Settembre 1971. Neil Young fa salire Graham Nash su una barca a remi e lo porta sul laghetto di fronte a casa per fargli ascoltare per la prima volta il suo nuovo album Harvest. L’abitazione funge da cassa di sinistra, il fienile da cassa di destra. Il produttore Elliot Mazer s’avvicina all’acqua e chiede come si sente. «More barn!», più fienile, urla Young.
Cinquanta e passa anni dopo, in un certo senso Young sta ancora cercando di alzare il volume del fienile. Il suo nuovo disco coi Crazy Horse s’intitola proprio Barn e prende nome da un altro vecchio fienile, non in California ma sulle Montagne Rocciose, dove lui e i suoi musicisti hanno passato nove mesi. Barn è anche il titolo del documentario dedicato alle session diretto da Daryl Hannah, attrice e moglie di Young. Si vedono Young, il chitarrista Nils Lofgren, il bassista Billy Talbot e il batterista Ralph Molina che suonano i 10 pezzi dell’album con l’accompagnamento dei cani del rocker Moon e Mo, qualche birra ghiacciata e la luna piena.
Ora Young è in collegamento Zoom dalla sua casa in montagna per parlare dell’album e delle prossime pubblicazioni, dal terzo capitolo dei suoi archivi che coprirà il periodo 1976-1987 al cinquantesimo anniversario di Harvest.
Il disco precedente coi Crazy Horse, Colorado, l’hai fatto in un vero studio. Perché questo nel fienile?
È un posto che amiamo, un vecchio fienile che abbiamo ristrutturato di recente. Risale al 1850 e giù di lì. È dove si fermavano le diligenze per rifocillare i cavalli e pulire le ruote. E attorno c’erano un paio di edifici malmessi dove la gente dormiva prima di ripartire.
L’abbiamo rimesso a posto usando materiali originali, basandoci su alcuni schizzi e una fotografia. La struttura era malconcia. Abbiamo usato questi meravigliosi pini gialli, è venuto bene, tutte le superfici sono ricurve, non ci sono angoli. Gli angoli sono nemici del suono. Creano un’onda stazionaria che fa sì che alcune frequenze saltino fuori e altre spariscano e questa cosa ti tocca compensarla in fase di registrazione. Lì non l’abbiamo dovuto fare quasi per niente. Il suono era buono, era già lì, nell’edificio.
È dai tempi di Harvest che ti piace suonare in posti del genere. C’è un motivo?
Ai tempi di Harvest volevo registrare da qualche altra parte e c’era questo bel fienile, mi sembrava una buona idea. Ora l’abbiamo rifatto dopo 50 anni.
Hai registrato a giugno, sotto la luna piena. Perché è importante la luna?
Perché funziona. Non so se tutti lo percepiscono, ma si sente l’influsso dei cicli lunari. È una cosa che la gente sa da anni e anni, specie in certe culture. Con l’arrivo della nuova luna ti senti diverso, è come voltare pagina. È una questione di energia. Nel giro di una settimana cambia qualcosa dal punto di vista creativo. Ecco perché abbiamo scelto di registrare in base ai cicli lunari.
Nel documentario c’è il tocco umoristico di Daryl che filma la band che canta di birra fredda mentre tu pisci. Che cosa la rende una grande filmmaker?
Ha un talento naturale. Lo vuole fare da sempre, è una cosa che adora. È sintonizzata con la musica. È successo tutto assieme: la costruzione del fienile, la musica, il film, tutto. Le idee sono venute fuori velocemente.
Parliamo della band. Che differenze vedi tra i vecchi Crazy Horse con Poncho Sampedro e questi Crazy Horse con Nils Lofgren?
Poncho è enorme. È un gran musicista. Va giù pesante con gli accordi. A volte suoniamo la stessa parte ed è come sentire il suono di una chitarra che viene da un altro luogo. Roba semplice, ma potente. Nils invece è più raffinato. Ha un buon orecchio e si sa muovere tra vari strumenti. È un musicista di prima categoria. Lo si sente bene in questo disco. Tutti i dettagli. Non c’è molto altro: sono i Crazy Horse, tutto qui. Lo apprezzi per quello che è, per quello che dà.
