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Mykki Blanco ora è un Lou Reed nero, gay e sieropositivo

In 'Stay Close to Music' l'artista californiano si scopre finalmente songwriter, superando la sindrome dell'impostore. Per farlo, ha dovuto essere onesto con se stesso e tornare ai suoi grandi amori: Jonathan Richman, Joni Mitchell e il leader dei Velvet Underground

Foto: Irakli Gabelaia

Ci sono artisti che – trovata la giusta formula – continuano sulla strada vincente e quelli che, come Mykki Blanco, lavorano album dopo album per indagare se stessi e la propria arte. Se la scelta della prima opzione assicura, con più probabilità, un percorso che meglio si avvicina al tradizionale concetto di fama, i secondi sono sicuramente entità artistiche più tortuose e intriganti, capaci di sorprendere (nel bene, ma anche nel male) di brano in brano, di lavoro in lavoro.

Mykki Blanco, da questo punto di vista, è un artista (in questo articolo utilizziamo il pronome al maschile in quanto l’artista, dai suoi profili social, ha aperto a tutti i generi di pronome) fenomenale. Lo si era capito da subito, dalla cruda attitudine queer rap degli EP (Mykki Blanco & The Mutant Angels e Betty Rubble: The Initiation) e dai mixtape (Cosmic Angel: The Illuminati Prince/ss e Gay Dog Food) d’esordio, che dal 2012 al 2014 avevano posizionato Mykki nelle mappe degli artisti d’avanguardia più intriganti. Una conferma poi arrivata con il primo disco, Mykki, nel 2016, un successo unanime di critica.

Dallo scorso anno, ovvero dall’uscita di Broken Hearts & Beauty Sleep, Blanco ha fatto un altro importante step, allargando il proprio universo rap-dancefloor a nuove sonorità, più organiche e strumentali. Con Stay Close to Music invece è diventato a tutti gli effetti un vero songwriter. In fondo, per uno che arriva dalla poesia, era un momento atteso. Spogliatosi dai colpi ad effetto e dalle maschere, Mykki è finalmente riuscito a riabbracciare la propria intimità anche nella musica, facendo finalmente pace con una parte di sé. Tra politica (“Il tuo femminismo non è il mio femminismo / se non include tutti i tipi di donna” in Your Feminism Is Not My Feminism), orgoglio queer (“Devo combattere per ogni piccolo queer / per ogni bambino lasciato da solo con le proprie paure” in Carry On) e black (“Non sarei mai dovuto uscire con uomini bianchi / feticizzare una vittoria, rendere la pelle chiara un simbolo” in Steps), Stay Close to Music è soprattutto un disco che si tuffa senza paracadute nell’intimità di un uomo gay, nero, sieropositivo.

Noi lo abbiamo raggiunto via Zoom, tra una lavatrice e l’altra prima della sua partenza per Parigi.

Stay Close to Music e Broken Hearts & Beauty Sleep nascono entrambi dalle stesse sessioni di registrazione. Come ti ha portato a creare due differenti lavori?
Ho iniziato a lavorare entrambi nel 2018 dopo aver finito il tour del mio primo album, uscito nel 2016. In quel periodo ho avuto una piccola crisi esistenziale dove ho realizzato che volevo lavorare in maniera differente, andare in luoghi musicali in cui ancora non ero mai stato. Amo artisti come David Crosby, Joni Mitchell, Carlos Santana, Cocteau Twins e ho quindi pensato fosse finalmente una buona occasione di portare in musica questa mia dimensione interiore.

Ed effettivamente cosa hai fatto per arrivarci?
Ho deciso di smettere di campionare per fare jam session e suonare gli strumenti. Volevo catturare quel momento spontaneo di quando si sta assieme. Solo dopo portare tutto questo nel mondo digitale e lavorarci da lì.

Pensi che cambiare il modo di produrre abbia modificato il tuo songwriting?
Arrivo da un background legato alle arti multidisciplinari. Ho iniziato a scrivere canzoni molto tardi, a 25 anni. Ora ne ho 36. Penso che molti non si rendano conto del fatto che abbia iniziato relativamente da poco. È che ho avuto i primi successi molto presto, praticamente già dal primo anno. Nel mio passato ho scritto racconti brevi, poesia e teatro, ma ci ho messo molto a considerarmi un musicista, un songwriter. Ho avuto per tanto tempo la sindrome dell’impostore. E così ho creato un personaggio più grande di me che potesse esplorare una serie di differenti narrative.

