Incontro Motta in una gelida giornata milanese alla Sugar, l’etichetta discografica di Caterina Caselli. Il cantautore toscano – simbolo di una nuova generazione che di cose da dire ne ha parecchie – è parecchio teso: trova strano ascoltare il pezzo che porterà a Sanremo davanti a un giornalista. Si consulta più di una volta con il manager, ma alla fine, in una stanza, io, Motta, il manager e l’ufficio stampa ci troviamo con Dov’è l’Italia nelle orecchie. Lo ammetto, dopo l’ascolto ho gli occhi lucidi e la voce rotta. Il pezzo riesce a toccare corde che non lasciano indifferenti. O almeno, questo è quello che è successo a me. Motta sorride e mi chiede di battere il cinque. La tensione si è sciolta. Nonostante il mio imbarazzo, per la reazione inaspettata, si parte.
Dov’è l’Italia inizia con il suono del mare. Che mare è?
Che è mare è? In realtà non lo so che mare è, ma quando sono andato in Messico, ho iniziato a campionare il mare. Prima o poi farò un disco con solo i campionamenti del mare, perché mi piace tantissimo.
Difficile non associare il tuo brano ai migranti.
Parlo non tanto della migrazione, quanto di un viaggio, l’importanza del viaggio.
Parli anche di chi vince e chi perde. Ecco, in Italia, oggi, chi vince e chi perde?
Non so rispondere bene a questa domanda a livello politico, ma ti posso rispondere a livello sociale. Per me vincono i miei genitori, quello che mi hanno insegnato.
Cioè?
Sicuramente, alla lunga distanza, non subito, perderà chi non prende posizione, perderà la violenza. Vince chi si assume le responsabilità di dire quello che pensa, soprattutto a livello sociologico, più che politico.
Parli di smarrimenti, nel brano. In cosa ti sei perso.
In qualche modo, da un certo punto, è come se ci fosse un disincanto.
Per questa Italia?
In realtà non so, perché sono innamoratissimo di ‘sto Paese e sono contrarissimo all’esterofilia. Ad esempio mi emoziono molto di più con Com’è profondo il mare di Dalla che con qualsiasi disco dei Beatles. E mi prendo la responsabilità di quello che sto dicendo.
Ma tornando allo smarrimento?
In qualche modo ho una voglia matta di credere nelle persone, di credere che un giorno farò un figlio, di credere che questo figlio non sarà in mano a un certo tipo di persone, parlando sempre a livello sociologico. Non ti sto parlando di chi avrà come Presidente del Consiglio, ma delle persone che avrà in classe. Però a volte sento una sensazione di smarrimento.
Spiega un po’…
Noi siamo sempre abituati a sceglierci bene le persone, a frequentare persone che più o meno la pensano come noi. Ai miei concerti ci sono persone che più o meno condividono una cosa mia. A volte, guardandomi intorno, vedo che un certo tipo di pensiero, un certo tipo di condivisione, è davvero una piccolissima percentuale di quella che realmente c’è. Spesso trovo un senso di completo smarrimento.
Capito. Dal Tenco (dove hai vinto come Migliore album in assoluto) a Sanremo. Il palco è lo stesso…
…ma la gente è diversa. Sicuramente tornare su quel palco per la terza volta, rafforza la canzone. Come se ci fosse un evidenziatore su certe responsabilità che mi sono assunto con questo brano. La gente sarà diversa, ma io sarò lo stesso.
Da chi è partita l’idea di partecipare al festival?
È venuta da me, da un’urgenza espressiva di cantare quella canzone, su quel palco. È strettamente legata sia alla canzone, che al fatto che sento il dovere di esserci al festival della canzone italiana, perché scrivo canzoni in italiano.
Con Baglioni come è andata?
C’è stato subito un feedback positivo. Anche perché secondo me è un pezzo che piace o non piace.
Questo è vero, ma è pur vero che il tuo nome è uscito solo nel rush finale. Prima nemmeno rumors.
La conferma per me è stata la stessa che è arrivata a mia madre dal televisore. Tra l’altro io ero nell’unico posto del 2019 dove non prende il cellulare, in Abruzzo, a Santo Stefano di Sessanio. Ero lì in vacanza, da due o tre giorni, a stare dietro a neve e camino. Forse ho scelto il momento sbagliato, perché quando ha ripreso il wifi, mi sono arrivate due milioni di notifiche.
E che hai pensato?
Ma allora è tutto vero? L’unica cosa che ho capito di Sanremo è che, fino a che non vedi il tuo nome, non devi esporti.
E i tuoi genitori? Contenti?
Sì, sono sempre stati dalla mia parte. Non mi sono mai nascosto nel ringraziare sempre i miei genitori. Che per un musicista, magari, può essere poco vincente, può essere poco rock, come cosa. Ma in realtà trovo molta più soddisfazione a vedere i miei genitori come esempio, rispetto ai miei 18 anni in cui, come esempio, c’erano Lou Reed e David Bowie. Sono stati molto più importanti i miei genitori.
Hai citato due icone del rock. Ecco, caro Motta, cos’è essere rock’n’roll?
Per me è dire la verità. Chiamiamolo punk, rock’n’roll, almeno nello scrivere canzoni. Adesso nelle interviste sto diventando un poco più democristiano, ma almeno quando scrivo le canzoni l’unica cartina tornasole è emozionarmi. E questo avviene solo se dico la verità.
Parafrasando la tua canzone: Dov’è l’Italia?
