Una ragazza con il cappuccio sulla testa, gli occhi enormi, il paradenti a deformarle la bocca, guarda un punto fisso davanti a sé concentrata ma anche spaventata come sono i predatori quando hanno bisogno di cacciare ma sanno che potrebbero fallire. Si muove con i tempi allungati e enfatizzati dello slow motion, abbassa il cappuccio, mostra i capelli raccolti in cinque trecce tipici delle fighter di MMA, e man mano che scorrono i secondi stira i muscoli della faccia, inizia a caricarsi, e poi si gasa del tutto, sorridendo e muovendo la testa al ritmo di una canzone che la accompagnerà fino alla gabbia.
In 50 secondi abbiamo la scena più potente di The Cage – Nella gabbia, film d’esordio alla regia di Massimiliano Zanin, la cui colonna sonora è stata curata da Motta, che ha deciso che questo fosse lo scenario giusto per dare finalmente vita ad un pezzo nato parecchi anni fa. Un pezzo intitolato Minotauro, costruito su un loop di chitarra tagliente dentro al quale Danno del Colle der Fomento ha infuso una tensione crescente che al primo ascolto ci porta a scalare una torre di Babele fatta di mostri mitologici e mostri umani, luoghi inospitali e violenti, labirinti e prigioni, e nessun lieto fine consolatorio. A prescindere da come finirà l’incontro decisivo di Giulia, interpretata da una straordinaria Aurora Giovinazzo, con Minotauro Motta e Danno ci fanno sentire il sapore metallico del sangue che anche quando sgorga copioso, non servirà a fermare il combattimento. E pensare che loro, che vivono da tempo una sintonia artistica e umana che è inutile descrivere perché sono loro stessi a saperla e volerla raccontare benissimo, delle mixed martial arts di cui è intriso The Cage non sapevano assolutamente nulla.
Ma Francesco Motta e Simone Eleuteri sono due che della curiosità per mondi altri e possibilmente distanti dal loro hanno fatto da sempre il motore per la propria ricerca artistica. Non li spaventa il rischio, li terrorizza la noia. Quindi eccoli a raccontarci di come sono entrati nella gabbia messa in scena da Zanin, e di come, invece, nelle loro vite le gabbie, per lo meno artistiche, non siano mai esistite. In mezzo tanta Roma, “città eterna che puzza di morte”, a confronto con la provincia, e poi viaggi nel tempo, innamoramenti, tribù metropolitane, in un’intervista che è andata fuori traccia, perché, come canta Danno, “ho perso il filo, mi sono perso dentro il labirinto”.
Ho finito due minuti fa di vedere The Cage e mi sono innamorata di Aurora Giovinazzo.
Danno: Già in Freaks Out di Gabriele Mainetti, che è del 2021, è stata formidabile nonostante fosse giovanissima. Penso che tutti quando l’abbiamo vista lì abbiamo pensato quanto è brava ‘sta ragazza.
Motta: Aurora è stata bravissima, da quello che so per interpretare Giulia s’è allenata pure tantissimo. Io ho avuto la fortuna di andare sul set di The Cage, perché per fare la colonna sonora mi serviva soprattutto capire come avessero impostato le luci, ma mi sono perso ad osservare Aurora perché è ipnotica, fortissima. Tanto del film si regge sul suo personaggio e se pensi che ha poco più di vent’anni capisci che sei davanti a un talento enorme.
Quando lavori a una colonna sonora vai sempre sul set o questo è stato un caso eccezionale?
Motta: Questa è stata la prima volta in cui ho iniziato a lavorare sulla sceneggiatura, quindi avevo delle idee nate dalla lettura ma che poi sono cambiate nel tempo. Per fartela breve: mi ero immaginato una colonna sonora fatta solo di tabla, mi sono fatto due mesi di lezioni con questo maestro che era cattivissimo con me e ogni volta alla fine della nostra sessione mi diceva «ma te Francesco che lavoro fai?». Ogni volta. Tutta sta fatica per poi realizzare che con il film quella roba lì non c’entrava assolutamente niente. Quindi ho ricominciato da capo, ho cambiato suono ed è stata quasi una magia ritrovare questo pezzo fatto con Simone anni prima, e scoprire che si incastrava perfettamente. E di solito evito di mettere roba mia nei film. M’è stato chiesto diverse volte ma ho sempre pensato e spiegato ai registi che sono due lavori molto diversi.
