Tra le cose che colpiscono quando si parla con Nada, una in particolare è la risata. La cantautrice toscana non ride e basta, né tantomeno ride sommessamente: spesso e volentieri scoppia fragorosamente a ridere. E non per forza in risposta a una battuta, ma così, mentre ti dice qualcosa di serio su cui un attimo dopo ha voglia di ironizzare, o mentre si racconta e avverte che, per quanto ben scelte, le parole sono limitanti. Una risata che forse ricerca la leggerezza o che è spinta dallo stesso slancio vitale che ritroviamo nei suoi dischi.
Da questo punto di vista il suo nuovo La paura va via da sé se i pensieri brillano, in uscita domani, non fa eccezione: i 10 brani che lo compongono comunicano il bisogno di allontanarsi da un mondo “che uccide l’anima” – citando l’autrice – per elevarsi, per rifugiarsi in un altrove dove stare bene, per toccare il cielo e ritrovare se stessi nella distanza. Questo il cuore di un album che non teme l’oscurità, ma che è un invito a brillare tra le stelle, come suggerisce il titolo. Un disco in cui arrangiamenti dalle venature rock, blues, jazz, dialogano con un linguaggio volutamente scarno e diretto, ma profondo, carico di tutto il senso che può accumularsi in ciò che è visceralmente intimo e autentico.
Forte di una carriera fatta di successi nazional-popolari come Ma che freddo fa e Amore disperato, e di un percorso che, dal sodalizio con Piero Ciampi nei primi anni ’70, l’ha vista approdare nell’indipendenza artistica più rigorosa, Nada ha realizzato l’album con il musicista britannico John Parish, già alla produzione in altri due dischi della cantante, oltre che al fianco di PJ Harvey, Tracy Chapman, Eels, Giant Sand. Su tutto, la sua voce, sempre più libera a dispetto dell’età che avanza. «Ma come dice Leonida, la protagonista del mio romanzo del 2016, io non mi sono mai sentita giovane, per cui non posso sentirmi vecchia», afferma la songwriter, anche scrittrice e attrice, al telefono dalla Maremma, dove vive col marito musicista Gerry Manzoli, ex bassista dei Camaleonti, sempre presente nei suoi dischi.
Che cosa significa il titolo La paura va via da sé se i pensieri brillano?
Quella frase è un pensiero un po’ zen che mi rispecchia tantissimo e nella cui veridicità credo molto, perché la provo tutti i giorni su me stessa. Il senso è che la paura è un sentimento che convive con noi e che ci serve, perché ci frena in tante cose. Ma se dalla paura vieni sopraffatto al punto da finire vittima dell’ansia, dell’angoscia, allora in qualche modo la devi superare. Perché solo con in testa pensieri chiari si può riuscire a vedere le cose con lucidità e a stare meglio. Serve, allora, esorcizzare la paura.
Bello quel “brillare” associato ai pensieri.
Vero? Non è un termine cercato a tavolino, evidentemente mentre scrivevo mi è affiorata quella sensazione. Del resto, nemmeno una parola di questo album è cercata a tavolino, e vale anche per i miei precedenti dischi. Una volta che le parole sono venute, continuo a mettere mano alla stesura, alla composizione, ma per il resto esce tutto spontaneamente da ciò che ho dentro, perché io sono così, le mie visioni sono queste.
La tua scrittura è sempre immaginifica e in questo lavoro è evocata più volte l’idea del volo, dell’innalzarsi, dell’elevarsi sopra al mondo. Anche per pisciarci sopra e “rinfrescare i giardini dell’umanità”, come canti in Un viaggio leggero, una delle mie tracce preferite. Cosa cerchi quando scrivi?
Qualcosa al di là di ciò che si vede, di ciò che si tocca. Perché c’è anche altro, no? E cercare quest’altro aiuta a comprendere ciò che viviamo di giorno in giorno nel suo significato più vero. È importante almeno provarci, a vedere le cose da un’altra prospettiva, per dare a ciascuna di esse il giusto valore. Non tutto ha lo stesso valore e parlando del mio linguaggio, sì, le immagini che citavi, il volare, beh, credo sia tutto legato alla voglia di un altro mondo migliore di questo. E se non è possibile nella realtà, almeno rendiamolo possibile con quell’immaginazione che permette di cogliere il lato poetico della vita.
