Nayt, all’anagrafe William Mezzanotte, è una delle voci della nuova generazione di conscious rap, nonché uno degli artisti più prolifici a calcare la scena: Lettera Q è il nono album (decimo, se si conta anche quello live realizzato in occasione del tour del precedente Habitat). Negli anni si è parlato di lui per la capacità di distinguersi rispetto a molti esponenti della nuova scena rap, evidenziando soprattutto le tendenze introspettive e una buona gestione di strumenti e fonti culturali insolite rispetto alla “bibliografia” ricorrente della scena. Nel nuovo disco cita Battisti e Battiato, torna a trattare di tematiche sociali e impegnate e anche quando si cimenta in tematiche più classiche del rap, come la rivendicazione della propria bravura (Non è fortuna) lo fa con un approccio molto più discreto e consapevole, immune dall’epidemia di Dunning Kruger che contagia molti suoi colleghi.
Classe 1994, si è fatto conoscere giovanissimo grazie alla trilogia di Raptus. Generalmente si descrive la sua parabola individuando nella pubblicazione di Mood e Doom, entrambi datati 2021, un punto di svolta che ha spianato definitivamente la strada allo stile sempre più personale che Nayt si è cucito addosso. Questo disco, così come Habitat, sembra confermare la direzione intrapresa tre anni fa: introspezione e consapevolezza dal punto di vista dei testi; suoni cupi e bpm medio bassi per quanto riguarda le produzioni, per un disco che forse non ha dei veri e propri acuti, ma che comunque aggiunge spessore alla discografia del rapper senza sfigurare.
Al tuo release party distribuivi delle cartoline. A me ne è capitata una con scritto “A chi parla un artista oggi? Chi vuole rappresentare?”. Ti rigiro la domanda.
Con la mia musica cerco di rappresentare il mondo in modo completo, senza fare distinzioni di genere, economiche o di razza. Penso si capisca dai miei testi: sono profondamente legato alla gente comune, a chi vive la realtà quotidiana. È un legame che proteggo con cura, perché per me è essenziale non perdere mai il contatto con ciò da cui provengo. Non voglio diventare uno di quegli artisti che, con il successo, si estraniano e si dimenticano della vita vera. La mia musica riflette questa volontà di rimanere ancorato alla realtà e di rappresentare chi spesso non ha voce.
Da dove nasce questo legame?
Nasce dal mio vissuto. Sono cresciuto in un contesto dove i problemi erano quelli che vivono in tanti: difficoltà con l’affitto, il mutuo, il lavoro. Persone che si sforzano di raggiungere obiettivi che dovrebbero essere più accessibili, ma non lo sono. La musica mi ha permesso di uscire da quel contesto economico, ma non da quello sociale. Mi piace ancora prendere i mezzi pubblici, vedere la città per com’è, senza filtri. Mi aiuta a ricordare da dove vengo e a mantenere i piedi per terra. Vedo tanti artisti che, una volta arrivati al successo, finiscono in una sorta di Matrix, disconnessi dalla vita reale. Io cerco di rimanere fedele al mio percorso e alle persone che vivono questa realtà ogni giorno.
Il successo inevitabilmente interferisce sulla vita di chi lo trova.
Serve tanta consapevolezza. Nel disco dico: “Con la testa in alto e i piedi a terra” e credo davvero in questo equilibrio. È importante essere appassionati e ambiziosi, ma senza perdere di vista ciò che accade intorno a te. Altrimenti di che cosa parli? L’ambizione ti spinge a migliorarti, ma il legame con la realtà ti dà la sostanza per creare qualcosa di significativo. Rimanere fedele alle mie origini e alla vita reale è il mio modo di non smarrirmi.
Nel disco citi Battisti, Battiato, Fabri Fibra, protagonisti del brano 18 donne. Una cosa che si nota è che la maggior parte delle volte lo fai per sottrazione: “non sono Battisti”, “non sono Battiato”, “non sono Fibra”. È una scelta consapevole? Cosa significa?
