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Motta e la voglia di libertà del Joker (senza ammazzare nessuno)

Il cantautore parla di ‘Suona! Vol. 1’ e della sua nuova etichetta, dei pezzi che scrive e non capisce subito, del valore dell’improvvisazione, della voglia di rischiare «che non va sacrificata al mestiere e al mercato»

Foto: Matteo Graia

Il suonatore Motta a quanto pare è giunto alla stessa conclusione del violinista Jones di Edgar Lee Masters, e quella conclusione è: Suona!. Si chiama così il suo nuovo progetto (se la parola vi mette tristezza, chiamatelo pure album o EP, ma eventualmente non nuovo album), disponibile dall’11 ottobre. Si chiama Suona anche l’inedito che affianca sei brani ripubblicati, riarrangiati, rimodellati, risuonati, in un caso con un ospite di riguardo, Teho Teardo.

E si chiama così, all’incirca, la sua etichetta: Sona. Che a quanto pare è quel che gli dicevano agli inizi. «Ho avuto la fortuna di crescere in una provincia piena di musicisti che mi hanno aiutato a migliorare ma anche a cercare di non parlare troppo durante i concerti, visto che una parola in più poteva essere zittita da un urlo unanime: sòna!».

Ma di tutto questo suonare, vale la pena parlare.

Accontentiamo subito i precisi dell’indie: cos’è questa nuova etichetta?
Dal punto di vista editoriale sono sempre con Sugar, una casa discografica con una vocazione indipendente e libera, che mi ha sempre permesso di fare quello che volevo. E questo è un esempio. Non è esattamente un nuovo album, a parte Suona ci sono pezzi che provengono da momenti diversi del mio percorso, fin dal 2012 con i Criminal Jokers.

Cosa hai voluto cambiare?
Tutto nasce da un tour con oltre un centinaio di date, in cui ho ritrovato certe sensazioni dell’essere in una band. Con Cesare Petulicchio e Giorgio Maria Condemi abbiamo fatto arrangiamenti in trio che prevedevano vesti diverse per le versioni live dei miei brani. Poi in studio le abbiamo cambiate anche molto profondamente. Per esempio, Roma stasera ha perso gli accordi e il giro di chitarra dell’originale. Certi cambiamenti mi hanno sorpreso in un modo che va al di là della soddisfazione che si prova quando un pezzo ti piace. Per esempio Bestie, che avevo pubblicato coi Criminal Jokers. È come se 12 anni dopo avessi finalmente capito la canzone.

E ora per queste canzoni rinate durante i concerti, farai altri concerti?
Ne faremo quattro, due a Roma e due a Milano (il 7 e 8 novembre all’Hacienda di Roma, il 27 e 28 novembre al Base di Milano, ndr). In mezzo al locale, quindi in mezzo al pubblico. Senza palco.

Accidenti, il musico che scende tra le genti. Ma forse è il suo posto. È che in Italia è molto difficile considerare chi fa il tuo mestiere “un musicista”. O sei cantautore o popstar – o rapper, sui quali peraltro si dibatte se sono “i nuovi cantautori”.
La cultura del musicista è succube della voglia di incasellare cose. Immagino che chi mi ascolta non sappia se incasellarmi in pezzi come La nostra ultima canzone o altri come È quasi come essere felice. Io ho la fortuna di non essere legato a una canzone particolare, non ci dormirei la notte.

Parlando dei Criminal Jokers, ero incuriosito da una cosa: nelle tue interviste degli anni scorsi citavi ripetutamente il film Joker, che ovviamente è uscito dopo che hai dato quel nome al gruppo. Si potrebbe pensare che sia un tuo spirito guida.
Non del tutto, tant’è che non ho ancora visto il nuovo Joker. E in realtà da piccolo io tenevo a Batman. Del Joker di Todd Phillips mi ha molto colpito la scena in cui lui balla sulle scale, come qualcuno che nella follia ha trovato la sua libertà e si lascia andare completamente. In questo disco forse avevo voglia di tornare ad avere una libertà, un coraggio e un divertimento che rischi sempre di sacrificare all’idea del mestiere, del mercato.