C’è una tendenza, da parte di molti, a ridurre l’esistenza al tran tran quotidiano: che ne pensi?
Penso sia fondamentale coltivare la nostra spiritualità, che non è solo un fatto religioso. Perché tutto brilla, dopo (ride).
Il brano Nada Yoga si lega a questo?
Ma sai che Nada Yoga è il nome di una disciplina che si chiama proprio così? Non faccio yoga, ho scoperto questa cosa per caso qualche tempo fa alla presentazione di un mio libro, grazie a una ragazza che mi ha portato un libretto sui diversi indirizzi dello yoga. Il Nada Yoga è la ricerca del suono interiore, quella vibrazione connettendoci alla quale possiamo conoscerci ed elevarci. Tra l’altro, quando sono venuta a saperlo, ossia non appena ho realizzato che Nada non significa solo niente in spagnolo, ma anche suono in sanscrito, mi sono sentita davvero una predestinata. Siccome, poi, avevo scritto questa canzone che parla della ricerca di sé, dello scomparire per elevarsi ed essere nulla, perché a volte è bello così, è giusto così, perché siamo anche così, allora…
“E sono serena senza niente, non ho bisogno di niente”, canti, “e viaggio nel vuoto alla ricerca di un punto, per sparire nel silenzio che conosco”. Non pratichi nemmeno la meditazione?
Non proprio, sono curiosa e sinceramente attratta da queste pratiche, ma come per la religione ho sempre avuto un mio modo di seguirle. Non svolgo esercizi, né ho adottato delle tecniche specifiche, semmai in me c’è una tensione verso ciò che sta al di là rispetto a quello che abbiamo davanti agli occhi. Ed è una necessità, quel tendere verso l’invisibile, altrimenti si resta attaccati alle cose materiali e si viene travolti. Invece, come dicevo, c’è altro.
Questo è anche il primo album in cui non compaiono canzoni dedicate a tua madre, colei che iniziò a soffrire di depressione quando eri ancora una bambina e che più di tutti ha voluto entrassi nel mondo della musica, come hai raccontato nel libro autobiografico del 2008 Il mio cuore umano, da cui è stata tratta la fiction Rai La bambina che non voleva cantare.
Infatti, è così. Nel precedente disco, È un momento difficile, tesoro, c’era questa canzone, O madre, che nel momento in cui la scrissi mi colpì – si vede che la cercavo – perché dentro c’era un perdono, c’era un’esigenza di connettermi e sentirmi come lei, come mia mamma, e di capire le vicissitudini e gli errori contro cui una madre e una figlia combattono per tutta la vita. Chissà, forse con quel pezzo ho messo un punto, forse dopo tanti anni di elaborazione finiti in canzoni, libri e altre cose che ho scritto, ho fatto la pace con quella parte della mia vita, sono riuscita ad abbracciare la conflittualità insita in quel legame, a vederla da un’altra ottica. Mai dire mai, ma per adesso sembra così, sono processi che richiedono molto tempo.
In compenso c’è un brano, il nuovo singolo Chi non ha, che lascia emergere la Nada più civilmente impegnata: com’è nato?
Chi non ha è una canzone per me molto importante che tratta il tema dell’ingiustizia, un’ingiustizia che continuo a vedere in tutto il mondo e che reca molta sofferenza agli esseri umani. Un’ingiustizia che è egoismo, prepotenza, miseria, disuguaglianza, tutte cose che viviamo sempre di più e che sono causa delle guerre e di tutti i mali, di tutti i disastri che ci addolorano. Spero in un futuro migliore, ma vedo questo vento nero che aleggia ovunque, un individualismo che spinge chi è più fortunato a tenere tutto per sé, senza attenzione per chi non ha nemmeno il minimo indispensabile per vivere, anzi, per esistere, che è ancora più grave. È cecità, è sete di potere.
Hai voluto nuovamente al tuo fianco John Parish: perché ancora lui?