Quando è nata Minotauro?
Motta: Nel 2017, che per la musica è un’era geologica. È nato grazie a Luca Mezzosangue, che aveva in mente da tempo di far incontrare me e Simone, e lo ringrazierò sempre, perché da quel momento la mia vita è cambiata e mi sono innamorato pazzamente di lui.
Danno: Perché sono un uomo di cui è facile innamorarsi.
Motta: È vero.
Ah, partite già così carichi.
Motta: Simo riesce a tirarmi fuori solo parole d’amore.
D’altronde tu Francesco hai spiegato di avere molte più cose in comune con Simone che con altri musicisti a cui sei stato spesso accostato: mi raccontate quali sono queste affinità elettive che vi legano? E poi, quello di sperimentare in territori musicali diversi dal vostro è qualcosa che avete sempre fatto?
Motta: Io sono sempre stato affascinato dall’andare a cercare qualcosa di diverso da me. Ti faccio un esempio: nel 2018 ho fatto il tour con tre musiciste del Niger, con cui non c’era nemmeno modo di comunicare direttamente, perché parlavano la lingua d’origine, che poi veniva tradotta in francese, che poi veniva tradotta in inglese, e lì mi sono reso conto che per quanto fossi un fan totale della musica tuareg, insieme riuscivamo a creare la magia solo nel momento in cui io e la mia band facevamo la nostra musica, loro la loro, e insieme ne usciva una terza. Poi è chiaro che quando si è davanti a una storia musicale diversa, ti viene voglia di entrare nel mondo dell’altro. Però secondo me la cosa bellissima che è successa allora e che succede oggi con Simone è che si lavora insieme con grandissimo rispetto per la storia musicale di ognuno di noi, e con fascinazione verso ciò che di nuovo nasce da quell’incrocio, da quello scambio.
Danno: Io sulla questione dico questo: ho avuto la fortuna di appartenere a una generazione che ha scoperto il rap quando il rap era ancora una musica ai limiti della legalità. Si campionava selvaggiamente, rubando tutto a tutti. Quelli erano anche gli anni in cui cominciavano, purtroppo, ad arrivare gli avvocati, che avrebbero dato un colpo molto forte al genere, facendogli cambiare direzione, perché da un certo punto in poi un sample sarebbe costato tantissimo. Abbiamo però fatto in tempo ad approcciarci al rap quando un pezzo rap campionava il jazz, quello dopo campionava il blues, quello dopo il funk, quello ancora dopo il soul. Grazie a questa catena infinita, chi di noi aveva un po’ di curiosità musicale riusciva, partendo da una musica considerata ignorante, ad approdare ovunque. Ispirati da questi sample, abbiamo scoperto tutta la musica black, ma non solo, anche la psichedelia, il prog rock. Nel mondo da cui provengo io c’è sempre stata la voglia di confrontarsi altri mondi musicali. Mi viene in mente che nel ’94 e ’95 noi Colle der Fomento al Circolo degli artisti eravamo gemellati con la scena punk hardcore, facevamo i concerti insieme, ci supportavamo moltissimo. Ma non è rimasta una cosa circoscritta a generi aggressivi, arrabbiati, perché col Colle abbiamo collaborato con Micalizzi, con Adriano Viterbini, col gruppo La Batteria, con i Dumbo Station, che è un quartetto jazz di Roma, io ho collaborato con Raffaele Casarano, un sassofonista della scuderia di Paolo Fresu. Quindi, per concludere, a me il rap ha dato la curiosità di scoprire altri generi e di volermici confrontare.
