Quando parli con Naska hai la sensazione che potrebbe scoppiare da un momento all’altro. È una questione di tensione costante tra la necessità di spaccare il mondo e il bisogno di fermarsi un attimo per respirare. Un contrasto che si sente in ogni parola, in ogni pausa che fa tra una frase e l’altra, come se dentro di lui stessero lottando un ragazzino incazzato con il mondo e un adulto che sta imparando a gestire i propri demoni. Perché Diego Caterbetti, così all’anagrafe, a 27 anni è l’incarnazione perfetta della generazione cresciuta con gli ultimi riverberi della stagione musicale incarnata da MTV e la bulimia dei video su YouTube, passata dal furore del pogo ai concerti a conteggiare i cuoricini su Instagram, che sognava di vendere milioni di dischi e andare in classifica e si è ritrovata a fare i conti con l’ansia del numero di stream. E con la consapevolezza che, una volta lassù, l’aria è rarefatta e potrebbe mancarti il fiato.
Dopo aver trasformato la passione per il punk-pop in una carriera, Naska si è ritrovato a fare i conti con qualcosa di molto più complesso: sé stesso. Un po’ come tutti quelli che si ritrovano a inseguire i sogni senza avere la minima idea di cosa fare una volta che li hanno raggiunti. Il suo nuovo EP Milanconia è il riflesso di questa lotta continua. Il titolo unisce le parole Milano e malinconia, la città che si trasforma in uno stato d’animo e che convive nella sua testa con altri “mostri” che si presentano quando è solo, come coinquilini di un monolocale troppo piccolo per contenere tutti. Dentro ci sono notti insonni, romanticismo e la strana sensazione di vuoto che ti prende quando scendi dal palco e non sai più chi sei. Ma anche un’urgenza comunicativa che lo spinge a mostarsi in una veste intimista inedita, anche nel sound, tra pianoforti, archi e chitarre acustiche, e lo porterà a proseguire l’esperienza degli Unplugged Tour nei principali teatri italiani. Eppure rimane punk nell’attitudine ancor prima che nel suono.
In questa chiacchierata ci racconta tutto: cosa significa fare musica in un’epoca in cui l’hype dura quanto un reel, il peso delle aspettative, la paura di non essere abbastanza e la necessità di uscire dalla comfort zone, anche quando il rischio è di schiantarsi. Perché alla fine, come dice lui, l’unica cosa che conta è restare fedeli a sé stessi. Anche quando fa così male da pensare al proprio funerale.

Ti leggo la definizione di malinconia della Treccani: “Stato psichico caratterizzato da un’alterazione patologica del tono dell’umore, con una immotivata tristezza, talora accompagnata da ansia”. È lo spirito che anima Milanconia?
È quello. È la chiave di tutte le canzoni dell’EP. Ed è dovuto al periodo successivo al concerto al Forum. Mi viene addosso quello che chiamo il rinculo dell’adrenalina.
Che effetto ha?
Le scariche di adrenalina fortissime che arrivano dopo un grande evento come il Forum o dopo un tour finiscono di colpo e il rinculo mi butta a terra. Questi ultimi tre mesi sono stati parecchio malinconici. Anzi, Milanconici, visto che sto a Milano. Aggiungici che sono meteopatico e d’inverno il clima della città non aiuta.
Per un artista è una fortuna poter esprimere certi momenti di down attraverso la musica, no?
Non ricordo chi lo diceva, che bisogna stare male per scrivere bene. È vero che questo stato d’animo mi ha aiutato ad andare in studio e a far emergere un lato più intimista. Anche se ci sono stati giorni in cui mi sono chiuso in casa, con le tapparelle abbassate, facendo passare le giornate senza vedere nessuno o fare niente. Però alla fine di Milanconia sono soddisfatto.
Facciamo un salto indietro: qual è il primo ricordo di Diego da bambino?
Il jukebox, quello in casa che è di mio padre. Mi vedo di fronte a quel jukebox nei giorni in cui stavamo tutti insieme in famiglia. In sottofondo la musica e io attirato dai mille colori di quell’oggetto. Quella luminosità e il fruscìo dei vinili sono le prime cose che ricordo.
