Francesco Motta, quando lo vedi, è un guscio duro, forte: è tenace negli occhi, nei movimenti che compie deciso con il suo corpo esile da rocker emaciato e un po’ oscuro. Poi, però, quando ci parli lo vedi subito sotto un profilo tutto nuovo, lo senti aprirsi piano, lentamente sgusciarsi, emergere nello scambio, lo vedi soprattutto sorridere, spalancarsi nel racconto come a offrirti qualcosa di prezioso pregandoti silenziosamente e segretamente di averne cura.
Prima di parlarci, in occasione dell’uscita del suo terzo album Semplice, fuori a mezzanotte di oggi, lo sento suonare dal vivo e lo guardo esibirisi in un luogo sconvolgente per meraviglia e impatto scenico, le Officine Grandi Riparazioni di Torino, in occasione della registrazione dell’ultima puntata di OGR Good Vibes di cui è protagonista e che verrà trasmessa in anteprima sul canale YouTube di OGR Torino giovedì 27 maggio.
È il primo live – seppure senza pubblico – a cui assisto dopo quasi un anno e pur preparata alla tremarella che sapevo avrei provato nel sentire la grana sonora degli strumenti che suonano a pochi metri da me, quello che accade nella realtà è qualcosa che sfugge del tutto a ogni previsione: entrare nell’enorme stanza in muratura nuda, un ex capannone delle officine, a metà tra una fabbrica e una chiesa ora ugualmente sconsacrate e sentire le pennate sulle corde di un’elettrica e un attimo dopo la batteria entrare nel pezzo è qualcosa che leva l’aria, toglie il respiro e insieme rimette le cose al proprio posto o sembra farlo dopo tanto tempo. Incontrare qualcuno che ti era mancato molto, ma non immaginavi quanto fino a quando non ti ci sei trovato faccia a faccia: avete presente? Così.
Non è una cosa che sento solo io, dentro la grande stanza illuminata con neon e luci rosa e blu ci sono uffici stampa, responsabili tecnici, macchinisti e addetti alla comunicazione social: non importa cosa, non importa chi, nell’aria c’è una commozione solida, palpabile, quella data dal tornare a lavorare con i nostri corpi e di farlo insieme, certo, e poi quella di ascoltare le canzoni così, finalmente nude, elettrificate, reali, canzoni oltretutto fatte per essere vive, come lo sono quelle di Motta.
Questa è la prima occasione di suonare live dopo tantissimo tempo, come ti senti?
Mi assumo la responsabilità di dirti che mi sento bene, non è ancora finito il grande spavento per quello che sappiamo è accaduto e ancora sta accadendo, ma ho tanta voglia di riprendere a fare il mio lavoro. Devo cercare di essere lucido perché rischio veramente di emozionarmi per qualsiasi cosa, dal momento in cui vedo una chitarra a quando si inizia a suonare. D’altronde, prove in studio a parte, non suono live dal 29 settembre 2019. Pensa che con mio fratello Appino al telefono una volta ci siamo detti che non ci mancavano solo i concerti, ma pure i soundcheck. Oggi voglio rassicurare i miei colleghi, venendo qui in furgone tutti insieme e dopo un anno e mezzo, dopo i primi dieci minuti tutti eccitati, è finita che ci siamo rotti subito le palle come al solito. Ecco, io spero sia così per tutto: che si ritorni in fretta anche a provare quelle cose normali che si provavano prima. E comunque oltre a suonare mi è mancato e mi manca andare a vederli, essere spettatore di live di altri, fa tutto parte della mia vita.
Quali erano i tuoi programmi quando la possibilità di fare programmi è venuta meno?
Io mi dovevo comunque fermare un po’, ma non è mai successo nella mia vita di stare un anno e mezzo lontano dal palco, è stata davvero dura: so che lo è stato per molti, mi ritengo molto fortunato, più di altri e meno di altri, ora però devo dirti che per me è stato anche difficile sentirmi parte di un gruppo di gente che lavora nello spettacolo, quest’estate farò un tour e magari ci saranno dei tecnici che hanno cambiato lavoro, sono consapevole di essere stato molto fortunato, di avere avuto la possibilità di andare a vivere in campagna per un po’, di prendersi un altro tempo, di aspettare anche, in qualche modo.
Dove sei stato?
