Motta: «Quando sarà tutto finito capiremo la fortuna di avere la musica dal vivo» | Rolling Stone Italia
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Motta: «Quando sarà tutto finito capiremo la fortuna di avere la musica dal vivo»

Nel libro ‘Vivere la musica’ il cantautore racconta un’esistenza dedicata alle canzoni e spiega che quando suoni i difetti valgono quanto i pregi. Intanto riguarda le foto dei suoi vecchi concerti: «Mi mettono il magone»

Motta: «Quando sarà tutto finito capiremo la fortuna di avere la musica dal vivo»

Motta

Foto: Foto: Claudia Pajewski/Sugar

La scena è questa. Ultima data del tour de La fine dei vent’anni, disco d’esordio solista di Motta. Siamo a Roma, al laghetto di Villa Ada (un posto grande e cult dell’estate capitolina) e i biglietti sono finiti. È luglio del 2017 e i concerti dell’album hanno ormai superato quota 100. Lui ha da poco compiuto 31 anni, di cui più di 10 a suonare: ovunque, comunque, a qualsiasi condizione. Faticando, prendendo schiaffi, sporcandosi le mani. Come frontman dei Criminal Jokers, come polistrumentista con Zen Circus, Nada, Il Pan del Diavolo, Giovanni Truppi, lavorando anche da fonico. Dal 2016 ha deciso di fare da sé, ancora senza scorciatoie: cominciando davanti a una manciata di paganti, e finendo con una Targa Tengo e questo concerto qui, che simboleggia il suo primo, vero successo in carriera. La scaletta è al termine, e il protagonista si gode il momento. Faccia al pubblico, si versa da bere. Sembra soddisfatto: per la prima volta, finalmente, può dire di “avercela fatta”. Credo gli passino davanti agli occhi la gavetta interminabile, i sacrifici, le delusioni più o meno recenti. Gli passa, insomma, una vita intera immolata alla musica: tanto esercizio, zero compromessi.

Adesso, tutta questa storia Motta la racconta in un libro, Vivere la musica (190 pagine, Il Saggiatore), che però è un’opera particolare e meno lineare di quanto posa sembrare. È un flusso di coscienza intimo, basato sull’esperienza di chi l’ha scritto, che ripercorre i momenti di una vita in cui suonare è stata sempre la priorità, a (davvero) qualsiasi costo. E quindi sì, in sintesi: i primi approcci agli strumenti, le crisi, gli scazzi adolescenziali, la band, i concerti, lo scrivere canzoni, i maestri, mamma, papà e Pisa. E ok. Però, dicevamo, non è solo autobiografia: dal vissuto si cercano di estrarre consigli universalmente validi, dritte e considerazioni per fare della musica un mestiere, una ragione di vita. Dalla didattica (su cui il cantautore ha delle idee precise) ai motivi per stare su un palco, dal perché scrivere canzoni al come scriverle. Fino alla necessità di sbagliare e provare la solitudine, per imparare e trovare la propria voce. «Ma non ho certo la pretesa di insegnare qualcosa a qualcuno», mi avverte a mo’ di disclaimer Motta, durante l’intervista.

E allora perché Vivere la musica?
È un libro che avevo in testa da anni. Credo c’entri la mia maturità: mi sono responsabilizzato, e mi è venuta voglia di raccontare quali sono stati i miei errori e quelli di alcuni degli insegnanti di musica che ho avuto. Sono convinto anche che di didattica della musica se ne parli troppo poco, specie in relazione agli adolescenti. Tutto è limitato al solito dualismo: da una parte il conservatorio, gli ‘studi’; dall’altra l’autodidatta. Ma per me esiste anche una terza via, mediana. Che poi è quella che poi ho seguito io nella mia carriera, per riallacciarmi all’elemento autobiografico del libro.

Teoria e pratica, quindi.
Guarda, io a 8 anni volevo giocare a pallone, non studiare pianoforte. Perché? Perché era più tangibile, vedevi i risultati. E il problema di una lezione di musica, a quell’età, è proprio che ti sembra di prepararti al nulla. Invece teoria e pratica sono entrambe importanti. Purché, appunto, ci sia sempre un’associazione: studiare uno strumento, e suonarlo nei concerti ‘veri’. Io spesso, per esempio, mi pento di non aver approfondito il piano – lo suono male. Ma in realtà, per gli approcci che ho avuto, non mi reputo neanche un chitarrista o batterista. Eppure li suono lo stesso.

