Si sono incontrati da pochi minuti, eppure Lorde e David Byrne sono già entrati in sintonia. È una domenica pomeriggio ventosa quando la giovane popstar e lo statista del pop si ritrovano sul tetto di uno studio fotografico a Greenpoint, Brooklyn. Entrambi indossano eleganti completi total black: Byrne ha un dolcevita Hermès, Lorde sfoggia un look a metà tra il casual e il maestoso col suo completo Saint Laurent dal taglio ampio. Sono entrambi scalzi. All’inizio se ne stanno uno di fianco all’altra con aria impassibile. Poi Byrne inizia a muoversi dolcemente al suono della musica reggae che arriva da uno stereo nelle vicinanze. Poco dopo, iniziano a ballare, ridere e mettersi in posa accennando addirittura uno swag surfing.
«È un sogno che diventa realtà», dice Lorde quando si spostano al piano di sotto per l’intervista. Ha annotato sul suo smartphone una lista di domande per Byrne. Per la cantante neozelandese la musica di Byrne è stata un punto di riferimento enorme negli anni dell’adolescenza. L’originalità e l’unicità che l’hanno resa un fenomeno musicale sbucato dal nulla con Royals del 2013 si fanno sentire ancora con forza in Solar Power, l’album pubblicato questa estate dopo una pausa di quattro anni in cui l’artista ha viaggiato per l’Antartide alla ricerca del contatto con la natura. Lorde non vede l’ora di poter conoscere uno dei suoi primi idoli musicali.
Ultimamente Byrne ha ripensato al suo passato per American Utopia, lo spettacolo di successo basato sul suo repertorio dai Talking Heads in poi, che questo autunno è tornato a Broadway dopo che la pandemia aveva fatto calare i sipari (ma che nel frattempo grazie a Spike Lee è diventato un film-concerto). Anche lui è entusiasta di conoscere Lorde: è arrivato dalla sua casa di Manhattan su un’elegante e-bike grigio-blu (con casco abbinato) con in mano un foglio spiegazzato e un taccuino con alcuni appunti scarabocchiati che porta con sé mentre si presenta con allegria a tutti quanti.
«Ti ho pensato molto», gli dice Lorde mentre si siedono a parlare. «Non so nemmeno da dove cominciare, David. Ho troppe cose da chiederti». Byrne le risponde con un sorriso e iniziano con la loro intervista.
Lorde: Sei un tipo introverso? Dopo una giornata come questa, senti il bisogno di trovare del tempo per riposarti, oppure questo tipo di cose ti dà energia?
Byrne: Non sono introverso come una volta.
Lorde: Riesci a gestire la timidezza?
Byrne: Sì, come forse hai visto mi piace presentarmi a tutti. In effetti, ho degli amici che mi dicono: «Potresti smettere di salutare chiunque? Non ti conoscono!».
Lorde: Ma salutare è una bella cosa.
Byrne: Mi piace tantissimo fare conversazione con, che ne so, la persona in fila davanti a me alla cassa del supermercato. E se magari dico qualcosa di divertente e ci scappa una risata, la mia giornata diventa più bella. Detto questo, per certi versi sono ancora introverso. Non ho problemi a stare da solo. A volte parlo con me stesso. E non sono conversazioni da pazzo, parlo di cose banali.
Lorde: A voce alta?
Byrne: A volte sì. Sto bene quando lavoro da solo, che sia per una canzone o altro. Prima della pandemia mi piaceva molto andare in un ristorante e sedermi al bancone a leggere.
Lorde: Anch’io lo faccio. Lo staff apprezza molto, forse perché chi mangia da solo è meno rompiscatole.
Byrne: Potrebbe essere.
Lorde: C’è una cosa che mi incuriosisce e che vorrei sapere. La prima persona che mi ha parlato di te è stata mia madre. Non ricordo bene, forse stavo guardando o ascoltando qualcosa di dubbia qualità, e lei mi disse: «Ti faccio vedere io una cosa fatta bene». E mi mostrò la tua performance di Take Me to the River. Non avevo mai visto niente del genere in vita mia. E mentre la guardavo e riguardavo, ho notato che per un minuto intero non hai sbattuto gli occhi. Scusa se te lo chiedo, è stata una scelta artistica?
Byrne: Ah certo, di sicuro non umana. Probabilmente ero molto nervoso e spaventato, non ricordo bene ma immagino che mi muovevo a scatti. Ma andava bene così. Io sono così, non c’è niente di cui vergognarsi.
Lorde: Mi ha molto affascinata era una cosa fichissima.