C’è un periodo dei Crazy Horse che preferisci?
Questo qua. Mi piace quel che sta accadendo adesso. Non ricordo una formazione migliore di un’altra, anche se abbiamo ritrovato un concerto, sono gli highlight del tour del 1976 e saranno all’inizio del terzo volume degli Archives, prima traccia, primo disco. È un live incredibile, forse la migliore registrazione dei Crazy Horse di sempre. Bel suono e performance pazzesche.
Canerican parla dell’orgoglio d’essere diventato americano, cosa accaduta l’anno scorso. Che cosa significa per te votare negli Stati Uniti?
È stato bello votare per Joe Biden perché è un essere umano rispettabile e va bene per il Paese. Per i giovanissimi rappresenta un buon esempio di educazione e fermezza, di come si fa il proprio mestiere. Dopo le ultime elezioni era importante votare, sentivo di poter fare la differenza.
L’altro giorno ero sul mio bus, in giro da qualche parte. Davanti a noi c’era un’auto con la scritta sul vetro posteriore: “Fanculo a Biden e a chi l’ha votato”. Tremendo. Perché questa incazzatura? Perché essere immaturi e infantili? Cerchiamo di rispettare le opinioni altrui. E se anche non siamo d’accordo con qualcuno, ricordiamoci che siamo tutti americani. Ognuno ha la sua opinione. È gente come me e come te. È sempre stato così negli Stati Uniti. Non capisco perché ci facciamo prendere dalla rabbia. A volte mi succede e per calmarmi devo chiudermi da qualche parte. Mi auguro che la gente impari a rispettare il prossimo e le sue opinioni. Mica lo devi uccidere perché non la pensa come te. Non è un atteggiamento positivo. Non se ne cava niente di buono.
Il mio pezzo preferito di Barn è They Might Be Lost. Sbaglio o è triste?
Un po’ lo è. Ma non saprei, non è davvero triste. È una specie di documento: sta succedendo qualcosa, tu pensi di sapere di che cosa si tratta, ma non ne sei tanto sicuro. È un pezzo interessante. Fatto alla prima take. C’è una sequenza di accordi che credo si ripeta per tutto il pezzo. Comunque, non sono uno che si mette lì con la chitarra e canta mentre scrive. Magari canto giusto un verso, o lo canticchio o penso come potrebbe essere mentre suono. Solo in un secondo momento scrivo le parole e non riprovo mai il pezzo prima di registrarlo con la band. Lo mostro agli altri, faccio vedere gli accordi, lascio che lo suonino per qualche minuto. E poi via. Ed è bello perché è la prima volta che lo suoniamo tutti assieme e mentre lo suoniamo scopriamo com’è, se funziona, se non funziona. E ci puoi improvvisare su perché non c’è una traccia rigida da seguire. Niente regole, zero. Non è che rifai una cosa perché con un’altra canzone ti è venuta bene. Ecco, questa canzone rappresenta un buon esempio di traccia immediata, con parole scritte su fogliacci sparsi che poi ho dovuto mettere assieme. Per capirci qualcosa li ho dovuti numerare. A volte scrivo in modo talmente veloce che è difficile capirci qualcosa (ride).
Che cosa hai fatto nel lockdown? Hai avuto del tempo libero, tra il lavoro sugli archivi e il disco nuovo?
Giusto un po’, con Daryl. Ci siamo presi del tempo per stare assieme, anche lei è molto creativa e ha un sacco da fare. E il progetto degli Archives è gigantesco. Il Volume III è il più grande dei tre, quasi il doppio degli altri. Copre un periodo più lungo. Credo contenga 13 album. Sto lavorando a nuovi album adesso. Creo un nuovo album basato sulle session di un certo disco che è uscito.
