Negramaro – Evergreen Pass
Hanno resistito alle ondate dell'indie e della trap, e se questo è l’anno del ritorno del rock allora vogliono esserci, insieme a una generazione diversa «ma con i nostri stessi sogni». I Negramaro ripartono da ‘Ora ti canto il mare’, un anti-tormentone contro l’inquinamento del mare, che Giuliano Sangiorgi ci ha raccontato nel suo rifugio sulla costa salentina, tra paccheri, origin story della band e citazioni di Dalla e Verdone
Foto: Attilio Cusani. Styling: Rebecca Baglini
Una mattina di fine agosto Giuliano Sangiorgi ci accoglie nella sua casa-studio delle vacanze con ai piedi delle ciocie in plastica modello messicano, in tema con l’atmosfera western di una costa ionica salentina con 40 gradi e poche ombre corte e selvagge. Saremmo spacciati se non trovassimo subito riparo sotto il cannizzo a bordo piscina e non fossimo avvolti dal suono inconfondibile della voce di Giuliano che è così fresca nel timbro e costante nell’eloquio da agire, sui nostri volti madidi, quasi come un nebulizzatore..
Oltre a quello di cantante, compositore, scrittore e attore è chiarissimo fin dalle prime forchettate di paccheri fagioli bianchi e cozze nere che Giuliano ha un talento anche per i primi piatti e la falsa modestia, mentre ci guarda preoccupato per l’esito della preparazione, che porta a termine conversando e canticchiando ininterrottamente. Ma in fondo è così fiero della sua arte culinaria che un po’ si adombra quando gli chiediamo: sicuro che sei più bravo a cantare o a cucinare?
«Ah, quindi i paccheri non ti sono davvero piaciuti?». Questo, per dire quanto erano buoni. In effetti pianoforte e fornello designato si erano guardati in cagnesco da un capo all’altro del soggiorno-cucina, ma alla fine è evidente che quell’open space è abbastanza grande per tutti e due.
Che storia ha questa casa? «Nasce come casa estiva di mia nonna. Una volta da piccolo avevo troppa troppa paura di esibirmi in pubblico con un gruppo di musicisti più grandi e, per vincerla, mi ci chiusi da solo e cominciai a cantare a squarciagola, come un disperato. Col tempo ho comprato un po’ di terreno vicino, la casa si è ingrandita, ma è rimasta comunque il mio rifugio musicale».
Sentiamo gli uccellini cinguettare ed è subito origin story dei Negramaro, che usciranno il 10 settembre con un pezzo che si aggiunge come una postilla a Contatto: E ora ti canto il mare. Quella di Giuliano, Lele Spedicato, Ermanno Carlà, Danilo Tasco, Andrea Mariano e Andrea De Rocco è una “garage band” nata in una cantina di vitigno negroamaro, dunque una cellar band. Non male come punto di partenza, ma quante storie avete imbottigliato nel frattempo, aggiungiamo, mentre incassiamo uno sguardo di approvazione per aver preferito l’ennesima bottiglia di Nastro alle bollicine.
«Non siamo arrivati al successo con un endorsement televisivo dietro o con una major davanti. Siamo partiti con Caterina Caselli e Sugar e dal 2003 siamo rimasti sempre con lo stesso team. Il nostro sogno è stato indipendente da ogni punto di vista, e siamo indiessimi ancora oggi. In un momento in cui tanti parlano di indie ma poi vanno a firmare con le multinazionali, i nostri uffici hanno sede a Copertino, dove abbiamo aperto due case editrici: Edizioni Musicali Sangiorgi e Casa 69».
Ubi indie, major cessat.
«Noi siamo figli della crisi. Prima di arrivare a Sugar abbiamo vinto il Tim Tour di Red Ronnie: vi partecipavano tantissime band. A Gallipoli superiamo una prima scrematura importante. Festeggiamo dalla mattina alla sera ogni giorno finché non dobbiamo presentarci alla tappa successiva di Palermo, dove siamo in quindici, tra cui band già con management al seguito, e noi in furgone scassato e noleggiato. Quando saliamo sul palco e ci dicono che abbiamo vinto siamo così ubriachi e stremati (non dormivamo per non pagare gli alberghi) che scoppiamo a ridere per l’incredulità, davanti a 110.000 persone».
Mentre parla gioca con una reliquia: il robottino di latta che compare sulla prima copertina del primo album dei Negramaro.
«Riusciamo a tornare a casa a Lecce per il 10 settembre 2001, dove siamo raggiunti dalla chiamata di una major discografica che l’indomani, nella sede italiana di Milano, ha pronto un contratto per più dischi. La mattina dell’11 siamo pronti per la partenza ma arriva un’altra telefonata, sempre della major: non partite più perché in una delle due torri c’era la nostra sede americana e quest’anno non pubblicheremo più dischi nuovi. Il nostro successo sembra essere durato un giorno: dal 9 all’11 settembre. Ma poi arriva Caterina».