Non lo so. C’è una sorta di disincanto innamorato. Non so se c’è una parola per descrivere questa cosa qui. Non so dov’è, non so dove sta andando, ma sono sicurissimo che voglio esserci.
Sai che molti, visti i tuoi brani, pensano che porterai la politica all’Ariston?
Voglio portare una canzone. Non sono un politico, sono uno che ha sempre preso posizione. Forse una delle cose più politiche che ho detto nei miei testi è “Mia madre era bellissima”.
Cioè?
Far capire come la pensi è politico e se ascolti i miei dischi sai come la penso. E questo è fare politica.
Come saprai dai giornali ci sono molto personaggi che si sono riscoperti sovranisti, tipo Lorella Cuccarini.
Non ho seguito la cosa, ma so che Lorella Cuccarini non ha mai scritto una canzone. Di questo sono abbastanza convinto.
Però ne ha cantate tante.
Che è diverso. Il mio modo per esorcizzare la rabbia è scrivere canzoni, forse dovrebbe farlo anche lei. Magari esce fuori un pezzo incredibile.
Un artista deve esporsi sempre?
A livello sociale sì. Dovremmo avere un processo di sintesi alta rispetto alle altre persone: guardare, imparare e trasformare quello che vediamo e non accettiamo. Ci deve sempre essere un certo tipo di sintesi. Non sono uno strumentista e non scrivo poesia, scrivo le canzoni. Sono avantaggiato nel mettere insieme testo e musica, perché il racconto sia in un certo modo. Anche se strumentale. Il mare, ad esempio, è un testo, un racconto. E c’è bisogno di questo tipo di sintesi. I pezzi che mi hanno sempre emozionato hanno queste caratteristiche.
Tipo?
Lucio Dalla. Com’è profondo il mare è attualissima, soprattutto ora.
Ecco, parlando di attualità che hanno a che fare con il mare, ci sono ancora strascichi sulla polemica circa le dichiarazioni di Baglioni sui migranti.
Non ha detto chissà quali cose, ha detto una cosa umana. Forse ci sono persone che hanno paura di un certo tipo di umanità. Mi ha abbastanza sconvolto quello che è successo dopo le frasi di una persona. Non me lo aspettavo.
Quindi l’umanità si è persa?
Io no, però sì. E ti parlo da persona che – oltre a scrivere canzoni – esce di casa e fa cose. Mi accorgo che, spesso, questa umanità manca. Vedo una paura latente verso le persone che, poi, genera volenza. Mi reputo educato e credo manchi un certo tipo di educazione sociale. E anche per questo ringrazio i miei genitori.
Effettivamente la paura dell’altro è tanta.
Una delle cose più belle e importanti della vita – e me ne sto accorgendo negli ultimi anni perché ho la possibilità di viaggiare – sta nel movimento. Un certo tipo di ricerca della felicità sta nella ricerca stessa e nel movimento. Un movimento da dove parte? Dall’attrazione verso un’altra cosa. E dove sta l’attrazione verso un’altra cosa? Quando questa cosa è diversa da te. Questa cosa qui, soprattutto negli ultimi anni, è diventata la più importante della mia vita: mi fa stare bene, mi fa divertire e mi fa mettere in discussione. Laddove c’è una paura verso il diverso, sicuramente parte da un non risolto di noi stessi. Perché è difficile mettersi in discussione.
E pare che la politica fomenti questa paura.
A volte è come fosse una carezza a questa non-risolutezza. Non aiuta a risolversi. E come se qualcuno ti dicesse «Non ti preoccupare, perché tanto non sono risolto manco io». Questa sorta di solidaritetà superficiale provoca l’aver paura del diverso.
Torniamo ai tuoi progetti. Dopo Sanremo nuovo disco o repack.
No. Sulla questione repack, ti dico che c’è un motivo perché in Vivere o morire ci sono quei nove pezzi e quel tipo di scaletta. Lo so che i dischi si ascoltano poco, ma non saprei dove metterla Dov’è l’Italia, anche proprio a livello di racconto. Sto imparando altre cose, sono affascinato da altre cose. Quando finisco un disco sono felice di averlo terminato, prima di tutto. E poi sento un certo tipo di rigenerazione, quando devo mettermi a scriverne uno nuovo.
Quindi?
Dov’è l’Italia è un percorso nuovo, che farà parte di un disco nuovo.
Quando uscirà?
Non lo so. Non domani.
E un tour dopo il festival?
Quello ci sarà.
Tu fai parte dei cosiddetti indie, che stanno avendo un gran successo.
È difficile catalogare gli indie, perché la cosa delle major non è più collegata a un’indipendenza e una libertà nello scrivere canzoni.
Ok, ma perché siete così di moda?
Non lo so. Non ho capito bene come funziona e non lo capirò mai. Fortunatamente non sono il discografico di me stesso.
Forse la gente ha più voglia di contenuti?
Be’, insomma, sì. Su quello ci credo, sul fatto che una cosa con un contenuto durerà di più di una che non c’è l’ha, il contenuto. Credo nelle persone. E credo anche in questa cosa.
Prossimo step?
Per la sfortuna della persone che mi stanno intorno, mettermi a scrivere un altro disco.
Perché “per sfortuna”?
Perché non sono particolarmente simpatico quando mi metto a scrivere i dischi. Però sto imparando, mi sento un po’ più equilibrato rispetto a prima, anche se non posso definirmi simpatico, ecco.
Come mai?
Dire un certo tipo di verità. E andarsela a trovare nello stomaco, smuove un po’ di cose, ma è l’unico modo che ho di fare dischi. E ho voglio di farne un altro. L’ho detto.