Quello che hai vissuto tu pensi sia figlio di una predisposizione tutta romana per la contaminazione? Questa apertura verso altri generi mi sembra molto poco anni ’90, quando la scena underground era molto compartimentata, fatta di appartenenza granitiche: di qui i punk hardcore, di là quelli ’77, di là ancora i metallari, i dark, e via dicendo.
Danno: Sì, giustissimo, è andata così: il mondo underground era spaccato, diviso in fazioni, mentre a Roma riusciva ad amalgamarsi. Oggi non esistono più le tribù. I ragazzini vestiti larghi non è detto che ascoltino rap o che gli piaccia lo skate, mentre negli anni ’90 se qualcuno aveva i pantaloni baggy sicuramente apparteneva a quel gruppo. Però qui le tribù erano in contatto fra di loro, noi dell’hip hop avevamo dentro la nostra cerchia gente che andava ai rave, a cui piaceva la scena techno, avevamo writer che ascoltavano punk e che non impazzivano per il rap. E nel 1991 sono usciti i Cypress Hill, che a noi c’hanno proprio folgorato, gli abbiamo quasi preso il nome. Ma i Cypress Hill avevano una forte matrice rock, piacevano ai rockettari, ed hanno da subito collaborato con quel mondo lì. I Beastie Boys, aggiungo, sono tra i primi gruppi rap in assoluto, e sono l’essenza del crossover di qualunque genere con il rap. Quindi questo genere fin dalla sua prima ora ha prende il funk, il jazz, soul, blues e subito si sposa anche col rock, pure se in un matrimonio un po’ così, un po’ litigarello.
Forse, e chiedo se anche per Francesco per noi di provincia è stato più difficile mischiarci, tendevamo a chiuderci in gruppi che trovavano senso di appartenenza anche attraverso il “nemico” in comune.
Danno: Sicuro, Roma in questo è un unicum in Italia. C’era un’unione di scene alternative. Quando ci riunivamo al primo Circolo degli artisti il giovedì sera suonavano dai Rage Against the Machine, alla jungle, al reggae all’hip hop, e stavamo tutti lì. Anche i metallari. Le tribù c’erano, ma hanno sempre dialogato. Ci si portava rispetto, riconoscendo le proprie differenze, dicendo «a me la tua roba non piace, ma se metti una chitarra sulla mia musica diventa figa».
Motta: Invece per rispondere sulle differenze con la provincia, io dico sempre che c’è una metafora musicale, ma che si sposa bene anche alle scelte di vita. Io quando ero a Pisa, nei primi anni 2000, c’era questa cosa per cui o ti sceglievi e diventavi fratello, o si era nemici. Non c’erano vie di mezzo. Ricordo che c’era questo gruppo metal che quando io e la mia band suonavamo ci tirava i sassi, ci spegneva gli amplificatori. Poi noi facevamo punk con strumenti acustici, non eravamo nemmeno credibili a livello bellico, eravamo tre mezze seghe. C’era quello, ma poi c’era incontri come quello con gli Zen Circus che davano vita rapporti di fratellanza vera. Quando poi sono venuto a Roma e ho visto questa cosa diversa, fatta di musicisti che appena sanno che suoni ti invitano in studio a fare cose assieme, mi sono stranito. Ero tipo: chi sei, da dove vieni, che musica fai, che cosa vuoi davvero da me. Però penso ci sia una parte sana nel saper scegliere le persone, sia io che Simone siamo due che ci pensano molto prima di collaborare davvero con qualcuno. Il mio lato provinciale fa sì che io sia un poi diffidente all’inizio, ma poi quando trovo la connessione mi do al 100%, come con Simo che è una delle mie persone preferite al mondo e uno degli artisti che stimo di più. Ma mi ricollego un attimo al discorso dei sample, perché una delle ragioni per cui ci siamo trovati così bene è che, anche se io ho una cultura del rap direi bassa, non ne so molto, ho sempre lavorato molto sui loop, sul concepire le canzoni come un mantra, e questo secondo me, soprattutto per Minotauro, è un punto di incontro importante. Quella ripetizione strumentale ha una scrittura che ha aperto le porte al cantato di Danno.