Che infanzia hai avuto?
Molto felice, per fortuna a casa tutto bene… Vengo da un paesino piccolo (Monte San Giusto, in provincia di Macerata, nda) e finché non ho avuto l’età per avere il motorino sono stato sempre in casa. È un posto con 800 abitanti e nel ’97, la mia annata, siamo nati solo in due. Puoi immaginare la vita sociale.
Zero?
Finché non sono andato al liceo sì. Poi ho cominciato a prendere il bus, che passava due volte al giorno, e andavo verso Macerata. Lì ho iniziato ad avere più amici.
I tuoi genitori?
Papà lavora come parrucchiere, ma dopo il lavoro ha sempre fatto musica. Ha la sua band e se ho preso anch’io quella strada lo devo principalmente a lui. Mamma invece aveva un negozio di stoffe, ma adesso fa la nonna a tempo pieno di due nipotine.
I tuoi genitori sognavano un altro mestiere per te?
Non mi hanno mai influenzato su quello che avrei fatto da grande. Tanto che, quando ho detto che mi sarei trasferito a Milano per provare a intraprendere la carriera musicale, e avevo solo 19 anni, non hanno avuto niente da ridire. L’unica cosa che mi hanno detto è questa: «Vai, ma lavora per mantenerti».

Foto: Simone Biavati per Rolling Stone Italia. Outfit: Total look Brioni, scarpe Sebago
Hai sempre avuto il sogno della musica oppure è scattato a 18, 19 anni?
Ho cominciato quando avevo 16 anni, in seconda superiore. Da quel momento ha rappresentato il piano A. Non ho mai preso in considerazione un piano B. Già a quell’età pensavo: prima o poi mi trasferirò a Milano e proverò a fare il musicista. Non ho neanche pensato di studiare. Non avevo l’ansia che qualcosa potesse andare storto. Se hai una alternativa poi non ti impegni al 100% sulla tua passione.
Quel periodo lo spieghi nel primo pezzo, Ho smesso di essere un ragazzo a 18 anni.
Racconta quegli anni e quello che ho passato. Le sensazioni e il fatto di trasferirsi, a quell’età, da un paesino piccolissimo a una grande città con l’unico scopo di fare musica. E allo stesso tempo, anche il sentirsi addosso responsabilità che altrimenti non avresti. Perché se sei a casa coi genitori, molte cose non le pensi e non sei costretto a farle. Di colpo smetti di essere un ragazzo e sei obbligato a diventare un adulto.
A scuola andavi bene?
Alle superiori ho fatto l’artistico, quindi puoi immaginare…
L’importante era prendere un diploma per poi scappare?
Sì, anche perché mia mamma mi ripeteva sempre: «Prima di andare a Milano finisci la scuola». Così l’ho fatto, ma impegnandomi il minimo indispensabile. Perché ero già sicuro che non avrei continuato e mi sarei trasferito per inseguire la mia vocazione. Prima di tutto fare dei lavoretti per mantenermi, e poi la musica che volevo esprimere.
L’atteggiamento punk ce l’avevi anche tra i banchi?
Intanto non mi hanno mai mandato in gita, e un motivo ci sarà. E sono stato sospeso un paio di volte. Una volta perché mi hanno beccato fare le scritte sui muri della scuola. Ho realizzato il tag Naska, solo che non era la cosa più intelligente del mondo visto che avevo già il tatuaggio sul braccio con quel nome, per cui ero facilmente identificabile. La seconda, che è la cazzata peggiore, quando abbiamo messo un piccione nella macchinetta delle merendine.
Un piccione vivo?
No no, era già morto quando lo abbiamo raccolto nel cortile interno alla scuola e l’abbiamo inserito al posto di una merendina del distributore automatico che c’era in uno dei corridoi.
Un po’ macabro come scherzo.
Il problema non è tanto questo, ma che quando una ragazzina è andata a prendere la merenda durante la ricreazione ha trovato il piccione ed è scoppiato il delirio. Quando i professori hanno domandato chi fosse stato, alla fine ridevamo tanto che abbiamo confessato.