Prendiamo ad esempio Comes a Time. Prima di quel disco ne ho fatto un altro con le stesse canzoni. Erano tutte inedite, ma non le ho pubblicate, le ho tenute. Ora la gente può sentire com’era in origine. Ci sono tante registrazioni che nessuno ha mai sentito. Ci sono ad esempio le prove di un concerto con Nicolette Larson e l’orchestra di Give to the Wind. Abbiamo suonato a Miami, eravamo pronti per fare Comes a Time, abbiamo registrato le prove alla Union Hall di Nashville su un due tracce. Io e Nicolette che cantiamo, la band, gli archi e tutto quanto. Ed è veramente figo. C’è un sacco di roba del genere. Sono documenti, senti le voci prima e dopo le canzoni, ti dà l’idea che sia musica suonata da persone.
Che meraviglia sarà ascoltare le prove di Nicolette.
Oh, sono magnifiche. Le canta benissimo. Credo sia la cosa più bella che abbiamo mai fatto insieme. Vorrei averla pubblicata tempo fa, ma fino a tre mesi fa non l’avevo mai ascoltata.
Che altri bei momenti puoi svelarci?
Ci sono tante cose fantastiche. Il tredicesimo disco è un album intitolato Summer Songs, l’avevo registrato su nastro e poi messo via per lavorare a canzoni nuove. All’epoca andando veloce, scrivevo un sacco di cose. Registravo una base e poi cantavo l’armonizzazione, sempre seduto nello stesso punto. Veniva fuori un suono molto interessante, come se le due voci fossero una sopra l’altra.
Ho ritrovato questo gruppo di canzoni grazie alle lettere che arrivano agli Archives, sono molto d’aiuto. Sono l’anima della mia community, persone che scrivono e raccontano quello che ricordano. È così che riesco ad andare negli Archives, ritrovare materiale e dargli vita, è grazie ai ricordi condivisi da quelle persone. È così che sono nati Summer Songs e altri quattro album. Sono canzoni molto vecchie, per anni nessuno le ha sentite. È così che finisce il Volume III, e in mezzo ci sono altri undici album, assurdo.
Cosa possono aspettarsi i fan per il 50° anniversario di Harvest, a febbraio?
Abbiamo preparato un film di due ore e un disco. Racconta com’è stato messo assieme l’album. Avevamo del materiale, ma non l’abbiamo mai fatto vedere a nessuno. Ci sono riprese nel fienile e anche con la London Symphony Orchestra.
Lo scorso agosto, dopo l’arrivo della variante Delta, hai saggiamente rinunciato al Farm Aid. La situazione è cambiata? Tornerai a suonare dal vivo?
I media non sono d’aiuto in questa situazione. Magari sono in buona fede, ma forniscono informazioni confuse e non c’è una leadership a livello mondiale. Ti dico la mia idea assurda: vorrei che Putin, Xi e Biden facessero una conferenza stampa congiunta sul coronavirus. Dovrebbero mettersi d’accordo e dire cosa fare in contemporanea a tutto il mondo. I leader dei tre Paesi più grandi del mondo devono dire a tutti di proteggersi.
È un brutto periodo per l’umanità, non andiamo d’accordo, non ci ascoltiamo. Ci sono tante idee diverse su come gestire il virus. La cosa ovvia è che non sappiamo precisamente come fare. Per questo, andare in giro a suonare… Non riesco a immaginarmi in tv, ripreso mentre suono con la band di fronte a un grande pubblico, mi sembra tutto sbagliato. Non è il momento giusto. Non sappiamo cosa stiamo facendo. La gente può tornare a casa dallo show e contagiare i figli. Non è ancora il momento.
Perché tutta questa fretta? Non siamo obbligati. Dovremmo adattarci, andare tutti nella stessa direzione. Magari sembro un pazzo, ma quest’idea di accettare le nostre differenze… dovremmo ricominciare ad ascoltare e capire che abbiamo un problema, che sta morendo un sacco di gente. Che dobbiamo unirci. Abbiamo avuto un politico che ha avvelenato la discussione e reso tutti scettici, la gente ha perso fiducia nel sistema e nelle istituzioni. Una mossa sediziosa da parte dell’ultimo governo.
[I rappresentanti del Farm Aid hanno contattato Rolling Stone US per chiarire che il concerto si è tenuto a settembre «con successo e in sicurezza, con nessun contagio di Covid-19»]
Molti musicisti oggi chiedono un tampone negativo, oltre al vaccino, a chi vuole vederli dal vivo. Di cosa avresti bisogno per sentirti sicuro in tour?