Vi è mai venuta voglia di fare un pezzo in cui mettete insieme anche le vostre voci, oltre che alle penne?
Motta: Mi piacerebbe tantissimo, ma per esempio Minotauro è talmente un pugno nello stomaco che qualsiasi cosa avessi potuto fare vocalmente m’avrebbe fatto sentire male!
Danno: Mi metterò io a cantare.
Motta: Diciamolo che canti benissimo.
Danno: Mah, insomma. Però mi sto dilettando a scrivere anche cose non rap.
Motta: Sì, Simo ha dato una mano anche con dei brani del mio ultimo disco, quindi diciamo che la stima non si ferma solo a quello che ha fatto con il Colle, ma ho scoperto quanto è bravo anche a livello di scrittura di canzoni pop, o come vogliamo chiamare le cose che faccio io. Per esempio mi ha aiutato tantissimo con Anime perse. D’altronde lo dicevi ieri, che lo siamo davvero due anime perse.
Danno: Siamo due alienati. Siamo persi nel mondo della musica. Due grandissimi fan di De Gregori. Io sono fan sfegatato dei grandi maestri del cantautorato italiano, li ho sempre guardati come ad un punto di arrivo di un percorso musicale, non cantandole io ma a livello di scrittura. Ora lo sto facendo, scoprendo un nuovo divertimento, perché col rap devi riempire tutta la riga del foglio, ci sono centomila parole, e invece in una canzone normale ne usi quattro ma quelle quattro devono essere dei coltelli affilatissimi, non ti puoi permettere che ci sia la lama rovinata, ha quattro colpi da tirare che devono andare a segno.
Motta: La cosa bella è che mi ha fatto trovare il coraggio di dire parole che da solo non avrei mai detto. Quello che fa Simone è trovare una tangibilità alle parole che a me manca, e che alza di valore alla metafora, quando torno ad usarla. La dinamica testuale tra una cosa che vedi, che tocchi, e subito dopo parlare in maniera più poetica fa parte della scrittura di una grande canzone. E la parte tangibile a me è sempre mancata.
Sentivate entrambi di essere in una fase in cui temevate di ripetervi?
Motta: Sì.
Danno: Non è che ho paura, perché io spesso mi ripeto, ho un modo di affrontare il rap soprattutto con strofe di stile, giochi di parole, incastri, che è una cosa simile a quello che facevano certi jazzisti per dimostrare l’uno all’altro quel che sapevano fare. Quelle sono strofe da rapper per altri rapper. C’è però una parte di me che si annoia a fare sempre la stessa roba, e si deve mettere alla prova, affrontando un tipo di scrittura diverso come nel caso di Minotauro.
Qui hai pescato da un immaginario che sta parecchio fuori dai canoni del rap.
Danno: Esatto. In questo testo ci sono Caino e Abele, il Leviatano, il Minotauro, il Signore degli anelli: è un testo quasi letterario, che deve molto alla musica di Francesco che mi ha evocato qualcosa di particolare. C’è anche da dire che io sono un rapper atipico, che non è street, non vengo dalla strada, e non venendo da quella realtà mi sembra inutile e falso parlare di pistole o cose simili. Quindi trovi anelli magici e capi indiani.
E questa “città eterna che sa di morte ed è così da sempre”?
Danno: È Roma. E secondo me Francesco lo può spiegare meglio di me perché non è di Roma. Un romano la odia e la ama di default, però è più interessante il suo, di parere.
Motta: Ieri sera raccontavo a mia moglie che nessuno così tanto quanto Simone ha piacere nel cercare di raccontarmi che sì questa città è così, ma non è solo così. E per farmici entrare mi ha anche consigliato dei film che sono ritratti inediti di questo luogo.
Per esempio?