Delle aspettative, anche?
Anche. Io sono stato associato a nomi che facevano musica completamente diversa dalla mia. Amo il pop, ma non sono mai stato pop. Alcune mie canzoni sono finite in certe playlist, ma in qualche caso erano pezzi che mi erano venuti, sì, ma non ero nemmeno così convinto di metterli nell’album. Poi alle canzoni succedono certe cose, le canzoni sono più importanti anche di chi le scrive – e come dicevo, io non necessariamente capisco subito le mie canzoni.

Stai facendo la classica mossa indie di prendere le distanze dalle tue cose di maggior successo?
No, però la mia vita di musicista nasce durante una crisi discografica enorme, per me pensare a diventare famoso era improponibile, non sapevo cosa fosse un contratto o un ufficio stampa, davo per scontato di non farci una lira, con la musica. Ma mi piaceva troppo suonare. Poi, mi considero fortunato perché La fine dei vent’anni, beh, è un miracolo che sia arrivato a tanta gente. Se uscisse adesso non avrebbe quel successo. Ma ci sono fasi in cui le cose vengono davvero dal basso, dal passaparola, credo sia stato il mio caso, quello di Calcutta, di Cosmo.

E pensi che oggi non potrebbe succedere? È tutto cambiato?
Non lo so, di certo le cose sono più difficili, e nel contempo, in apparenza più facili. Ora che ho un’etichetta penso nel mio piccolo di poter aiutare musicisti e ascolto molte cose, e intanto ci sono giovani che firmano un contratto con una multinazionale dopo un solo pezzo.

Però un po’ sei stato anche tu la next big thing.
C’è stata una fase in cui ero circondato da tanta gente che mi diceva bravo, poi qualcuno ha iniziato a dirmi «Mmmh, sì, ma dovresti fare più così e meno cosà». Poi alcuni non mi hanno detto più niente, haha!

Ma hai sempre un buon rapporto con la critica.
Direi di sì, mi trattano bene. Sono onorato di aver vinto due premi Tenco uno dopo l’altro.

Motta con la sua band. Da sinistra, Giorgio Maria Condemi, Roberta Sammarelli, Cesare Petulicchio. Foto: Matteo Graia

Non hai mai letto cose che ti hanno irritato?
In realtà niente di che. All’inizio, quando uscì il disco dei Criminal Jokers ero molto fragile, e per certe recensioni sono stato male. Credo che il pubblico però la pensasse allo stesso modo perché quel disco non andò particolarmente bene, per usare un eufemismo. Poi, per quanto riguarda le interviste, a un certo punto ho pensato che il fatto di prendere precise posizioni politiche e dire – come faccio anche sul palco – cose che mi sembravano banali, evidenti, potesse portare a strumentalizzazioni, a titoli strillati. Ma per quello che sono, quello che mi hanno trasmesso i miei genitori, quello in cui credo, non voglio perdere questa libertà. Continuo a dire cosa penso, vale sempre la pena.

E la libertà musicale? In questo periodo per la maggior parte dei discografici è un azzardo. Adesso che sei un po’ discografico anche tu, cosa ne pensi?
Quello sulla libertà nella musica è un discorso lungo. Per farmi capire provo a fare un esempio. Premetto di nuovo che io amo il pop e ho una maglietta delle Spice Girls. Quindi non disdegno di vedere, per esempio, il documentario di Taylor Swift. Però una cosa che mi atterrisce è quella ricerca di assoluto perfezionismo.

Tra l’altro, per esprimere quello che nelle sue intenzioni è un assoluto intimismo.
Con questo non voglio dire che io raccomando l’improvvisazione, anche perché cerco sempre di tenere a mente gli insegnamenti delle scuole di musica, avendone fatta un bel po’: lì si tramanda un patrimonio di esperienza dei musicisti. Però mi è capitato, in un tour insieme a tre ragazze provenienti dal Niger con cui avevamo a malapena fatto una prova prima di esibirci, di fare una delle cose più sconsigliate in assoluto. Non vorrei entrare in tecnicismi…

Oh no, insisto: con voi musicisti capita troppo di rado, di parlare di musica.
Beh, per dirla in modo più comprensibile possibile, durante il concerto a un certo punto noi abbiamo fatto un accordo minore mentre le ragazze lo facevano in maggiore, e qualunque musicista ti dirà che questa cosa crea battimenti e dissonanze. Però io mi sono accorto che stavo godendo di sentire questa imperfezione, per di più in pubblico.

Per il senso di libertà del Joker.
E senza uccidere nessuno, per di più.

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