Una cosa che mi ha colpito, nel libro, sono le metafore col calcio. Per esempio, racconti di un Fiorentina-Inter del 1995, la tua prima partita allo stadio, e del fatto che ti affascinassero più i gregari di Batistuta. Quelli che nel libro definisci i giocatori “brutti, che si muovono storti e commettono tanti falli”. Che c’entra con la musica?
Sì, papà mi portò a vedere la Viola al Franchi che avevo 9 anni. Il che è già una notizia, con un padre pisano a lungo abbonato in curva del Livorno! (Ride, nda) Oggi non seguo più il calcio, ma prima tifavo Fiorentina. Comunque sì, all’epoca restai affascinato più dagli ‘operai’ che giocavano intorno a Batigol che non dalla sua classe davvero sopraffina. E la metafora con la musica, qui, è duplice. Da una parte, nel calcio ci sono obiettivi tangibili, una dimensione ‘pratica’ in cui gli allenamenti incontrano le partite della domenica. E, come ti dicevo prima, tenerne conto anche quando si studia uno strumento è fondamentale. D’altra parte, quando suoni, a essere importanti sono le imperfezioni, le ‘storture’ appunto. Che sono uniche, che hai solo tu.

In Vivere la musica, in effetti, poni molta enfasi sul loro valore.
Però chiariamo: io non voglio raccontare chissà quali grandi verità. Ci tenevo a raccontare quelle che sono state le tappe principali nella mia vita con la musica. E quindi di conseguenza anche i momenti bui, la solitudine che in molti mi hanno detto che è la vera costante di queste pagine. Il libro è una via di mezzo fra un’autobiografia e un saggio, comunque molto personale. E, per quello che c’è dentro, è una sorta di manuale degli errori. Con un messaggio: io ho fatto questi sbagli, voi che leggete, fatene anche altri. Perché la musica è fatta proprio di errori e imperfezioni: solo così uno trova la propria voce e la propria strada.

Quindi è questa la chiave?
Sì, e la fragilità è importante anche come argomento. All’inizio mi sentivo quasi a disagio nel fare canzoni in cui mettevo in mostra i miei difetti più che i pregi. Mi sentivo messo a nudo, vulnerabile. Succedeva anche quando scrivevo i pezzi che poi sarebbero finiti ne La fine dei vent’anni (il suo debutto solista, nda). Ma è giusto così, invece. C’è tutta una serie di sbavature, anche tecniche da limare, certo; ma è importante rimanere sé stessi e non appiattirsi.

C’è un passo in cui, però, dici che oggi i discografici tendono a fare prodotti tutti uguali. Ergo, tutti perfetti.
Esatto, ma il punto è che ogni essere umano è imperfetto. A me dà ai nervi proprio il perfezionismo che c’è nella musica di oggi, con i produttori che cercano di limitare i tuoi difetti, i tuoi caratteri peculiari, la tua personalità.

Nel libro non lo dici, ma tu hai mai avuto di questi problemi?
In realtà no, ma perché lavoro con Caterina Caselli (presidentessa di Sugar, l’etichetta di Motta, ndr): anche lei è un’artista, sa trovare le unicità nei suoi simili. E forse è l’unica così, nel settore. Però nei talent, per dirti, l’appiattimento è una tendenza molto diffusa: è tutto studiato per creare la performance perfetta.

Infatti c’è un passaggio in cui non scrivi di esserne esplicitamente contrario, ma spaventato.
Ed è per questo, sì. E poi mi spaventano perché ci sono tanti ragazzi, lì, che non vogliono fare i musicisti di mestiere. Non vogliono stare su un palco perché sentono questa vocazione. No: lo vogliono fare per diventare famosi. Chiaro: io ho fatto un altro tipo di percorso, e mi rendo conto anche che sostenere già a 20 anni il tuo primo concerto in un palasport sold out è comunque un’esperienza tutt’altro che facile. Ma sono più per la gavetta, comunque.

Che insegnamenti hai raccolto in questi anni? O meglio: cosa diresti a un ragazzo che comincia adesso?
Gli direi che il peggior modo per arrivare alle persone è fare le cose di proposito, proprio per arrivare alle persone. E di scegliere, sempre e comunque, la strada più difficile, perché è quella che ti rafforza. Io il tour de La fine dei vent’anni, che è finito con migliaia di persone dopo che era partito con una decina di paganti per data, l’ho affrontato bene proprio perché venivo da anni di gavetta. È stato un percorso segnato dalla condivisione: suonavo in una band (i Criminal Jokers, nda) e per noi il gruppo era un rifugio, così come lo era anche la quotidianità della sala prove. Facevamo concerti anche per strada, quando non c’erano date. Adesso mi rendo conto che questi aspetti con la musica digitale sono un po’ cambiati: puoi comporre tutto dalla tua cameretta, per esempio. Però insomma: la stessa Billie Eilish è partita dalla saletta insieme al fratello, quindi siamo sempre lì.

In base alla tua esperienza, come suggerisci di affrontare la gavetta? Non so: a volte uno fa molto, i risultati non arrivano e si butta giù.
Ti direi di porti un obiettivo, ma l’obiettivo in gavetta cambia mese dopo mese. Inizi a suonare, scrivi un pezzo e subito dopo vuoi far sì che funzioni bene con gli altri membri della band. Funziona bene? Sì? E allora lo scopo diventa trovare qualche data in giro. E così via. C’è quasi un’urgenza di fondo, eppure godi nel fare questo mestiere. Ecco: questo deve rimanere fondamentale. Diverse volte ho pensato che scrivere canzoni fosse un atto drammatico, ma la verità è che per me è un’esperienza bellissima, che mi manda a letto contento. La gavetta può essere dura: fai concerti su concerti senza vedere un soldo, fatichi. Ma l’importante è sentirsi contenti di ciò che fai. Se quando torni a casa pensi che sei un musicista, e che era quello che volevi fare, allora ok: è la strada giusta, vai avanti.

