quand’è salita sul palco del Summerstage a Central Park l’8 settembre 2019, il festival era sold out e lei sapeva che si stava giocando molto. Era l’ultima sera del tour di Be the Cowboy, l’acclamato album del 2018, e quando ha annunciato che quello sarebbe stato l’ultimo concerto prima di una pausa «indefinita», i fan sono andati fuori di testa, per usare un eufemismo. Tutti condividevano meme con foto di animali in lacrime e frasi come «sono felice d’essere riuscita a vederla in questi giorni, altrimenti sarei morta». La reazione era così esagerata da costringerla a spiegarsi meglio su Twitter: «Ehi, non sto mica lasciando la musica! Sono in tour da cinque anni, senza interruzioni, e non ho un posto dove vivere. Temo che, se non riuscissi a staccare un po’ al più presto, la mia identità e il mio benessere comincerebbero a dipendere troppo dalla mia carriera, dall’essere sempre in gioco».
Era tutto vero, tranne la prima parte: Mitski voleva davvero lasciare per sempre il music business. «Pensavo che sarebbe stato l’ultimo concerto in assoluto, che avrei smesso e mi sarei rifatta una vita», dice oggi. Forse è per questo che quella si è rivelata una delle performance migliori della sua carriera. Il pubblico sembrava ipnotizzato anche più del solito, le coreografie più pulite. «È tutto quello che volevo fare della mia vita», ha detto al pubblico mentre era stesa su un tavolo a faccia in su, a cantare osservando il cielo.
«È stato bellissimo», dice Mitski. «Ho cantato e mi sono ricordata quanto amassi farlo. Ricordo che appena scesa dal palco mi sono messa a piangere. Pensavo: ma cosa ho fatto?».
Lucy Dacus, che ha aperto il concerto di quella sera, ricorda che scesa dal palco Mitski era ammutolita. «Le ho chiesto come si sentisse. “Ho fatto un errore terribile”. Non appena l’ha detto ad alta voce, mi è sembrata terrorizzata».
A ripensarci, Mitski dice che gli anni in tour non erano il vero motivo per cui voleva smettere. La vita on the road può essere faticosa, ma si può rimediare prendendosi delle pause. Molti artisti restano a casa, spariscono dai social media e ricaricano le pile per poi mettersi al lavoro su un nuovo progetto. Per Mitski, però, era più complicato. Be the Cowboy l’aveva trasformata in una indie star – quel tipo d’artista che crea una connessione intensa coi fan, anche se non si conoscono davvero – e non riusciva a capire come questa cosa le avrebbe cambiato la vita.
«Mi sembrava di perdere l’anima un pezzo alla volta», dice. «L’industria musicale è una versione ipersaturata del consumismo. Tu sei il prodotto che viene consumato, acquistato e venduto. Anche gli amici che sono nel tuo team, le fondamenta del tuo lavoro, prendono una percentuale dei tuoi guadagni. Ogni volta che rifiutavo una proposta, era come se togliessi dei soldi anche a loro».
Mitski parla lentamente, come se cercasse di rimettere in fila gli eventi. Non è solo perché questa è la prima intervista dall’inizio della pandemia e l’isolamento ha peggiorato la memoria («Ero messa male, vivevo in una stanza bianca senza mobili»). È seduta su un divano color carbone nel Bomb Shelter, ha tolto le scarpe e le ha sistemate con cura di fronte a sé. Ha ordinato ciambelle vegane da Five Daughters Bakery, poi le ha tagliate a metà e le ha posate su un tavolino da caffè.
«Per sopravvivere all’industria musicale, ho dovuto soffocato il cuore con un cuscino. Volevo che smettesse di gridare, gli dicevo di tacere e incassare», spiega alla fine. «L’ho fatto ogni giorno per un paio d’anni e il mio cuore ha iniziato a intorpidirsi per poi ammutolirsi. E io ho davvero bisogno del cuore, dei miei sentimenti per scrivere musica. Vivevo un paradosso».