A Sacrofano, 45 minuti da Roma, ma sembra un altro mondo. Con Carolina (Crescentini, sua moglie, nda) a un certo punto abbiamo sentito di doverci spostare da Roma perché la città, che io ho sempre amato e cercato perché mi serve per raccontare le cose, aveva iniziato a spaventarmi e mi mostrava dritto in faccia tutto quello che non potevo fare: avevo bisogno di trovare un posto dove provare comunque a creare dei bei ricordi anche in un periodo orrendo, anche con grande difficoltà.
Suonavi?
Mi sono portato gli strumenti, ogni tanto guardavo la chitarra e mi spaventava. Da una parte c’era la necessità imprevista di scoprire altre cose, fosse pure andare a correre o parlare con i cavalli, dall’altra c’era sempre un pensiero interiore che diceva a me stesso: non mi devo scordare da dove vengo e cosa voglio fare nella vita. È stato tutto faticoso.
C’erano momenti in cui non ti andava di suonare?
Sì, in alcuni momenti non mi veniva proprio ed è stato anche un po’ spaventoso questo, è stata la prima volta nella mia vita in cui mi è successo.
Il tuo ultimo disco prima di Semplice è stato un live, una cosa che non fa più nessuno, diciamo che considerando quello che è accaduto poi, tu ti eri inconsapevolmente portato avanti.
Ho fatto un live e un viaggio in Australia, due cose subito prima della pandemia: per me il viaggio è stato fondamentale, viaggiare lo è sempre stato anche per la scrittura e quest’anno perdere questa cosa è stato drammatico, aver fatto queste due cose prima dell’esplosione del Covid diciamo che mi ha fatto temporaneamente scemare malessere e incazzatura (ride).
La tua musica ha una fisicità forte che si esprime tutta live, in concerto è una presenza, è come quando sei un una stanza ed entra una persona dotata di carisma e tu non riesci a smettere di seguirla con lo sguardo. Com’è stato lavorare in studio a questo nuovo Semplice senza poter pensare con troppa certezza alla sua dimensione dal vivo?
Allucinante, ma mi ha fatto toccare più con mano la canzone, gli arrangiamenti e mi ha fatto venire voglia di far diventare l’album in studio il più simile possibile a quello che faccio poi sul palco. Non è mai stato così e spero che si senta. Ho sempre vissuto come una cosa bella il fatto che le persone che venivano ai miei concerti dicessero che preferivano i pezzi live che su disco, io rispondevo loro che sarebbe stato strano il contrario. I significanti dal vivo cambiano i significati, tutto cambia anche in base alle persone che ti stanno ascoltando, in base a dove sei. Ho fatto tantissimi concerti ma non mi sono mai annoiato, il mio problema non è mai stato la noia, io sul palco mi sento allineato con me stesso.
Il disallineamento arriva quando scendi dal palco?
Sì, per me a volte scendere dal palco è stato drammatico, soprattutto mi ricordo quando è finito il tour di La fine dei vent’anni, sono stati giorni difficili, è come se, dopo tanto tempo in giro a suonare, quella vita fosse diventata una droga, la più bella del mondo, quella che avevo cercato da sempre, come ogni droga una cosa che poi, improvvisamente, quando non la assumi più stai malissimo.
La scrittura di un disco e la sua realizzazione sono anche processi che includono l’incontro e lo scambio con l’altro, dai co-autori ai musicisti alla produzione: come sono cambiate le dinamiche umane?
Per Semplice è stata la prima volta che ho scelto di rifare delle scelte, ho lavorato nuovamente con Taketo (Gohara, nda) e i musicisti con cui avevo già suonato. Mi sono ritrovato a centellinare tutto anche a livello di relazioni umane. Io poi faccio sempre la caccia all’errore sulle canzoni che scrivo, avendo avuto più tempo ma anche vedendo che stavano capitando cose gravi, alcune canzoni hanno acquisito significati e un’importanza che magari inizialmente non avevano e altre non hanno retto il colpo, molti brani non li ho inseriti perché avevano perso il fuoco. Il fatto di non uscire e di non stare con le persone, che è appunto il fuoco di quello che vado a raccontare, mi ha fatto poi provare a cercare di sfruttare un presente di privazioni per cercare di spostarmi dalla realtà pura all’immaginazione: cercare di immaginarmi qualcosa nella scrittura è un processo del tutto nuovo per me. Non ho mai guardato al futuro nelle canzoni, al massimo guardavo all’oggi, mai al domani.
Tra i pezzi che hanno sicuramente retto il colpo c’è Qualcosa di normale.