Invece il successo? Tu come lo vivi? Ripenso a quel concerto a Villa Ada, con cui hai chiuso in maniera trionfale il tour de La fine dei vent’anni, dopo una gavetta infinita.
Dopo quel concerto ho sentito un senso di vuoto e solitudine assurdo. Non ero pronto, a fermarmi. Ma è da quando ho 18 anni che non mi fermo, quindi sono subito ripartito, andando a toccare con mano quelle cose che ancora non so fare. Penso sia questo che mi tiene vivo e affascinato dalla musica: non avere certezze. Perché è facile darti delle pacche sulle spalle da solo e dirti “ok, bravo, ce l’hai fatta”, quando ti vengono a vedere migliaia di persone. Diverso è continuare a muoversi, scoprire, mettersi in gioco. Io la vivo così.

Prima mi dicevi dell’adolescenza. In Vivere la musica c’è tantissimo del ruolo della famiglia e dell’educazione. Per te, e per i ragazzi che si avvicinano alla musica. Come dovrebbero andare le cose?
Sì, ti confesso che in realtà il libro è quasi più adatto a dei genitori che hanno dei figli che vogliono suonare, piuttosto che a dei ventenni che cercano un manuale per vivere di musica. Ti ripeto: questo è il mestiere più bello del mondo, per me. Ma oggettivamente è difficilissimo, e in primis ci vuole comprensione da parte della famiglia. Poi certo: serve anche disciplina da parte degli aspiranti musicisti, eh. Suonare, suonare, suonare. Sempre e comunque.

E che ti sei esercitato molto lo sappiamo. Piuttosto: dai tuoi genitori (che sono quasi protagonisti altri del libro) hai avuto comprensione?
Sì, mi sono sempre stati vicini, per quanto all’inizio stentassero a capirmi. Ma era normale, e ci stava anche che fossero preoccupati. Un figlio musicista non è mai facilissimo da accettare. Ma che devo dirti: mia madre è punk – nonostante non faccia il mio mestiere – perché sa mettere in discussione le regole precostituite. Pensa: è stata proprio lei, un giorno, dopo un concerto, a dirmi: “Il tuo posto è lì, su un palco”.

E il tuo posto è davvero lì, mi sembra.
Il concerto è una grande festa. Per me è un momento in cui mi sento completamente libero, e completamente a fuoco in ciò che sono. Ma è una conquista, che arriva dopo tanto tempo a cercare la propria identità. E a scrivere canzoni.

In Vivere la musica c’è anche, ovviamente, l’esperienza di scrivere una canzone. Come si fa?
Togliendo tutto il superfluo, lasciando la sofferenza. Poi, in generale, ho capito che devi fare musica se e quando hai qualcosa da dire.

C’è un messaggio finale che vuoi legare al libro?
Guarda: io spero solo che sia utile. Il rischio, ne sono cosciente, era sfociare nell’autobiografia, perdendo gli spunti saggistici. Era la mia paura, ma grazie ai ragazzi della casa editrice, che sono persone molto serie, credo che siamo riusciti a tenere in equilibrio le due componenti: il racconto delle mie esperienze e i consigli generali.

Immagino sia stato un lavoro lungo. Curiosità: quando hai iniziato a scriverlo?
Nella mia testa, come ti dicevo, da tantissimo. Concretamente, due anni e mezzo fa.

Ah, quindi in mezzo c’è stato un periodo bello intenso per te: il secondo disco, Sanremo, un matrimonio…
Già. Ma Vivere la musica è stato un po’ come una canzone. Succede sempre così: la inizi a scrivere, e poi mentre la porti avanti cambi tu e cambia il mondo intorno a te. Finché non decidi che è il momento giusto per pubblicarle.

E questo era il momento giusto per pubblicarlo.
Assolutamente, anche perché sono in pausa dai concerti.

Ti manca il palco?
Sempre, tantissimo. Soprattutto in questi giorni, in cui siamo a casa per il coronavirus. Rivedere le foto dei concerti, con migliaia di persone ammassate, sudatissime, che si sbracciano e festeggiano fra di loro mi dà una sensazione assurda: mi emoziona, ma mi mette anche il magone. E mi pare sia trascorso un anno, nonostante fosse solo il mese scorso. Ma quando tutto questo sarà finito riconquisteremo quello che adesso non abbiamo. E capiremo quanto siamo fortunati, ad vivere la musica dal vivo.

Secondo te l’Italia non era pronta?
L’umanità intera non era pronta, e mi riferisco proprio all’essere umano in sé. Quest’isolamento è stranissimo, alienante, ma dobbiamo fare così. E chissà che non ci cambi: per forza, una volta usciti da qui, questo periodo si dovrà trasformare in un’energia positiva per tutti.

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