Cosa sarebbe cambiato se aveste firmato con quella major?
«Siamo stati la band degli anni ’00, la band degli anni ’10 e ora entriamo negli anni ’20. Credo che meglio di così non potesse andarci. Il nostro primo disco naturalmente non vendette molto, ma ebbe un hype eccezionale nel circuito giusto. Credo che con una multinazionale non avremmo avuto la possibilità di “redimerci” da un disco così profondamente indie. Sugar ha creduto nella sostanza della nostra band e nel fare della strada insieme, come ha fatto anche con Elisa e come sta facendo oggi con Madame o Sangiovanni».
Quanto è diversa la strada che avete fatto rispetto da quella della generazione che esplode adesso?
«Tre anni dopo l’eliminazione di Tutto scorre a Sanremo (nel 2005, ndr), quando riempivamo già San Siro, eravamo ancora considerati emergenti. La vittoria dei Måneskin al Festival mi ha reso felice non solo perché, pur avendo vent’anni, ci arrivavano da big ma soprattutto perché con loro ha vinto finalmente il rock. Dentro di me ho vinto Sanremo con i Måneskin, dopo sedici anni di attesa».
I Måneskin sono figli tuoi?
«Se chiedessi ai Måneskin l’inverso non credo che si riconoscerebbero nel percorso dei Negramaro. Piuttosto si riconoscerebbero in De André, così come Kurt Cobain è stato per tanti miei coetanei il nuovo Jim Morrison. E quando ho letto la biografia di Morrison mi ha sconvolto scoprire che avesse il mito non solo dei poeti maledetti, ma anche di Frank Sinatra. Ma è proprio quello che facevo io quando, negli anni ’90, mi ritrovavo nei Doors e non in Vasco. Ora che sono cresciuto mi ci ritrovo, eccome. E così succederà anche a loro».
Comunque lunga vita al rock?
«Me lo auguro ma credo che sia in corso una rivoluzione culturale. Dovranno cambiare se vorranno restare qui per almeno vent’anni, cosa che a me non sarebbe riuscita se avessi puntato tutto sul falsetto e su certi aspetti tecnici. È proprio dove pensi di essere più forte che può esserci un potenziale tallone d’Achille».
Cosa sta succedendo alla musica?
«La musica, come la letteratura, sta per cambiare completamente. A saltare il fosso saranno – saremo, ci auguriamo (ride) – in pochi. Non parlo di numeri, ma di codici artistici e linguistici. Siamo entrati nell’era socialitica, in cui un featuring è una forma di sharing. Mi va bene, purché non scadiamo nella commentocrazia. Siamo di fronte ai nuovi anni ’60 i quali, per inciso, sono durati settant’anni, più o meno come Gianni Morandi. In questi settant’anni abbiamo parlato tutti la stessa lingua: nonni, padri e figli. Ora per la prima volta, dopo tanto tempo, le nuove generazioni non vengono capite dalle precedenti».
La pandemia ha influito su questo?
«Il Covid ha funzionato come un acceleratore di particelle. In questi due anni sono cresciuti degli adolescenti che non hanno avuto alcun rapporto col live. La più grande sfida dei prossimi tempi, per me, sarà riuscire a portare il formato del concerto, con l’attrezzatura giusta, con le emozioni giuste, ma anche con le innovazioni giuste, ai nuovi livelli richiesti dalla contemporaneità. Che è un po’ quello che i Negramaro hanno sempre provato a fare».
Bisognerà andare più veloce che mai?
«Ora come ora il live è considerato dai nuovi ascoltatori di musica alla stregua del teatro greco di Siracusa. Fermo restando che certe idee non possono e non devono essere imposte, sarà necessario un grande sforzo, soprattutto culturale. In questo momento mi trovo su un ciglio, e guardo sia il baratro di sotto che il cielo altissimo. Sono sicuro che questa consapevolezza mi aiuti».
Cosa ti piace di più nel panorama attuale?
«Amo la metrica trap. Tha Supreme è fantastico. Blanco è forse ancora più avanti. Questi ragazzi hanno creato un mondo loro a partire da uno stile, il rap, e hanno capito che più sono liberi da quello stile, più sono loro stessi e più vincono. Se ci fermiamo alla forma siamo perduti. So di non parlare la loro lingua, e viceversa, ma siamo contemporanei alla stessa maniera. È bello scoprire che i loro sogni sono simili a quelli che faccio ancora io. Mi piace tantissimo Madame, che ha esordito dal vivo proprio con noi, a X-Factor. Due anni e mezzo fa l’abbiamo inserita con un featuring nel nuovo disco. Anche se allora aveva solo 17 anni avevamo un’intesa perfetta: in maniera diversa, fregandocene della forma, condividevamo la stessa sostanza. Le ho detto che tra cinquant’anni sarà la nuova Orietta Berti».
E ora ti canto il mare infatti esce fuori da un album, non come singolo, ma come update. Un concept album con una postilla. Anche questa è una risposta alla contemporaneità?