Non solo ha retto, ma ha amplificato il suo significato. L’ho scritto prima che accadesse tutto, è un pezzo che arriva da un momento relativamente tranquillo, avevo appena finito il tour ed ero stranamente in pace con me stesso, dopo l’Australia stavo bene, avevo questa voglia di andare dritto, in modo punk, verso la luce, e questa cosa per me era totalmente nuova, tanto ero abituato a guardarmi indietro. Poi diciamo che quest’anno è stato chiaro che non era proprio il momento giusto per guardarsi indietro, avrebbe fatto troppo male.
Dici nel disco che c’è una finta guerra che fai ogni volta che devi scrivere una canzone, con chi combatti?
Diciamo che ho sempre fatto pesare al mondo intorno a me il fatto di fare quella che per me era la cosa più importante al mondo, fare un disco, scrivere canzoni per me è sempre stato un processo impegnativo e tormentato, e invece con quest’album per la prima volta ho detto quella famosa cosa: faccio il lavoro più bello del mondo e mi voglio divertire, cercando il più possibile di non rompere agli altri con lo spirito di chi fa una cosa che ritiene fondamentale per l’umanità; qui ho più che mai capito che quello che faccio è fondamentale per me, e penso che quello che faccio io sia uguale a costruire sedie o fare qualsiasi altro lavoro da artigiano. Le canzoni salvano semplicemente la vita a me e non ho la presunzione di pensare che la salvino agli altri, anche perché ora la parola vita ai miei occhi ha assunto davvero un’importanza solida, anche nuova.
Il disco si intitola Semplice, e tu per la prima volta non sei in copertina.
No, infatti ho cercato di fare un passo indietro, in questo senso la semplicità, ma soprattutto la ricerca della semplicità è fondamentale: come dice Calvino nelle Lezioni americane, c’è il pensiero di una leggerezza che non è quella di una piuma che cade ma di un uccellino che continua faticosamente a volare, al centro c’è la ricerca dell’essenziale, non del minimale.
Infatti è un disco per nulla minimale, con arrangiamenti ricchi che non direi barocchi ma corposi di certo sì: poi però c’è la tua voce più fragile al centro.
Sì, è così: è un disco con gli archi, molto arrangiato, volevo fare qualcosa di diverso da quello che avevo fatto nei capitoli precedenti, volevo creare tanta dinamica anche rispetto alla voce che è più fragile, sì, perché più che mai mi è stato chiaro che il forte suonato dopo il forte resta forte, ma il forte suonato dopo il piano diventa fortissimo e questa cosa mi serviva anche nella struttura della scaletta, per me era importante che ci fossero inizio, svolgimento e fine. So che oggi questa cosa di ascoltare un disco dall’inizio alla fine non si fa più, ma noi che facciamo i dischi abbiamo anche la necessità di farlo. E poi credo che le persone vadano anche un po’ educate a cose perdute come questa: se non ci sono i dischi, se i musicisti smettono di concepire la musica organizzata nei dischi, nessuno li ascolterà più, è anche un nostro dovere in qualche modo. In questo senso per esempio, proprio per l’importanza che do al disco, il pezzo di Sanremo per me resterà sempre una cosa a parte.
Semplice arriva dopo Sanremo ma, più in generale, è un album che nasce dopo una consacrazione: due dischi e due vittorie al Tenco, l’album live, un libro: il successo complica le cose o le semplifica?
Le complica perché è difficile continuare a toccare con mano il vero motivo per cui si è iniziato a fare questo mestiere, il successo sa farti perdere il centro delle cose, dopo il successo è impossibile parlare solo con la musica, il che è un male, ma anche un bene perché tutti i mezzi che usi dovrebbero poi aiutare la tua musica a risuonare più forte. Ti faccio un esempio: lo studio in cui ho sempre fatto i dischi era una parte di casa mia e la grandezza dello studio era ovviamente proporzionale alla grandezza della casa, La fine dei vent’anni forse l’ho fatto in due metri per uno: o prendevo le percussioni o prendevo la tastiera, e lavoravo con le percussioni perché per la batteria non c’era spazio. Poi con Vivere o morire ho cambiato casa e lo studio era più grande. Ora ho uno studio vero e proprio, è uno spazio fondamentale per me, ma avere la possibilità di fare più cose, possibilità che hai ovviamente grazie al successo, è comunque difficile in una certa misura, rende più difficile il raggiungimento di quella semplicità di cui parlo: col successo è più difficile semplificare perché la ricerca dell’essenziale si basa sul togliere che coincide soprattutto con la comprensione di cosa va tolto.