Mi piace raccontarmi attraverso ciò che non sono. In 18 donne, ad esempio, descrivo il mio rapporto con figure che ammiro immensamente, ma che sento molto diverse da me. È il modo che ho per esprimere la mia vulnerabilità e la mia ammirazione, riconoscendo la forza che queste persone possiedono nel loro campo. Nel caso di Battisti, Battiato e Fibra racconto da dove vengo attraverso ciò che mi ha ispirato, pur sentendomi diverso. È il mio modo di definire la mia identità e, al contempo, di celebrare ciò che mi ha guidato verso una certa idea di bellezza.
Hai sottolineato spesso l’importanza dell’entusiasmo. Perché è così centrale nel tuo approccio?
L’entusiasmo è ciò che alimenta ogni cosa: sono molto legato a questa parola. Credo che tutto possa essere trasmesso solo attraverso l’entusiasmo: è il veicolo più potente per il coinvolgimento. Penso spesso a una mia professoressa di italiano che mi ha fatto amare Dante in un periodo in cui non studiavo niente. È stata la sua passione, il suo modo di comunicare, a spingermi a scoprire un mondo che altrimenti avrei ignorato. Lo stesso vale per la musica: quando incontro artisti capaci di trasmettere entusiasmo per ciò in cui credono, questo mi ispira a fare lo stesso. Voglio che la mia musica coinvolga, emozioni e accenda curiosità.
Come vedi il rapporto tra il pubblico e la cultura rap oggi? In Non è fortuna dici che vorresti un pubblico più conscio, e che agli estremi ci sono solo i falliti: sembra un riferimento a un certo modus operandi del pubblico social.
Spesso mi sembra che ci sia troppa polarizzazione, quasi come se tutto fosse una questione di tifoseria. C’è chi ama un genere e denigra tutto il resto, e questo atteggiamento non aiuta il dialogo. Mi spiace anche quando leggo critiche non positive sulla mia musica e vedo i miei fan rispondere con insulti invece di cercare un confronto. La musica dovrebbe unire, non dividere. Vorrei vedere più apertura e collettività nel pubblico, più predisposizione a dialogare. Qualche segnale positivo c’è, ma c’è ancora molta strada da fare.
Sei molto legato all’idea di avere una finalità innanzitutto culturale. Come nutri questa tua esigenza?
Non voglio mettere confini alla mia creatività. Mi nutro di tutto ciò che mi incuriosisce: musica, arte, esperienze diverse. Il minimo comune denominatore di tutto ciò che amo è la verità. Quando qualcosa riesce a rivelarmi una verità, a farmi scoprire qualcosa di autentico, lo trovo entusiasmante. Il mio obiettivo è creare qualcosa che vada oltre lo spazio e il tempo, qualcosa di universale, capace di parlare a chiunque in qualsiasi epoca.
Di te si dice spesso che hai avuto due fasi: una pre uscita di Mood e una post. A me sembra che sia un po’ troppo drastica come scansione, ma magari tu sei d’accordo con questa idea.
Credo ci sia una parte di verità e che la mia maturità sia iniziata con Mood. Prima di quel disco, ero in una fase di crescita e gavetta: avevo buone intuizioni, ma ero ancora acerbo. La trilogia Raptus era molto istintiva, mentre con Mood ho iniziato a mettere ordine. Gli album più vecchi, onestamente, non mi rappresentano più: li vedo come una fase di sperimentazione e apprendimento. Mi sarebbe piaciuto vivere un periodo in cui la gavetta si faceva in sordina, lontano dai riflettori, per uscire solo quando ero davvero pronto. Invece, sono uscito troppo presto, a soli 16 anni, con esperienze che ora non mi somigliano più.
Hai parlato di creare dischi con criterio. Cosa intendi esattamente?
Non significa che un disco debba essere iper ragionato, ma deve avere un’identità chiara. Quando lavori a un album, devi sapere cosa vuoi raccontare. Oggi siamo bombardati da dati e informazioni, ma queste hanno valore solo se a servizio di un racconto. È il racconto che dà senso, che ci permette di empatizzare, di emozionarci. Per me, un disco senza una storia coerente è un’occasione persa.
Nel disco ci sono anche Ernia e Scozia. Cosa mi dici di loro?
Ci sono perché dovevano esserci.