Dopo questa non sono sicuro di volerne sentire altre. Ma i tuoi vecchi amici, che magari sono rimasti nelle Marche facendo lavori più ordinari, cosa dicono di te?
Sono i miei primi supporter. Vengono spesso a Milano quando faccio concerti. Sono felici per me, come sono felice io di vederli e di tornare nelle Marche a trovarli.
La prima volta che ti sei innamorato è stato a scuola?
Nelle Marche no, perché ero troppo giovane e allora non pensavo proprio all’amore. Forse era ancora un po’ troppo sfigatello e le ragazze non mi venivano dietro. La prima volta mi è successo a Milano ed è stata una storia tosta. L’ho raccontata in Polly, nel primo disco.
Come mai tosta?
Sono stati due anni male male… Non avevo avuto altre esperienze. Ero un ragazzino, non avevo amici, stavo con lei e quando litigavamo rimanevo da solo. Essendo la prima relazione non sapevo neanche bene come affrontare le varie situazioni. Poi ero lontano da casa, lontano da tutti quelli con cui potevo confidarmi o ai quali chiedere qualche consiglio. Infatti le uniche soluzioni che trovavo erano uscire, berci sopra, fare casino o distruggere casa.
Addirittura distruggere casa?
Non sapevo come sfogarmi. Come canto in Polly, la padrona di casa si è incazzata, giustamente. Le mie canzoni, anche negli aspetti più assurdi, sono molto autobiografiche.
La ragazza che hai denominato Polly sa di essere finita in una tua canzone?
Sì sì, lo sa. Però non mi ha detto niente. Non ci siamo più sentiti.

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Insomma, la città in cui ti sei trasferito ti ha dato la possibilità di esprimerti, ma non è un posto facile. Non a caso nel brano Milano canti che “ti mangia se vuole”. E ti ha ispirato anche immagini lisergiche: “I bambini sul pullman sembrano in MD”.
Quell’immagine dei bambini è tra le più belle di Milano. Perché quando uno è malinconico e per caso vede dei bambini, trova fin troppo attivi e felici. Era ottobre, c’era ancora un po’ di caldo, erano in maniche corte e correvano fuori dal bus tutti sudati e contenti, e mi sono sembrati dei tipi fuori dal Cocoricò in MD.
E perché Milano è anche una città che “ti mangia se vuole”?
Ti dà tanto, ma dipende dal tuo stato d’animo. Sono meteopatico, per cui se sono giù il clima non mi aiuta. Milano spesso è grigia come solo Milano sa essere. Ti mangia l’umore.
Negli ultimi tempi è molto criticata, dal costo della vita alla sicurezza. Tu che ci vivi ormai da anni, l’hai vista cambiare in peggio?
Sì, è cambiata molto in peggio. Sia per quello che vivo io, che per i racconti che mi fanno gli amici. Solo per fare un esempio, ti può capitare di uscire la sera per cena sui Navigli e di tornare a casa senza portafogli. Non perché lo hai perso, ma perché te l’hanno rubato di forza un gruppo di sei, sette ragazzini. Costosa lo è sempre stata, almeno molto di più che in provincia, e questo cambiamento l’ho notato meno. Anche perché ho deciso di abitare un pochino fuori e così me la sono scampata.
Non diciamo esattamente dove, altrimenti ti vengono a cercare le fan.
È già successo, mi trovo spesso gente sotto casa.
Avendo un pubblico composto in larga parte di giovani, che magari possono frequentare o conoscere qualcuno delle cosiddette baby gang, che cosa gli diresti?
Non sono così sicuro di cantare anche a quel tipo di ragazzi. Anzi, ti dirò, se mi beccano mi accerchiano. Mi è già successo due, tre volte e non sono stati bei momenti. Loro sono più il pubblico della trap. E in quelle situazioni è meglio non dire niente, puoi solo peggiorare la situazione. Io penso soltanto che abbiano degli idoli sbagliati. Chi canta dovrebbe provare a insegnare altre cose, ad esempio che attraverso la musica ci si può togliere dalla strada e smetterla di fare i furtarelli per 100 euro.