A un certo punto, essere una musicista popolare non le stava più bene. «È per questo che ho smesso. Intravedevo un futuro in cui ero costretta a pubblicare musica solo per tenere il meccanismo in movimento. Mi sono spaventata».
Mitski dice di essere «pessima a dare un nome alle cose», ma i suoi cinque dischi sembrano dimostrare il contrario. I titoli (Retired From Sad, New Career in Business; Bury Me at Makeout Creek; Puberty 2) sono il resoconto brillante della vita di una ventenne, tra rabbia, desideri puri e amore spesso non corrisposto. L’ultimo si intitola Laurel Hell (uscirà il 4 febbraio, ndr), un termine che descrive l’alloro di montagna che si trova sugli Appalachi meridionali. I fiori sono splendidi, quasi dei piccoli rododendri, ma le piante sono velenose, hanno radici basse e intrecciate impossibili da superare. «Ci sono inferni d’alloro che prendono il nome di chi ci è morto dentro, pare».
Anche se non ne ha mai visitato uno di persona, l’idea di liberarsi da un ambiente ostile le piaceva. «Era un’immagine perfetta», spiega. «Sono intrappolata in un labirinto, non posso uscirne, ma è meraviglioso». È un’immagine che emerge nel primo verso di Laurel Hell, che Mitski canta con una voce spaventosa come quella dei film che ama guardare: “Facciamo un passo nell’oscurità, con cura…”. Dice che la canzone è una metafora di come la sua arte nasconda i suoi segreti. «Sono cose che non mostro neanche alle persone che amo, ma questa è l’oscurità che ho dentro».
Mitski ha scritto Working for the Knife, il singolo che ha segnato il suo ritorno, verso la fine del 2019. Solo poche settimane prima era sicura che avrebbe lasciato il mondo della musica, ma le avevano ricordato che doveva un altro pezzo alla sua etichetta, la Dead Oceans. «Ero obbligata a pubblicarlo, da contratto», dice. «Non sapevo se avrei dovuto chiedergli di non farlo, o di presentarglielo comunque».
All’inizio del 2020 ha preso una decisione. Avvolta da sintetizzatori minacciosi, Working for the Knife racconta il dolore e la riluttanza che sentiva all’idea di tornare sul palco: “Pensavo che avrei finito a vent’anni / Ora ne ho 29 e la strada sembra la stessa”, canta.
Nel video, Mitski entra in un auditorium brutalista di calcestruzzo e fa a pezzi un cappello da cowboy – un modo per dire addio all’era di Be the Cowboy – prima di iniziare una coreografia stilizzata in cui batte i palmi a terra, salta caoticamente e agita la testa fino a trasformare i capelli in un unica massa brillante. Nel finale l’inquadratura si avvicina, mentre lei è esausta e adagiata sul pavimento. «L’idea era: ho fatto tutto questo anche se mi fa male, perché lo amo. Io sono questa… continuerò a farmi male e non smetterò, perché non so fare nient’altro».
Per Mitski, Working for the Knife è il faro che illumina tutto il disco, la bussola che l’ha riportata sulla strada dopo essersi persa. Ed è una cosa successa spesso visto che non aveva mai lavorato tanto a lungo su un disco come su Laurel Hell – la maggior parte delle canzoni risalgono al 2018.
«Questo disco ha passato attraverso varie fasi», spiega. «A un certo punto era un disco punk, poi country. Poi, dopo un po’, ho pensato che volevo ballare. Anche se i testi sono deprimenti, volevo che la musica fosse mossa, ne avevo bisogno per farcela».
The Only Heartbreaker è un pezzo in stile disco music, a metà tra Kate Bush e gli A-ha. «Avevo bisogno dell’accoppiata musica-ballo, come in Breakfast Club», spiega. L’ha scritta con Dan Wilson dei Semisonic, autore esperto di hit che ha firmato canzoni di Taylor Swift, Adele, Chicks e altri. Era la prima volta che Mitski scriveva un pezzo con un altro. «È stato difficile», racconta, «per tanto tempo ho fatto di tutto affinché la musica fosse solo mia».