Byrne: Ho ascoltato i tuoi pezzi un sacco di tempo fa. Una delle cose che mi ha colpito di più è stato l’estremo minimalismo. Nelle parti vocali c’erano un sacco di armonie, ma la parte strumentale era ridotta all’osso: solo l’essenziale, beat e tastiere, poco altro. Mi ha steso. Ho pensato che avevo qualcosa da imparare.
Lorde: Sei molto gentile. Con il tempo sto imparando ad essere meno scarna.
Byrne: Ti è mai capitato di ricevere qualche rifiuto? Ti hanno mai detto: «Devi aggiungere questo e quest’altro al tuo pezzo?».
Lorde: È buffo che tu me lo chieda. In effetti, quando ho pubblicato Royals sul mio SoundCloud, dopo poco sono stata contattata da un’etichetta americana. Mi dissero: «Chiaramente per la versione definitiva dovrai aggiungerci un po’ di cose». Ma per me quella era già la versione definitiva!
Byrne: Quindi hai avuto fin dall’inizio le idee ben chiare su come volevi lavorare.
Lorde: C’è una frase di Ira Glass che mi è sempre piaciuta: quando sei giovane hai gusto, ma non le competenze. Quindi crei qualcosa rimanendo fedele al tuo gusto, pur sapendo che non sarà perfetto. Ed è proprio questo che alla fine ti fa arrivare dove vuoi. Io non so suonare bene nessuno strumento, non sono una musicista, ma ho sempre avuto un buon orecchio.
Byrne: Ho una domanda. Sono molto geloso di quegli autori che riescono ad essere molto specifici nelle loro canzoni. In California, un pezzo del tuo nuovo album, parli del Laurel Canyon Country Store. Io ho vissuto a Los Angeles a metà degli anni ’80, quindi so bene di cosa parli, quello era il posto dove andare a fare la spesa o mangiare una pizza.
Lorde: Buona, fra le altre cose.
Byrne: Sì. Il tuo pezzo cattura benissimo l’atmosfera. Io ci provo ad essere specifico, ma mi riesce sempre difficile. Tendo a scrivere in modo generico.
Lorde: Sì, mi sembra una descrizione accurata del tuo lavoro, in effetti. Io uso molto la specificità perché mi piace trattare il mio lavoro come una piccola mappa personale. Mi piace scrivere di cose che hanno un significato soltanto per me. È una sorta di diario.
Byrne: La canzone è stata scritta come addio a quel luogo?
Lorde: Sì, non faceva per me. È stata la mia prima tappa dopo che sono arrivata in America, e mi sono sentita un po’ risucchiata.
Byrne: Anch’io mi sono sentito così. Ma ci sono stati anche dei momenti belli a Los Angeles in cui mi svegliavo la mattina, uscivo per andare a prendermi un caffè, il sole splendeva e mi dicevo: «Non è poi tanto male».
Lorde: Ok, momento confessione. Ho deciso di non guardare American Utopia perché per me è importante vederlo dal vivo. Nello show hai combinato canzoni di album diversi in un modo che funziona bene. È stato facile per te?
Byrne: Sì, non ho incontrato particolari difficoltà. Ho imparato sulla mia pelle che il pubblico ha bisogno di sentire anche le hit.
Lorde: Invece di solito non le facevi?
Byrne: Mi è successo solo in un tour [nel 1989]. Iniziai a lavorare con una band di musica latina, e c’erano alcuni miei pezzi già conosciuti su cui avrei potuto lavorare, ma molti altri stonavano con quello stile musicale, quindi facevo quasi solo inediti. Questo è un aspetto del nostro mondo che mi stupisce sempre. Nessuno si sognerebbe mai di chiedere a un attore: «Scusa, puoi rifare di nuovo la scena di prima? Ci è piaciuta molto».
Lorde: È vero, non ci avevo mai pensato.
Byrne: Ma è anche vero che la musica ha una qualità diversa, è ripetibile e può colpirti in tanti modi diversi.
Lorde: Volevo chiederti anche della relazione tra chiarezza e mistero nel tuo lavoro. Mi ricordo che, da adolescente, un sacco dei miei amici studiavano all’accademia. Avevano gusti musicali molto ricercati e volevano che anch’io li condividessi. E io ci ho provato davvero tanto, ma a volte non riuscivo a districarmi tra la polifonie. Solo dopo ho capito che non era colpa mia, né di nessun altro. Il tuo lavoro invece è un mix per me perfetto di mistero e chiarezza. Tu hai una preferenza tra le due cose?