Gli artisti hanno delle responsabilità in questo senso?
Sì, perché non fanno passare concetti positivi, ma tutto il contrario. Loro che ce l’hanno fatta con la musica, e quindi non hanno più bisogno di delinquere, continuano a raccontare di quegli ambienti e di quelle dinamiche, e quindi stanno plagiando una generazione di piccoli criminali. E non sono pochi quelli che se ne approfittano. Ma non era tutta così la trap.
Per esempio?
La trap di Sfera Ebbasta raccontava il contrario. Che grazie alla musica si era tolto dai palazzoni, da certi giri sbagliati o dalla droga. Invece c’è tutta una scena di artisti che cantano di quelle cose come se ci fossero ancora dentro rivolgendosi a ragazzini che non hanno la testa per capire le conseguenze delle loro azioni. Quelli che ho visto io erano davvero piccoli, non hanno 20 anni, ma 15 o anche meno.
Parli quasi da padre, anche se hai solo 27 anni.
Non voglio parlare da padre perché il coglione lo faccio anch’io. Però con la testa. Senza mai dare fastidio a nessuno. L’altro giorno parlavo con un amico e si scherzava sul fare una vita rock’n’roll, un po’ alla Vasco Rossi. È come andare sempre a 200 all’ora in auto e non pensare alle conseguenze, oppure andare a 200 all’ora e, se puoi fare del male agli altri, rallentare. Per poi tornare a schiacciare sull’acceleratore, certo.
E come mai non sei stato attratto dalla trap, ma dal punk? È un genere che fino a qualche tempo fa sembrava ormai relegato al passato.
La mia generazione è forse l’ultima ad aver sentito il riverbero di quello che c’era stato prima. Sono cresciuto con MTV, per cui è stato più facile riportare nelle mie ispirazioni quel tipo di sound, che era quello che ascoltavo da piccolo e che tutt’ora ho in playlist.

Foto: Simone Biavati per Rolling Stone Italia. Outfit: t-shirt Adidas, pantalone Annakiki
In passato mi hai confessato di essere bipolare, ma che non credevi fosse necessario un supporto psicologico. È ancora così?
Molto meno di prima. Ultimamente ho sviluppato una forma di ansia sociale, non esco molto come in passato proprio a causa degli sbalzi di umore, dei periodi di buio. Allora, nel periodo di The Freak Show, ti avevo detto che non ero mai andato e mai avrei pensato di aver bisogno dello psicologo, ma quando ho scritto Milanconia ho cominciato ad andare in terapia.
Quell’ansia sociale si sente nel pezzo Non aspettarmi: “In giro non c’è un’anima, se non la mia ombra. Nemmeno lei vorrebbe stare con me”.
È vero. La solitudine è la condizione che mi fa più paura in assoluto. Mi butta a terra. Però ora ho un nuovo coinquilino che si chiama Dobby, il mio cane.
In Piccolo canti: “La notte mi fa tanta paura, e lo so che è un po’ strano detto da me”.
Infatti aggiungo “resta qui ancora un po’”. Di notte, quando sono da solo, escono tutti i mostri. Poi mi rendo conto che sembra strano detto da uno come me, perché da fuori non sembro uno che da solo la notte sta male, piange ed è preso male. È questo il bipolarismo,
È più difficile per gli uomini esternare certe fragilità?
Sicuramente, gli uomini di solito certe cose non le ammettono. E forse è questo il bello delle canzoni, tanti ragazzi possono ascoltarle e non sentirsi soli, anche se stanno male. Si ritrovano in quello che dico e che vivo per davvero.
Non c’è contraddizione nell’essere a volte spavaldi e altre fragili, come dimostra Fred Buscaglione, che omaggi con la cover di Guarda che luna. Anche tu sei romantico?
Sono un romanticone. La mia bio di Instagram è da tempo “Romantic but still punk”. Sono sette anni che non la cambio, nessuna frase potrebbe descrivermi meglio.
Il tatuaggio “no future” ce l’hai ancora?
Non posso cancellarlo.
Non ti spaventa crescere pensando di non avere un futuro?