Danno: L’imperatore di Roma, del 1983, che è un film in bianco e nero che segue un vero tossicodipendente che nel centro di Roma fa il panico, e poi Bassifondi, di Francesco Pividori, pasoliniano ma in modo contemporaneo, che segue la storia di due senzatetto che vivono sotto i ponti, sul Tevere, che sono due personaggi a loro modo marci, come marcia è Roma, che storicamente è una città sporca, scura, piena di delinquenza fin dal Medioevo. Una città dove squartavano le persone in piazza e tutti andavano a vedere ed applaudire. Una città bellissima, a volte gentile, a volta molto cruda.
Motta: Nonostante io non sia autoctono, nel mio disco La fine dei vent’anni c’è un brano che si chiama Roma stasera che in qualche modo fa intravedere che avessi capito che qui c’era del malato, dell’oscuro. Per me è sempre stata una città che rappresenta anche una nazione, bellissima ma tremendamente malata.
Roma ha anche questa caratteristica di contenere in sé tante anime diversissime tra loro, a seconda di dove ci si sposti.
Danno: Roma è un insieme di città, è una città che se la guardi dall’alto s’è espansa a macchia di leopardo, non a macchia d’olio. Per questo sono nate le borgate, per questo c’è un’identità così forte di quartiere: qui ogni quartiere è un mondo a sé, con quasi le sue regole.
Motta: Nell’ultimo disco dico “Roma è una città che ho tradito perché non ci sono nato”. Ancora faccio fatica a capirla fino in fondo e per uno che scrive canzoni un’ispirazione del genere è difficile da trovare in altri luoghi.
Il fatto che a Roma esistano crew così compatte e longeve deriva in parte anche da quest’identità di borgata?
Danno: Per Roma è una questione quasi genetica: da quando sono nato qui ci sono le comitive. Forse ora, mo’ faccio il vecchio, questa cosa s’è persa perché i ragazzini stanno più a casa, come mi diceva qualche giorno fa un mio amico: ‘sti giovani non escono manco per comprarsi la droga, se la fanno portare a casa. Dai miei 20 ai miei 30, invece, noi abbiamo occupato le piazze, da Campo dei Fiori a San Callisto, e alcune sere eravamo quaranta. E io penso che tutto parta dalle comitive. C’è un bellissimo intervento in un libro che se non sbaglio si intitola Sangue e oro, che tenta di raccontare l’hip hop romano degli anni 2000, di Lory D, dj storico della scena techno hardcore, che dice: «C’è sempre stato l’hip hop a Roma, pure quando l’hip hop non esisteva ancora». Perché, dice, tutti noi ragazzini dei primissimi anni ’80 avevamo già il soprannome. Er teschio, Er lametta, e in discoteca ballavamo con addosso i piumini e il cappello di lana pure se era primavera e faceva caldo, perché era la nostra moda, e i 501 li portavamo calati a metà culo. Tu pensa che il bullo romano, quello che girava col coltello nel Rinascimento, era famoso perché si girava al contrario la retina per contenere i capelli. Come hanno fatto secoli dopo i rapper.
M’hanno detto che con voi potevo spaziare, ma qui siamo proprio partiti per altri mondi. Vi riporto a The Cage, e vi chiedo qual è secondo voi il rischio maggiore che si corre realizzando una colonna sonora: che sia troppo dominante o che, al contrario, passi inosservata?
Motta: Il pericolo maggiore è che il musicista non percepisca l’importanza del lavoro di squadra. Perché siamo degli egocentrici. Invece la cosa bellissima avviene quando regista, montatore, music editor, e in questo film mi ha dato una mano enorme Roberta D’Angelo che fa un lavoro che in Italia c’è da poco mentre in America c’è sempre stato, trovano armonia tra loro. L’altro rischio è non avere coraggio nelle scelte sonore. Fare colonne sonore è come fare l’arrangiamento di un testo che è già scritto, che va rispettato. In Poor Things!, per esempio, Lanthimos ha avuto tantissimo coraggio nel dare fiducia a questo 29enne Jerskin Fendrix alla sua prima esperienza, con un risultato per me incredibile.