Byrne: Credo di essere naturalmente incline verso testi ambigui, astratti. Ho capito che mi piacciono canzoni che sono in realtà domande, ma non ne scrivo poi così tante.
Lorde: Adoro le canzoni piene di domande.
Byrne: L’altro giorno ho letto una cosa che diceva più o meno così: «Sono davvero io, questo? O sto recitando? E se sto recitando, lo stai facendo anche tu? E cosa accadrebbe se tu recitassi la mia parte, e io la tua?». Era una serie di domande che poteva andare avanti all’infinito.
Lorde: Molto interessante. Tu sei molto bravo anche in quello che io definisco melodia pop. È una cosa che ti è sempre piaciuta? In che modo ci sei arrivato? È stato naturale?
Byrne: Mi è sempre piaciuta. Non ho mai avuto paura della melodia pop o dell’essere accessibile. Ma agli inizi non sapevo farlo.
Lorde: Secondo me sì, invece.
Byrne: Beh, grazie. Se ascolto i miei primi pezzi ci sento un tentativo quasi disperato di far passare un messaggio. Il che è anche una buona cosa, intendiamoci. Ricordo che per imparare compravo canzonieri di artisti vari, come molti altri hanno probabilmente fatto. Imparavo a cantare e suonare alla chitarra le canzoni più svariate, magari anche pezzi che non m’interessavano granché, ma ero comunque curioso di capire come erano stati costruiti. E così facendo, scoprivo sempre qualcosa di nuovo. «Oh, guarda, passando da questo accordo a quest’altro si crea un crescendo emotivo, devo ricordarmelo».
Lorde: E questa è l’altra parte di te, quella che ha imparato a salutare.
Byrne: Esatto. Ho imparato che non c’è niente di male se una canzone suona bene. Puoi riuscire a dire qualcosa di molto profondo, persino di radicale, usando una melodia perfetta e accattivante, che però poi ti risucchia e potrebbe davvero cambiare il tuo modo di pensare.
Lorde: C’è stato un momento della tua carriera in cui hai pensato che la musica non dovesse essere per forza qualcosa di gradevole?
Byrne: Sì, c’è stato un periodo in cui ero convinto che il suono dovesse essere imperfetto, ruvido. Forse avevo paura che una cosa troppo bella e curata risultasse superficiale. Come un biglietto di auguri. Non puoi comunicare niente di serio così. Ma poi ho sentito altri autori dare messaggi profondi e importanti usando melodie molto belle. E allora mi sono dato il permesso di farlo anch’io.
Lorde: Per me la bellezza è uno dei cardini del tuo lavoro.
Byrne: Grazie. In The Man with the Axe parli di “centinaia di abiti da sera”. A cosa ti riferisci?
Lorde: Vengo da una famiglia numerosa, siamo in quattro fratelli, quindi gran parte dei vestiti che avevo erano ereditati da mia sorella. Avevo poca roba mia, e la paghetta era una miseria. Poi a 16 anni ho avuto la mia prima carta di credito e le cose sono cambiate. In quella canzone subito dopo dico: “La mia gola si riempie di panico a ogni festival” perché ho una terribile ansia da palcoscenico.
Byrne: E cosa fai per superarla?
Lorde: Non ho una vera soluzione. È un problema serio che sto cercando di affrontare. Cerco di scrivere. Scrivo dei messaggi a me stessa e li appiccico sul palco, così posso rileggere qualcosa che la me del passato vuole dire alla me del futuro. Ma è una dura lotta.
Byrne: Quando ero giovane mi sentivo spesso a disagio. Mi buttavo sul palco e improvvisavo un discorso, oppure mi esibivo in qualche follia, per poi richiudermi in me stesso.
Lorde: E invece adesso?
Byrne: Ancora un po’, ma non come prima.
Lorde: Ti capita mai di pensare: potrei scappare dalla porta sul retro e correre lontano da qui? Perché a me succede. A volte mi sono detta: se continuo a guidare intorno al quartiere per ore, non dovrò fare lo spettacolo.
Byrne: No, una cosa del genere non la penso da un po’.
Lorde: Non riesco a immaginare in che modo la pandemia può aver influito su questa mia paura, perché non ho ancora avuto modo di testarla. Ma credo che questo album sia più calmo, e forse questo mi aiuterà, magari mi farà sentire più rilassata. Prima di un’esibizione hai qualche rituale o un modo particolare per entrare in modalità palcoscenico?