No, perché? È più divertente. Vivo meglio ogni giornata. L’unico futuro che ho, per adesso, è quando il management mi manda il calendario delle prossime date. Così so che in quei giorni non posso fare le 6 di mattina, altrimenti non riesco ad alzarmi ed essere presentabile. L’unico futuro a breve termine che posso concepire, per il momento, è quello.
E non temi che una parte del tuo pubblico potebbe non capire o non accettare un EP intimista, malinconico, romantico?
No. A me piace sperimentare. È vero che qualcuno ha già storto il naso in passato, come quando è uscito il pezzo Berlino, dove andavo molto oltre al mio genere. Però se rimango fermo nello stesso sound, mi annoio io e si annoia il pubblico. La musica è bella perché puoi sperimentare. Alla fine i testi li scrivo tutti io, poi vado in studio e con quelli che chiamo i miei angeli custodi ci divertiamo a sperimentare coi suoni. In questo EP ci sono diversi elementi distanti dalle mie canzoni passate. In particolare in Sex Toys.
Un pezzo audace che farà discutere la tua fanbase.
È molto strano rispetto a quelli che ho fatto finora. Non sembrava nelle mie corde, ma potrebbe piacere anche a un pubblico più ampio.
Di certo un pubblico femminile. Sei consapevole di essere considerato un sex symbol?
Eeeeh… Sì dai, mi piace. Anche l’altro giorno me l’hanno detto, ma fammi sottolineare che queste definizioni non me le do da solo.
Te lo chiedo perché ci sono artiste che lamentano di sentirsi sessualizzate da parte della stampa e del pubblico. A te turbano certi commenti?
A me? Ma figurati. Mi fanno piacere. Meglio che scrivano che piaccio invece di darmi del deficiente.
Se ti scrivono che hai un bel culo?
Rispondo «grazie, anche perché ieri ho fatto squat». Non penso che Mick Jagger, quando migliaia di ragazze gli correvano dietro, le fermasse per dire: «No, dai, non sessualizzatemi». Penso fosse contento e, anzi, credo che se ne sia portate a letto parecchie.
C’è anche chi critica le artiste che usano il proprio corpo sul palco.
Secondo me fanno benissimo a usarlo. L’immagine è il 50% della performance sul palco.
C’è mai stata qualcuna che si è offesa per una tua canzone?
No, perché quando parlo di ragazze lo faccio in maniera molto positiva, non insulto, non dico niente di male. Se non ci fossero le ragazze, neanche farei musica. Sono loro che mi fanno scrivere le canzoni.

Foto: Simone Biavati per Rolling Stone Italia. Outfit: total look Louis Vuitton
Un altro aspetto tipico di quest’epoca, che però inizia a essere messo in discussione, è il politicamente corretto. Del quale tu, mi sembra, non ti sei mai preoccupato troppo.
Me ne sono molto sbattuto. Dico sempre quel che penso. Se poi va bene, bene. Se non va bene, non me ne frega un cazzo. Sono un menefreghista su certe cose. Non mi faccio troppe pippe. Ho cominciato a fare punk-rock sei anni fa, quando non c’era nemmeno l’idea che potesse funzionare questo genere musicale. Se mi fossi fatto dei problemi sarei andato a fare tutt’altro.
Lo stesso menefreghismo lo applichi anche a quello che avviene nel mondo?
Cerco di rimanere informato seguendo alcuni siti, ma oltre a questo non vado. Non faccio nulla di concreto.
Elon Musk ti fa più paura o più simpatia?
A me fa paura. Mi fanno paura quelli che possono distruggere tutto in pochissimo tempo. Il potere dà alla testa.
Hai rifiutato di partecipare come concorrente ai talent. E come ospite?
Come ospite ci andrei, come concorrente mai.
Recentemente Tony Effe ha risposto a Valerio Scanu che lo accusava di non saper cantare se non con l’Auto-Tune. Da che parte stai?
Da quella di Tony Effe. Io sono stato criticato da una vocal coach su Instagram e le ho anche risposto. Ha preso l’unica parte video di un concerto dove non canto, ma stavo parlando al pubblico per caricarlo. Che senso aveva prenderlo come esempio? Ma in situazioni come queste mi immagino la reazione di Johnny Rotten, non credo si sarebbe messo a piangere se gli avessero fatto certe critiche.