La canzone è stata rimaneggiata almeno venti volte e stava per essere scartata. Poi Mitski ha incontrato Wilson a Los Angeles, durante una session di scrittura per altri artisti. «Quella canzone era nella mia testa da troppo tempo, iniziava a marcire. Così ho pensato: questa persona ha molta più esperienza di me, forse dovrei fidarmi. E sono felice di averlo fatto, perché mi ha portato a conclusioni che non avrei mai trovato in altro modo».
Il testo di The Only Heartbreaker è reso potente dal ribaltamento della classica prospettiva della narrazione pop, quella in cui la protagonista è ferita e noi siamo al suo fianco. Mitski l’ha usata con successo in tante canzoni, da Washing Machine Heart all’inno per cuori spezzati Your Best American Girl. Questa volta, invece, è lei a interpretare il ruolo della cattiva.
«Mi sono spesso trovata in quella situazione», dice. «Le cose non sono sempre bianche o nere. Se presenti al pubblico qualcosa che ti sembra vero, vedrai che ci si rispecchieranno in molti».
C’è stata una fase, quanto Mitski Miyawaki era bambina, in cui iniziava ogni frase dicendo «no», per ragioni che non capisce nemmeno oggi. «Mi chiedevano: ti piacciono le mele? E io: no! Ma le mele mi piacciono. Credo fosse un modo per attirare l’attenzione, per affermare me stessa».
È un ricordo tenero che ci fa capire com’era la giovane Mitski. Il padre lavorava nel Dipartimento di Stato americano, così la famiglia si muoveva spesso, dal Giappone alla Turchia, fino all’Alabama. Lei era sempre la bambina nuova, quella che raccontava strane storie di fantasmi e si svegliava per prima a tutti i pigiama party. «Una volta ho incontrato un genitore in cucina, abbiamo chiacchierato e preparato la colazione insieme mentre gli altri dormivano», ricorda sorridendo. «Ero una bimba strana».
Negli otto anni passati sotto la lente d’ingrandimento dei media, Mitski è spesso stata descritta come riservata. Evita di parlare nei dettagli della famiglia, dice che i genitori sono in pensione e che la sorella minore è «una gran bella persona», poi chiede di non rivelare il nome del gatto per paura che qualcuno possa trovarlo. «Non sono onesta solo sulle cose che potrebbero ferire gli altri», dice. «Nella mia vita ci sono persone che vivono lontane dagli occhi del pubblico, non credo di avere il diritto di parlare di loro senza permesso». In verità, Mitski è onesta e aperta: durante le molte ore passate insieme non ha mai rifiutato di rispondere a una domanda. È arrivato il momento, quindi, di smontare l’idea che sia particolarmente riservata. E anche lei vuole dire qualcosa a riguardo.
«Ho una mia teoria», inizia. «Quando il mondo mi ha messo in questa posizione, non avevo capito che era un accordo, che in cambio dell’attenzione del pubblico avrei dovuto dare me stessa».
Le cose non funzionavano così quando ha iniziato a suonare musica. «Vengo da una scena punk, c’erano band di ragazzi bianchi e volevano solo pubblicare musica, fare tour e poi tornare a casa. Pensavo valesse anche per me. Non avevo capito che il mio contratto era diverso. Tenere alcune cose per me ha fatto arrabbiare molta gente. Magari non ne erano consapevoli, ma pensavano che non avessi rispettato i patti».
Mitski fa riferimento a un famoso articolo di Esquire su Megan Fox, uscito nel 2013, dove l’autore paragonava l’attrice a un sacrificio umano. «All’epoca la gente ci rideva su, io invece pensavo avesse ragione. C’è questo rituale che abbiamo stampato nel cervello. Adoriamo una bella donna, poi la massacriamo e la distruggiamo. Per fortuna ora ho 31 anni, sono fuori dai giochi».
Mitski ha compiuto 30 anni a settembre del 2020, quindi ha festeggiato in lockdown. «Non voglio esagerare, ma mi sono svegliata e ho pianto una sola lacrima. Ero felice di non avere più vent’anni», dice. Ha passato il resto dell’anno a cucinare piatti vegani (soprattutto torte), a guardare film horror e a fare giardinaggio. «La vera me non ha una gran vita», dice. «Sto sul divano e guardo la tv. I miei fan non dovrebbero incontrarmi, resterebbero delusi».