Byrne: Non ho un vero e proprio rituale. Di solito mi tengo occupato. Mi preparo un infuso: prendo lo zenzero, lo pelo, lo taglio, lo metto in un thermos, verso acqua bollente e aggiungo del limone, e questo mi tiene impegnato per 15-20 minuti buoni. Così stacco un po’ la testa da quello che sto per fare.
Lorde: Mi piace, è molto bello. Quando sono in tour faccio un sacco di puzzle. Mi capita spesso di trovare il pezzo giusto proprio quando è il momento di andare, cosa che forse non aiuta con l’ansia da palcoscenico, visto che è uno sbalzo di umore enorme. Quando inizio a cantare il primo pezzo sto ancora pensando al puzzle.
Byrne: Durante la pandemia ho iniziato a disegnare, è stata una specie di terapia. E ho cucinato tantissimo.
Lorde: Era proprio una delle domande che volevo farti: sei amante del cibo e della cucina?
Byrne: Cucinare mi piace molto. Penso che la creatività culinaria sia un’arte molto sottovalutata.
Lorde: Sono d’accordo.
Byrne: Una volta imparata una ricetta, puoi improvvisare. Puoi imparare a sostituire un ingrediente acido con un altro che cambierà leggermente i sapori. In questo senso, è molto simile alla musica. A volte senti che manca qualcosa, ma non sai precisamente cosa. Allora la fai sentire ai tuoi amici, chiedi la loro opinione. In realtà in questo periodo di pandemia non è successo così spesso, anzi mi sono ritrovato con un sacco di avanzi in congelatore.
Lorde: Io cucino un sacco. Non sono una che segue le ricette, faccio quel che viene. Ho creato delle salsine molto buone.
Byrne: Tipo chutney?
Lorde: Sì, esatto, tipo chutney, oppure delle marmellate e altre cose salate.
Byrne: È perfetto per una serata tra amici.
Lorde: Ok, ho un’altra domanda che potrà sembrarti ovvia. Se pensi al passato, c’è qualcosa che hai imparato e senti di poter insegnare?
Byrne: Questa è una domanda difficile.
Lorde: Può anche non esserci una risposta.
Byrne: A volte mi capita di pensare di avere qualche insegnamento da poter condividere, ma allo stesso tempo mi dico: chi sei tu per insegnare agli altri? E quindi spesso mi tiro indietro. Come puoi presumere di saperne più di qualcun altro? È meglio lasciare scoprire da soli, piuttosto che impartire insegnamenti.
Lorde: Ho una curiosità. Per me tu sei un artista molto attento alla cultura e a tutto quello che accade sui social. Volevo sapere se è una cosa che ti piace, o se invece lo vivi come una costrizione.
Byrne: Non sono presente sui social. Ho un piccolo ufficio e ho chiesto loro di postare qualche mia foto, tutto qui. Ma io non me ne occupo, non controllo cosa viene pubblicato.
Lorde: Nemmeno io.
Byrne: Quando i social media hanno iniziato a emergere, pensai che avevo già abbastanza da fare. Ero più preoccupato dell’impatto che avrebbe avuto sul mio flusso di lavoro, piuttosto che su altri possibili effetti. E invece tu in che modo ti informi? Parlando con gli amici?
Lorde: In realtà leggo le versioni online dei quotidiani. Imparo molto più da quelli che da cose come Twitter. Sicuramente non sono aggiornata su tutto e a questo mi sono dovuta abituare, perché da adolescente ero super connessa e informata, conoscevo qualsiasi sottogenere o nuova corrente. Scegliere di rinunciare a questo è stato difficile.
Byrne: Mi capita spesso di sentire parlare i miei amici di alcuni eventi, ad esempio marce di protesta e cose del genere, di cui non sapevo niente. E quando chiedo come facciano a saperlo, di solito mi rispondono: «Era su tutti i social». Queste sono alcune delle cose che mi perdo.
Lorde: Sì, è lo stesso anche per me. Non è facile.
Byrne: Tutte le mattine mi alzo, e mentre mangio il mio pompelmo e bevo il mio caffè leggo almeno due giornali online. Quindi per un’ora al giorno sono un drogato di notizie.
Lorde: Che buono il pompelmo! Lo mangi col cucchiaino da pompelmo?
Byrne: Stiamo andando veramente sul personale, qui. In realtà lo sbuccio con le mani. Tolgo la pelle e lo divido a metà.
Lorde: Davvero? Io non ho mai sbucciato un pompelmo.
Byrne: Non è poi così difficile.
Lorde: Signore e signori, ricordatevi che l’avete sentito qui.
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.