Non credi però che i giovani oggi sottovalutino troppo la tecnica e lo studio?
Non penso. Prendiamo il caso di Tony Effe. La sua canzone a Sanremo a me è piaciuta e lui prima del Festival si è fatto il culo con le lezioni di canto. Si è trovato sul palco dell’Ariston, di fronte a milioni di persone, se ha anche corretto un po’ il canto non è un male. Da quello che sento in giro ai concerti, tutti hanno sotto un po’ di Auto-Tune. Non dà fastidio.
Tu lezioni di canto le prendi?
Ho cominciato prima del tour estivo dell’anno scorso e ci vado almeno due volte alla settimana. Mi piace andarci, perché in fondo è il mio lavoro e voglio usare al meglio la voce. Ma non mi devo giustificare se in certi brani applico un filo di correzione con Auto-Tune.
Alex Britti ha detto che non ha voluto studiare per non perdere l’istinto.
Ho visto un video di un altro vocal coach che parlava di Mango, il padre di Angelina. E diceva, più o meno, che il 50% che passa attraverso la voce è il sentimento. Anche se c’è qualche errore, se ciò che canti è sentito e credibile, allora funziona. Pensiamo a Kurt Cobain, non era intonatissimo, ma la sua voce rotta ti trasferiva sofferenza. Chi se ne frega se non azzeccava tutte le note. Quelli troppo tecnici, spesso, non arrivano a tutti.
Quando vedremo Naska a Sanremo?
Se un giorno me ne uscissi dallo studio con una bella canzone che mi fa pensare a Sanremo, ci proverei. Scriverne una appositamente per il Festival, questo no.
Visto che sei stato coinvolto in questioni legate a Fedez e Chiara Ferragni, che sono riesplose di recente, hai paura che esca qualcosa che ti riguarda?
L’altro giorno mi ha chiamato un amico dicendomi di guardare cosa stava facendo uscire Corona, gli ho dato un’occhiata e ho chiuso subito. Trovo il gossip pallosissimo, lo sfruttano quelli che non sanno fare altro. Non ho paura che esca qualcosa perché non c’è niente che mi riguardi. A meno che non si mettano a costruire dei contenuti con l’AI.
Chiuderei con l’ultimo brano dell’EP, che mi sembra il finale giusto visto che si intitola Quando sarò morto. Come sonorità richiama il folk-punk irlandese. Il tuo funerale lo immagini così?
È una canzone da pub, nata ispirandosi a degli hooligan ubriachi in birreria. Mi sembrava perfetto condividerla con J-Ax, che in fatto di serate come quelle che cantiamo può solo insegnarmi. Gli ho scritto un giorno alle 18:05. Mi ha risposto alle 18:08: «Domani vieni in studio che la registriamo». Non ho mai incontrato un artista altrettanto disponibile. È un grande. Non so quando morirò, ma so come voglio il mio funerale: una festa folle.

Foto: Simone Biavati per Rolling Stone Italia. Outfit: total look Brioni
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Photographer: Simone Biavati
Art Director: Alex Calcatelli per Leftloft
Producer: Maria Rosaria Cautilli
Fashion Editor: Francesca Piovano
Fashion Editor Assistant: Elisa Brunello
Talent Stylist: Nicolò Cerioni
Stylist Assistants: Ilaria Taccini, Noemi Marango, Nico Prete, Marco Spagnuolo
Make Up Artist: Eleonora Volpi
Photographer Assistant, Lights: Andrea Venturini
Rs Graphic Designer: Stefania Magli
Video Production: AKAstudio-collective
Photographer Assistant: Andrea Venturini
Qui i prossimi appuntamenti live di Naska:
Sabato 22 marzo 2025 – MILANO @ Teatro degli Arcimboldi SOLD OUT
Martedì 25 marzo 2025 – ROMA @ Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli SOLD OUT
Sabato 5 aprile 2025 – TERNI @ Terni Influencer & Creator Festival