«Il concept album appartiene e apparterrà sempre alla nostra visione. È vero però che uno dei primi importanti cambiamenti a cui stiamo assistendo è nelle tempistiche di pubblicazione della musica. I ragazzi, figli della velocità, non vogliono più chiudersi in uno studio per un anno, ma uscire pezzo per pezzo. I loro album saranno quei pezzi collocati nel tempo. Per Ora ti canto il mare abbiamo riflettuto e deciso che fosse il modo migliore e più in linea coi tempi di pubblicarlo. Da un lato appartiene profondamente a Contatto. Dall’altro risponde alla nostra esigenza di dare a ogni pezzo l’importanza di un album. Del resto una canzone come questa la componi per allontanarti con consapevolezza dai tormentoni estivi».
Destagionalizzandoli, perché esce a settembre inoltrato. E un po’ per prenderli in giro.
«Ora ti canto il mare (vocalizza, accentuando con espressività un’autoparodia!, nda) nasce dal mio tentativo di resistere all’inquinamento del mare, che non è ovviamente solo rappresentato dalla plastica, ma anche dal pensarne, parlarne e cantarne in maniera inappropriata. C’è una canzone di Lucio Dalla che, secondo me, è il mare».
Come è profondo il mare.
«Una delle più belle canzoni al mondo, sia per sonorità che per testo. Finché non ho scritto “Ti è mai successo di guardare il mare?” (vocalizza, stavolta serio, nda) ho spesso provato a cantare il mare, senza riuscirci. Appena scrivevo la parola mare mi dicevo: chi può toccare il mare? È roba di Lucio. Quando finalmente mi sono lasciato andare ho provato a dire come, guardando il mare, mi succede di pensare di avere sempre un’alternativa. Soprattutto d’inverno. Anche davanti alla peggiore tristezza o desolazione il mare mi dà non un senso di pace, ma un senso di vita, di futuro. Anche se tu non vuoi essere qui, c’è il mare: puoi prendere la strada del mare. Questa canzone nasce in primavera, guardando il documentario di Gabriele Salvatores sulla pandemia, ed è un viaggio verso il mare che non dura soltanto un’estate, ma ha una sua ciclicità».
Anche se Ora ti canto il mare sarà disponibile in Spatial Audio con Dolby Atmos su Apple Music, e noi possiamo per giunta ascoltarlo direttamente dalle sacre AirPods Max giulianee, sentirlo in Giuliano Spaziale, solo voce e piano, live dal salotto di casa sua, è inevitabilmente un’altra cosa. In Atmos sono affascinanti quei riverberi elettronici delle onde che sembrano sommergerti, all’inizio. Ma sono niente in confronto a quello tsunami portatile di Giuliano che, dopo averci riempito lo stomaco di mitili, improvvisamente, lo farcisce anche di farfalle.
Le impressioni del mio primo ascolto sono forse influenzate dal ritmo battente, in cui sembri istrionico nel rappresentare la lucida follia di un cantante di tormentoni che, una volta l’anno, deve produrre una canzone estiva, costretto dal mercato a metterci sempre le stesse rime con fare l’amore…
«È chiaro che se scegli di intitolare un pezzo che esce a settembre Ora ti canto il mare c’è un aspetto ironico di base. Fino a qualche anno fa, abbiamo lanciato anche noi dei pezzi di grande successo estivo, ma le regole sono cambiate e abbiamo pensato di sparigliare le carte. La verità è che non volevamo entrare nella gara dei tormentoni estivi, perché se vuoi davvero farlo devi adattarti a una dimensione di marketing che non si confà al nostro modo di produrre, anche se stimo quelli a cui questo piglio si confà. Per esempio mi è piaciuto come Mille di Fedez abbia recuperato l’italiano sull’imperante reggaeton della categoria, con tutto il rispetto che ho per il reggaeton. Gli aspetti più ludici del pezzo sono nei riferimenti ai grandi Stadio di Figlio di puttana e in particolare di Acqua e sapone, indissolubili dall’immagine di Carlo Verdone che danza nei campi di grano nel suo film, al punto che anche io mi diverto a ballarlo».
A questo punto Giuliano ci serve circa 300 grammi di un gelato customizzato che gli viene recapitato quotidianamente dalla gelateria di una marina vicina, con una base di pistacchio, topping di burro di arachidi e caramello. Troviamo lo spazio per un’ultima domanda.
Ci dici qualcosa del video?
«Coez aveva una scuola di danza nello stomaco, io sono cresciuto con Nicoletta Manni nella scuola di danza di fronte a casa di mia nonna. Anche la prima ballerina della Scala è copertinese doc».
L’aggiungiamo alla terna dei copertinesi cool dopo Fabio Novembre e San Giuseppe da Copertino, il santo che volava tipo Superman ante litteram. Ma non è colpito dalla nostra competenza sull’agiografica locale.
«E poi chi c’è, chi c’è?», vuole sapere.
Vabbè, San Giuliano.