Sicuramente in questi due ultimi lavori si percepisce una scrittura molto differente da Mykki, il tuo album d’esordio.
Sì, il mio modo di scrivere è sicuramente cambiato molto, ci ho lavorato molto in questi anni. Mi sono dato lo spazio e il tempo necessario per scrivere canzoni. Stay Close to Music è il disco a cui ho dedicato più tempo. Non è facile scrivere canzoni basate sulla propria vita e sentirsi a proprio agio con quella vulnerabilità. Ho sempre pensato a come poter rendere interessanti le mie emozioni e in che modo condensarle nei tre, quattro minuti di una canzone. In Stay Close to Music sono finalmente riuscito a riconnettermi artisticamente con una parte di me, una parte che riuscivo a raggiungere con altre arti come la poesia, ma non ancora con la musica.

Tra Stay Close to Music e Broken Hearts & Beauty Sleep ci sono molti richiami, più o meno espliciti. Penso ad esempio al brano Trust a Little Bit, presentando nei due album in due differenti versioni. O a French Lessons, uscito come singolo con Kelsey Lu e che invece nell’album vede anche la partecipazione di Anohni. Percepisci la tua musica come una creazione aperta?
Giocare così coi brani era una cosa che si usava molto negli anni ’60, è una tecnica, il call-back, ovvero richiamare canzoni all’interno di altre canzoni o tra differenti dischi. È una cosa che mi fa impazzire. Ascolti un brano in un album e dopo quattro o cinque tracce si sentono degli elementi di quel brano ritornare altrove. La mia idea infatti era di dare l’impressione che i brani fossero stati composti in due momenti storici differenti, ma in realtà sono stati creati nello stesso periodo, in due momenti sonori differenti. In Stay Close to Music ci sono alcuni altri call-back. Ketamine ha lo stesso inizio di You Will Find It, ad esempio, ma sono due creazioni totalmente differenti. Ma anche Your Feminism Is Not My Feminism ha un finale ripreso da Free Ride, una canzone di Broken Hearts & Beauty Sleep.

Prima mi hai citato nomi come David Crosby, Joni Mitchell, Carlos Santana, Cocteau Twins. Ma presentando l’album hai anche fatto riferimenti espliciti a Lou Reed e Jonathan Richman. Per un artista che è spesso stato considerato un rapper, sono ascolti apparentemente molto lontani.
Ho sempre rappato, è vero, ma ho anche sempre voluto esplorare altre cose con la mia voce, provare nuove direzioni. Ho pensato molto a quali artisti potevano essere dei modelli per ciò che volevo fare con la voce. E ho pensato ad esempio a Tom Petty, che ha una voce bellissima. E sia lui, che Jonathan Richman, che Lou Reed, spesso parlavano nei loro brani, quasi fosse un proto-rap. Leggerli da questa prospettiva mi ha aperto a tantissime possibilità.

Parlando di collegamenti apparentemente lontani, il tuo disco ha delle collaborazioni particolari. Penso a Michael Stipe, Devendra Banhart, Jónsi.
Sono molto bravo a mettere assieme collaborazioni imprevedibili. Non per il fatto che siano combinazione strane di per sé, ma perché riesco a trovarci qualcosa in comune anche in artisti molto diversi, come ho fatto con Saul Williams e MNEK in Steps. Con Michael Stipe, invece, sapevo che era mio fan; tempo fa mi aveva lasciato i suoi contatti. E un giorno ho pensato: gli scrivo. A volte le cose accadono così, anche se mai avrei pensato avrebbe detto sì. L’unica mia ansia era che, avendo fatto un disco molto diverso dai precedenti, fosse difficile comunicarlo ad altri artisti.

In Carry On, uno dei brani più intesi e intimi del disco, canti “Nero e gay / mi chiedo se ci accetteranno mai / Ho l’HIV, posso ancora essere famoso? / O devo aspettare di essere morto prima di aver il giusto riconoscimento?”. Cosa significa per te il termine successo?
Penso che il significo di successo sia cambiato drasticamente in questo periodo. Ci sono nomi che magari su TikTok sono giganteschi, con milioni di follower, ma che – se chiedi per strada – nessuno conosce. Il concetto di essere tradizionalmente famosi è differente, è gente di altra età che i giovani non conoscono per nulla. Cos’è la fama quindi?

Sei riuscito a darti una risposta a questa domanda?
Posso dirti che mi sento fortunato ad aver passato più tempo nel tentativo di fare belle canzoni piuttosto che a puntare a grandi hit per diventare celebre. Ad essermi dedicato a progetti in cui credevo e credo ciecamente. Ho voluto fare scelte per essere un artista dinamico e garantire una longevità al mio percorso artistico.

Vorrei chiudere con questa domanda. In Lucky canti “Trovati un’identità / detesto così tanta volgarità”: cos’è, per te, volgare?
Devo pensarci (rimane in silenzio per un minuto abbondante, nda). Per me la volgarità è abbandonare ogni senso di moralità per una gratificazione istantanea. A volte anche io sono volgare, tutti possiamo esserlo, certo, soprattutto se per volgarità intendiamo provocazioni e sessualità; ma per me la volgarità è altro, è una mancanza di rispetto della moralità, è slealtà.

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