Non saprei. Non sono pronto. Non c’è nulla che mi faccia venire voglia di continuare. Con i test all’ingresso, i certificati vaccinali e le nuove varianti… ma di cosa stiamo parlando? Perché non lasciamo perdere finché non il virus non sarà davvero sotto controllo? Ora non lo è. Siamo abituati ad avere tutto quello che vogliamo quando lo vogliamo. L’industria dell’appagamento è diventata uno stile di vita. Per come la vedo io, dovremmo fare un passo indietro, stare uniti fare qualcosa assieme. Tutti quanti, la razza umana. Dobbiamo stare uniti.
Ecco perché sono convinto che sarebbe bello che i leader dei Paesi più grandi del mondo si riunissero sullo stesso palco, o in televisione, e dicessero la stessa cosa, cioè che questa è una cosa seria e che dovremmo agire in un certo modo. È una cosa semplice e sarebbe molto più efficace di questa politica meschina, in cui i governatori degli Stati sono uno contro l’altro. Abbiamo bisogno che i leader si mettano d’accordo e dicano che siamo nei guai. Che dobbiamo farlo [il vaccino]. Gli scienziati dicono che è sicuro. Sono sicuro che i governi di Russia, Cina e Stati Uniti sono d’accordo su quello che va fatto. Non credo ci siano dubbi.
So che ti piace improvvisare queste cose, ma hai idea di come ti piacerebbe andare in tour in un mondo ideale? Da solo in acustico, con i Crazy Horse, i Promise of the Real…
Non ne ho idea, perché non sento nulla. Non so cosa farei. Non voglio mettere in pericolo nessuno. Non voglio che la gente mi veda là fuori e pensi che sia tutto ok. Perché la situazione non è per niente ok. Mi piacerebbe sperare che quando tornerò a suonare su un palco, toccando ferro, saremo tutti al sicuro. Ma dobbiamo tenere sotto controllo la situazione, andare nella stessa direzione per un po’, prima che possa succedere. In più, io costo una fortuna. Anche tenendoli bassi, i prezzi dei biglietti sarebbero assurdi. Immagina le persone che vengono a vedere un concerto a cui tengono tanto, ci hanno speso un sacco di soldi, lo aspettano da un pezzo: e se qualcosa va storto? Non mi sento abbastanza sicuro. Non credo che la situazione sia risolta… dobbiamo fermarci e aspettare, lasciare che le cose si calmino, poi parleremo di come tornare a suonare. È troppo presto. L’ho appena detto ai miei amici di Farm Aid: non posso suonare, l’idea mi fa star male. Non posso dare l’esempio comportandomi come se fosse tutto a posto.
Hai visto la cerimonia per Joni Mitchell al Kennedy Center, qualche settimana fa?
Sì. Le ho parlato qualche giorno fa. Era appena scesa dall’auto e stava per entrare al Kennedy Center. Mi ha detto che si sentiva come Cenerentola. Rideva. È stato bello sentirla felice. Ha passato degli anni difficili, ma è ancora qui. È ancora Joni. Una ragazza dolce.
La serie dei suoi Archives è una tua idea, giusto?
Beh, ho detto a Elliot [Roberts] che Joni aveva un sacco di materiale e che sarebbe stata una bella idea. Gli ho anche proposto di usare la mia piattaforma, fare tutto da soli può essere dura. Ma ci stanno lavorando a modo loro. Non importa come lo faranno, l’importante è il risultato.
Molti tuoi colleghi hanno smesso di fare album. Cosa ti dà la forza di continuare?
Amo la musica. Guarda la reazione della gente dopo un pezzo come Welcome Back, lo faccio per loro. Li tocca nell’anima. Non devo essere per forza io, basta che trovino della musica da amare, e la possono trovare fatta da tanti artisti diversi. Ma sai, leggo che tutti sono molto felici di ascoltare le canzoni che ho appena scritto, è gratificante. È quel che mi fa andare avanti. Sto già pianificando un altro disco. Ma non so dove farlo. Ci stiamo lavorando e lo faremo, torneremo presto in studio.
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.