Perché ormai tra noi c’è un rapporto prima musicale, e poi personale, molto bello. E poi perché è un produttore fantastico, suona di tutto, e con lui mi sento sicura: in studio sono presa da un sacco di dubbi e di paure, ma a John mi affido volentieri, perché comprende il mio lavoro. Non è facile essere capiti, ma lui percepisce quello che sento e che voglio dire ed è stupendo, perché anche a lui piace collaborare con me. E apprezza la mia voce, il che mi dà una forza fondamentale, perché, sai, quello della cantautrice è un mestiere, sì, ma è anche qualcosa di diverso e di più, visto che pesca nella tua intimità dove spesso ti senti fragile.
Prima di conoscere John facevo tutto un po’ da sola, anche adesso in realtà, ma per un lungo periodo avevo gestito tutto io anche in studio: i musicisti, gli arrangiamenti… Dirigevo come fa un produttore, in sostanza. E il motivo era che non riuscivo a trovare una figura giusta per me: quando ci avevo provato non ne ero rimasta soddisfatta. Sarà anche che la mia scrittura non è quella tipica italiana, sarà che ho cominciato presto e all’epoca non sapevo nulla di musica. Quando negli anni ’70 ho iniziato ad interessarmene, quella che mi piaceva era di un altro tipo: Led Zeppelin, Pink Floyd, King Crimson, Janis Joplin, Velvet Underground. Ma come si fa a scegliere? C’era così tanta musica bella! Fatto sta che non mi sono formata con i cantautori italiani, non ho avuto quel tipo di input, perché proprio io non venivo da… Non avevo questo fuoco sacro, non volevo fare la cantante (ride). E allora ho sempre ascoltato questa musica ed evidentemente ho assimilato questo modo di comporre meno melodico e che non si basa sulla classica struttura da canzone italiana. Non puoi immaginarti quanti musicisti, anche in gamba, qui in Italia mi hanno detto: «qua non c’è la strofa», «qua manca il ritornello». Ecco, con John questo problema non esiste.
In questo disco gli arrangiamenti denotano tutto il tuo amore per il jazz e il blues: come ci avete lavorato?
Ma sai, io dico sempre tutta la musica può essere bella, se fatta bene. Non importa si tratti di folk, blues o jazz, e non importa il genere; se un album è bello, lo ascolto. Poi è chiaro che ciascuno di noi ha maggiore attinenza con certe cose piuttosto che con altre, ma quel che voglio dire è che quando scrivi un disco tutti gli ascolti che sono dentro di te emergono, e nemmeno tu sai come avvenga. Una cosa, però, è certa: per me ogni album è come se fosse il primo, provo lo stesso entusiasmo, la stessa voglia, la stessa curiosità. Eppure sono tanti anni che faccio questo lavoro e non mi stupirei se qualcuno si meravigliasse nel sentirmi affermare questo. Ma è così, è la verità; altrimenti smetterei subito. Dopodiché è lui che parla: il disco.
In Ci sono c’è questo tuo urlo prolungato che dice tanto di quanto negli anni tu sia riuscita a conquistare una libertà espressiva che a tratti ha un sapore quasi punk, selvatico. È così?
Non so, anche sul palco mi capita di gridare, chi viene ai miei concerti lo sa. Mi viene naturale, perché ciò che canto è disperazione e liberazione. Non è solo questione di testo: contano anche la musica, l’arrangiamento, i suoni, tant’è che John Parish, avendo in mano i miei testi tradotti, ma non cogliendone dettagliatamente il significato, mi ha detto una cosa bellissima: «A me le tue canzoni arrivano». È questo l’importante: che arrivi il senso dei brani, e non necessariamente attraverso le parole, può arrivare anche attraverso un certo accordo di chitarra, una data intenzione nella voce. Se non fosse così non avrei mai capito Lou Reed, invece i suoi pezzi mi fanno viaggiare.
Hai lavorato a questo disco nel Regno Unito, cosa ti dà in più questa scelta?
Un senso di libertà ancora maggiore. Forse influisce psicologicamente il fatto di essere fuori dal mio Paese, ma non è solo questo: mi piace anche come si lavora in Inghilterra, è tutto bene organizzato, con orari precisi, si percepisce che chi hai attorno sa cosa deve fare e questo mi dà sicurezza. In più mi sento meno sotto gli occhi della gente e sarà per il nome che porto, ma a me piace essere niente.