A un certo punto nell’album parli del tuo “malato bisogno di attenzione”, quella del pubblico o delle persone che ami?
Entrambe, mi riferisco all’attenzione del pubblico ma certamente anche a quella di chi amo. Spesso le cose belle fatte e avute nella mia vita hanno cercato di colmare delle mie fragilità, dei problemi che avevo. Quest’anno quelle attenzioni, parlo in primis del contatto con il pubblico per ovvie ragioni, sono mancate e quindi mi sono detto che era davvero arrivato il momento di assumermi la responsabilità di provare a risolvere quei problemi e ora piano piano, a prescindere dal fatto di stare o meno su un palco, sto cercando di risolvere, di lavorare anche su quei vuoti, perché penso che questo lavoro di risoluzione mi potrà permettere di godermi ancora di più le cose belle, incluso il mio lavoro. Ti faccio un esempio: si dice sempre che per stare bene con un’altra persona uno debba stare bene da solo, io penso che da soli non si stia bene quasi mai, è improbabile, ma credo che risolvendo alcune cose di sé stessi poi si riesca davvero ad amare anche meglio un’altra persona: io volevo riuscire ad amare di più mettendo da parte alcuni vuoti e problemi che il fatto di andare a suonare aveva diciamo, apparentemente colmato, lenendo un po’ il dolore.
Mi stai dicendo che hai iniziato ad andare in analisi…
Sì, anche se non credo nell’ostentazione di questa cosa e penso che come ogni cosa importante debba conservare la propria leggerezza, è forse il regalo più bello che mi sia mai fatto nella vita. Ti racconto questa: a un certo punto in seduta con la psicoterapeuta abbiamo fatto questa cosa in cui io dovevo tornare a vedere quello che ero stato da bambino, lei mi ha chiesto di trovare un luogo sicuro da cui partire, un luogo immaginario che poteva essere reale o inventato, un luogo che mi faceva stare veramente bene: il mare, l’Australia, ovunque. Il mio luogo sicuro, ho capito dopo poco, era stare con i miei musicisti, sul palco, a fare il soundcheck.
Proprio quello che mi dicevi a proposito del palco come come rifugio…
Ti rendi conto? All’inzio mi ci sentivo quasi sconfortato (ride).
Nel disco parli molto della conquista non tanto della normalità, ma del sogno della normalità, della sua possibilità.
A un certo punto ho fatto un sogno in cui ero a casa con mio padre con cui da piccolo ascoltavo molto De Gregori, che ora continuo ad ascoltare anche grazie a lui. A un certo punto nel sogno De Gregori chiama mio padre e gli dice di vedersi di lì a breve. Io esco e mentre sono in giro con Carolina a un certo momento le dico che devo andare, devo correre a casa di mio padre perché c’è De Gregori che arriva. Mi metto proprio a correre, faccio per andare a prendere l’autobus ma finisco in un burrone e nessuno mi vuole recuperare perché per via del Covid non mi possono toccare. Alla fine comunque riesco ad arrivare a casa e gli faccio sentire Qualcosa di normale.
Che, peraltro, è un pezzo in cui si può ritrovare molto l’influenza di De Gregori.
Infatti dopo questo sogno ho chiamato Sugar, ho parlato con Caterina Caselli e le ho chiesto di poterla mandare a De Gregori, di potergliela far ascoltare. Lui mi ha risposto con un’e-mail bellissima in cui oltre a dirmi che gli era piaciuto il pezzo mi ha detto che secondo lui avrei dovuto cantare questa canzone con una donna. Io ho pensato che l’unica donna con cui avrei potuto cantare questo pezzo era Alice, mia sorella.
È l’unico featuring, lei è bravissima e si respira questo senso di familiarità e di assoluta confidenza.
Il fatto che fosse mia sorella infatti ha cambiato tutta l’interpretazione e il senso del pezzo, ha creato una vertigine che non è scontata: parlare d’amore con mia sorella è diverso dal parlare d’amore e basta, e anche i mondi di normalità a cui la canzone si riferisce cambiano, per esempio entra in gioco la famiglia e anche la mancanza della famiglia.
Il discorso della confidenza, in effetti, quello del prendere confidenza con l’altro è un tema che sento forte in Semplice, lo sento per esempio in Quello che non so di te.