Danno: La sfida è trovare la musica giusta. Ci sono film in cui la colonna sonora è l’anima, come 1997: Fuga da New York di John Carpenter. Se tu lo vedessi a volume spento lo troveresti coatto, forse un po’ cretino, ma con quella colonna sonora, composta e suonata dal regista, diventa un cult. Come certe cose di Morricone: magari il film non te lo ricordi nemmeno tanto bene, ma quando senti la musica sai subito che quella roba lì è il clan dei siciliani. O la colonna de Lo squalo: senza quel ta-dan non ci sarebbe stato il film.
Motta: Pensando a Morricone mi viene da dire che ormai il nostro orecchio è abituato a collegare lo scacciapensieri a certe immagini, certe atmosfere. Poi, un film brutto rimane brutto, però questa magia, questi sguardi diversi portati da chi si occupa del suono, crea, come dicevamo prima, una terza cosa che può dare un’identità molto forte al lavoro.
Penso poi che la musica abbia la capacità di riportarti esattamente a un momento della tua vita. Senti la tale canzone, e sei di nuovo lì, in quel preciso giorno. Il cinema viaggia su assi temporali diverse, ma grazie alla colonna sonora succede che all’immagine si aggiunge la musica e si cristallizzi il momento. Sto vaneggiando o trovate che abbia senso?
Danno: Ha senso, e aggiungo che qualcuno, purtroppo ora non ricordo chi, una volta m’ha detto una cosa molto affascinante, simile al tuo discorso, e cioè che un film ha la capacità di portarti in una determinata epoca storica, nel passato degli antichi romani, oppure nel futuro. La canzone invece ti riporta, come dici tu, a un momento esatto della tua vita. Mentre un film porta tutti nello stesso periodo, nello stesso luogo, la canzone porta uno a quando aveva 5 anni, a un altro a quando ne aveva 20 e andava all’università. Sono viaggi temporali bellissimi.
E questo viaggio nelle MMA che sono al centro di The Cage com’è stato? Siete appassionati di sport da combattimento?
Motta: Non sapevo assolutamente niente.
Danno: Io proprio anti sportivo, non pratico nemmeno io videogiochi. Però m’è sempre piaciuto vedere i film sulla boxe, tant’è che Toro scatenato per me resta un capolavoro. Guardo anche qualche incontro di pugilato, c’è qualcosa che mi attrae ma puramente da spettatore, perché se mi immedesimo mi vedo al tappeto subito, manco il tempo di capire dove sono.
E quando arriva un soggetto di cui non si sa nulla è più difficile o stimolante creare il suo mondo sonoro?
Motta: Entrambe le cose. Non conoscendo le MMA mi sono concentrato sulla storia della protagonista Giulia, e quindi ho messo il mio sguardo in più di musicista concentrandomi sulle sue emozioni più che sulle dinamiche degli incontri. Le sue emozioni e le sue paure erano, in fondo, la vera gabbia, più che quella fisica del ring. Ci sono stati momenti in cui io e il regista Massimiliano Zanin avevamo idee diverse, ma arrivare al punto di incontro è, appunto, un percorso bello, emozionante. Una delle cose più preziose che mi disse Ludovic Bourne, autore della colonna sonora di The Artist, durante un corso che feci al Cento sperimentale, è che una delle prime cose da osservare, prima di iniziare a mettersi dei paletti immaginari, era la luce. E io da quel momento ho sempre prestato attenzione alla luce, che è qualcosa che non puoi capire leggendo una sceneggiatura, ma che ti porta ad andare sul set, e in questo caso in particolare è stato fondamentale farlo, perché più che in passato ho cambiato completamente idea e direzione.
Che cosa avete pensato quando avete visto la scena finita in cui c’è Minotauro?
Danno: Quella clip me la sarò vista cento volte, godendo. Poi io sono un amante dello slow motion e quando c’è lei che scrocchia il collo e si stira i muscoli del viso proprio quando io dico “e guarda con che faccia mi sveglio al mattino” mi sono detto: è tutto perfetto.
Motta: Ci sono voluti sette anni per far vivere Minotauro, ma ne è valsa la pena.