Pensare allo spazio che separa la persona che guarda The Haunting e coltiva cetrioli dall’artista che ha conquistato Dave Grohl e Iggy Pop le dà conforto. «Non dico di avere un alter ego, ma vivo le situazioni sociali con ansia, non mi piace andare alle feste. Sono una performer, il palco è la mia casa. Lì sono sicura di me stessa. Non ci sono dubbi. Esisto e basta, è davvero bello stare lì per un’ora».
Il giorno dopo ci incontriamo allo Shelby Bottoms Park e iniziamo una lunghissima camminata accanto al fiume Cumberland. Mitski sembra una del posto, ha un maglione verde e uno zaino nero, pronta a farmi da guida.
Mentre attraversiamo zone paludose piene di piante infestanti, parliamo di Stregata dalla luna («Nicolas Cage sembra quasi un dio in quel film») e di TikTok («Non voglio mettere troppa pressione alla Gen Z, ma contiamo molto su di loro»). È allegra e vivace, prende in giro gli assurdi movimenti della testa di un picchio e si ferma a osservare della biancheria di pizzo rosa lasciata a terra. L’artista fa capolino di tanto in tanto, come quando la conversazione si sposta sul tema pipistrelli. Dico che sono creature sia orrende che carine, così lei si gira e mi guarda intensamente attraverso gli occhiali: «La bellezza è orrore, giusto?».
Mitski è cresciuta immersa nella musica, da bambina ascoltava le Spice Girls e al liceo cantava in un coro. «Ricordo di aver fatto un’audizione per una piccola parte da solista», ricorda. «L’insegnante e tutti gli altri studenti mi guardavano sorpresi. È così che ho capito che potevo farcela». Ha scoperto ancora di più il suo talento a 18 anni, quando ha scritto la sua prima canzone. «Sono sicura che è capitato a tanti teenager. Non pensavo di avere uno scopo, poi sono riuscita a scrivere quella canzone. È stato un sollievo».
Non era abbastanza sicura in se stessa per studiare musica al college, così ha scelto il cinema. «Ero circondata da persone che volevano fare film, mentre io mi infilavo di nascosto nelle sale prova del dipartimento di musica. È stato allora che ho capito che c’era qualcosa di strano».
Al secondo anno si è trasferita dall’Hunter College di Manhattan al SUNY Purchase, un’ora più a nord, ed è entrata nel programma musicale. Lì ha incontrato Patrick Hyland, produttore di tutti i dischi successivi al debutto autoprodotto del 2012, Lush. «Fare un disco è un processo che rende vulnerabili. Devo concedermi di essere debole e brutta, mi viene difficile farlo di fronte a uno sconosciuto. Ma l’ho fatto spesso con Patrick, di lui mi posso fidare».
Di recente Hyland ha detto a Mitski che lei fa dischi «a coppie», come se esplorasse un’idea in uno e la elaborasse nel successivo. «Lush è un disco del college, come se dicessi: oddio, ci sono degli studi di registrazione! Ci sono altri strumentisti! Poi, in Retired From Sad, New Career in Business ho rifinito le parti di pianoforte e quelle dell’orchestra. Bury Me at Makeout Creek era molto DIY, punk, basato sulle chitarre, perché avevo lasciato gli studi e non avevo più quelle risorse. Avevo una chitarra e stavo imparando a suonare».
In quel momento Mitski stava conquistando un pubblico appassionato grazie alle sue performance, scarne ed emotivamente turbolente, in vecchie venue di New York come lo Shea Stadium e il Silent Barn. Nel disco successivo, Puberty 2 del 2016, ha perfezionato quel suono – è evidente nella quieta e brutalmente onesta I Bet on Losing Dogs e nel punk estatico di My Body’s Made of Crushed Little Stars – e si è fatta altri fan. «La sua musica è viscerale», dice Dacus. «Ha trovato una parte di se stessa che vuole urlare al mondo. Forse non riesci a farlo nel luogo in cui vivi, o magari non hai le parole per raccontare quello che ti è successo. Ascoltare Mitski ti permette di riuscirci».