Io alla fine ero in campagna e facevo cose tipo accendere il camino più che suonare, ogni tanto guardavo Carolina e le chiedevo se si ricordasse di me com’ero prima e lei mi diceva di sì. Quello che non so di te è un pezzo che ricorda molto quello che facevo con la band, ne sentivo la mancanza lì in quella dimensione in cui mi trovavo e volevo partire dalle cose che sentivo all’epoca, i Cure, i Pixies.
I Violent Femmes…
Esatto, e lì racconto proprio questa voglia di tornare a prima, della stranezza di non accorgersi che i problemi dei vent’anni sono davvero molto più semplici di quanto pensiamo quando li viviamo, di tutti i problemi che arrivano dopo.
È un pezzo sulla nostalgia.
Sì, e per scriverlo e inciderlo avevo bisogno dei riferimenti che avevo quando ho iniziato a suonare, avevo la necessità di rievocare un mondo in cui non avevo nulla, ma il nulla mi bastava.
Il passato è semplice o no?
Stare guardare troppo dietro di te non ti fa pensare al presente e perdi il pensiero rivolto al futuro, la ricerca di qualcosa di nuovo. La ricerca nel futuro di quello che ancora non si ha la si può fare solo guardando avanti, cercare quello che non si ha nel proprio passato è dannoso. Bisogna anche farci pace con il passato, in Vivere o morire vedevo il mio passato in un sistema binario di scelte, appunto vivere o morire. Era un titolo che esemplificava bene questo sistema, questo modo di sentire e ragionare. Qui sono uscito dal sistema binario: io sono A e sono anche B, e lo accetto, mi serve per andare avanti ma anche per essere più felice qui e ora.
Semplice è un disco dove si sente molto questo passaggio di maggiore autoconsapevolezza, ci sono i tuoi desideri nuovi dentro, come appunto quello del pensiero della normalità, ma cosa avevi sognato fino a ora?
Prima forse sognavo di fare pace con la mia sindrome di Peter Pan, cercavo una via per non aver paura di invecchiare e quella cosa forse non mi faceva stare molto sul presente, cercavo quella sensazione di immortalità, la speravo. Concentrarsi sul fatto che si sta invecchiando equivale anche a concentrarsi troppo su ciò che si era prima e questa cosa ti fa smarrire il centro, il fuoco. Ho scoperto che non sono Peter Pan.
E ti sei pure sposato.
Due volte mi sono sposato!
Sei un appassionato di matrimonio.
Sì, diciamo di sì, ma di matrimonio con la stessa persona. Per me significa aver trasformato questa donna e quest’amore nella mia famiglia. Avere a che fare sempre con la stessa persona, oltretutto, ti porta a conoscerti meglio, e quando inizi a conoscere meglio te stesso hai anche più voglia di essere in movimento. In questo senso per me stare con la stessa persona è il contrario della noia, anzi, penso che essere compagni di viaggio ti faccia venire ancora più voglia di viaggiare.
A un certo punto, in quella che io sento come la vera grande canzone d’amore del disco, che poi è quella che lo chiude, Quando guardiamo una rosa, parli proprio della paura di vivere insieme una vita sola, come la paura di fossilizzarsi.
Io e Dario Brunori, con cui l’ho scritta, abbiamo due interpretazioni diverse del nostro pezzo, pensiamo due cose diverse della stessa canzone. Il testo lo ha scritto lui all’inizio, si immaginava una conversazione non amorosa tra due persone che venivano da un tempo diverso, io invece avevo un’urgenza bestiale di raccontare un periodo duro di quest’anno in cui vedevo cose molto nere, volevo parlarne.
La chiusa di quel pezzo che poi è anche la chiusa dell’album sembra una jam percussiva, qualcosa di veramente tribale, un’immersione nell’abisso con la forza terrena dei piedi che spingono, battono a terra, che poi sono le due dimensioni di cui parli nella canzone.
Per me era un finale necessario, di solito faccio molte cose di loop, code strumentali, mi piaceva l’idea di fare una coda estremamente ritmica, esattamente, come dici, molto tribale.
Di sette minuti e mezzo…
Sì, ma è solo per questioni tecniche, è la durata ultima prima che il vinile finisca, ma per me sarebbe potuta durare anche una settimana, e sai una cosa? Probabilmente dal vivo la farò durare non una settimana, ma almeno due.