Naturalmente, Mitski ha continuato su una direzione completamente diversa. Per Be the Cowboy ha messo da parte power chords e urla, sostituiti da sintetizzatori luminosi, arrangiamenti disco chic e canzoni raffinate che parlavano di solitudine e desiderio. Per esempio il desiderio di un bacio – come in Nobody, Blue Light e Pink in the Night –, che ha scatenato una lunga serie di meme. «È una cosa da vecchia Hollydood: un bacio significava moltissimo perché non si poteva mostrare altro. Ho sempre pensato che fosse più intimo. Forse perché è una delle prime cose che si fa con qualcuno, è speciale».
Puberty 2 le ha fruttato l’apertura dei concerti del tour di Lorde, un trampolino di lancio verso un tipo di pubblico e di successo completamente diversi. Nelle settimane che precedevano l’uscita di Working for the Knife, i suoi ascoltatori su Spotify erano diventati quasi sette milioni. Mitski è grata per quel successo («Tutto quello che dico dovrebbe essere preceduto da un’avvertenza: sono fortunata, letteralmente una su un milione»), ma non nasconde che iniziava a pesarle. Ripensando al tour di Be the Cowboy, dice, «cercavo solo di arrivare a fine giornata, ero quasi sempre dissociata».
L’anno scorso, mentre si preparava a tornare con Laurel Hell, ha iniziato a darsi delle regole e prendere consapevolezza dei propri limiti. Ha anche lavorato col suo team per inserire nei suoi programmi pause obbligatorie per mangiare e rilassarsi. (A dicembre, qualche settimana dopo questa intervista, Billboard ha scritto che la sua agenzia di management è stata chiusa dopo una causa per molestie sessuali diretta al suo manager. Un rappresentante di Mitski dice che stanno gestendo «la transizione per allontanarlo dal ruolo»; il manager non ha voluto commentare).
«Credo che la pausa mi abbia fatto bene», dice. «Avevo trascurato la salute perché ero sempre in tour. Non avevo assicurazione sanitaria… per tutti i miei vent’anni non ho avuto il tempo o lo spazio per capire chi fossi. Ho dovuto imparare a prendermi cura del mio corpo».
Usciamo dal parco e prendiamo un’auto Uber per andare a pranzo in un ristorante vegano, il Wild Cow di East Nashville. L’autista è un chiacchierone, ci spiega che l’aumento del prezzo degli affitti l’ha costretto a spostarsi a Hendersonville. Mitski sembra genuinamente interessata, gli chiede del traffico, da quanto tempo vive qui.
Nel giro di qualche minuto scopriamo che l’autista è un musicista in difficoltà, che la sua band Southern rock si è sciolta durante la pandemia, dopo sette anni di lavoro. Racconta a Mitski che vuole diventare un cantautore, che ha un nuovo produttore, le dice cosa pensa dei problemi dell’industria dello streaming. «E voi cos’è che fate?», chiede. «Siamo nella musica anche noi, direi», risponde lei.
Adesso sembra molto più a suo agio, come se dopo essere scappata dalla sua carriera e aver scelto di rinascere avesse fatto pace col successo. «Credo che la fama sia un concetto relativo», mi aveva detto prima. «C’è quella di Taylor Swift e quella delle band di una scena underground. Mentre diventavo più famosa, mi chiedevo: riuscirò a mantenere l’integrità delle mie performance? Come potrò assicurarmi che l’esperienza del pubblico resti intima ed emozionante, anche in una sala con 8000 posti? Come faccio a evitare le luci esagerate e gli effetti pirotecnici? Non voglio che il mio show sia così, voglio che la gente viva un’esperienza, che viva qualcosa di importante».
Quando arriviamo al ristorante, l’autista ci fa scendere e non sa di avere parlato con uno dei nomi più importanti del nuovo indie rock. «Buona fortuna», dice Mitski chiudendo la portiera. «Mi spiace per la tua band».
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.