Prima ancora di cantare una sola nota, Natalia Lafourcade ha ricevuto una standing ovation alla Carnegie Hall di New York. È lì che a fine ottobre la cantautrice messicama ha tenuto una performance folgorante, presentandosi sul palco in un vestito nero luccicante con strascico e i capelli sciolti che sembravano confondersi col tessuto dell’abito. Sul palco è salito anche David Byrne, in un elegante completo nero, per declamare la traduzione in inglese di Muerte, brano chiave di De todas las flores, il primo album di materiale originale pubblicato da Lafourcade da sette anni a questa parte.
Lafourcade l’ha presentato per la prima volta a New York. Sono canzoni piene di dolcezza e vulnerabilità che indagano i misteri più profondi della vita in parole e musica. Sono costruite su contrasti sonori, con chitarre acustiche apparentemente minimali e arrangiamenti orchestrali. Creano un contrasto nettissimo, come quello fra morte e vita che sta nel profondo del cuore di quest’album.
«Il disco mette in fila una serie di momenti. Inizia con un cuore spezzato e con me che in Vine solita stringo un patto con la vita», spiega Lafourcade a Rolling Stone. «Sono venuta al mondo sola e sola me ne andrò. Nulla può cambiare questa cosa. Muerte rappresenta il momento della risoluzione, la musica si decostruisce, tutto svanisce e diventa gioia».
Non è stato semplice arrivare a fare un album tanto ambizioso. Sono passati sette anni (e nel mezzo c’è stata una pandemia) da Hasta la Raíz. Lafourcade ha sentito di dover scavare ancora più a fondo. Ha passato il lockdown nella campagna attorno a Veracruz, curando il giardino e lavorando ai meravigliosi tributi alle tradizioni folk del Messico e di altri Paesi latinoamericani di Un canto por México, Vol. 1 (che le è valso un Grammy). Quando ha cominciato a rileggere i suoi vecchi diari, ha imbracciato la chitarra e ha affrontato le sue emozioni. «È stato un viaggio meraviglioso, amo davvero questo disco. È un diario musicale intimo. Mi ci è voluto un po’ per capire il bisogno di tornare in studio, la necessità di realizzare qualcosa di mio».
Nonostante il concept ambizioso e il carattere sperimentale quasi esoterico delle tracce, De todas las flores ha la delicatezza di un bouquet che fiorisce e appassisce velocemente. Non sorprende che la produzione sia stata curata dal musicista di art rock franco-messicano Adán Jodorowsky, noto come Adanowsky. È stato inciso su bobine analogiche e masterizzato a Parigi, dove Lafourcade ha suonato alcune canzoni per il pubblico di un piccolo bar.
«Anni fa Adán ed io ci eravamo ripromessi di lavorare insieme. Volevo portare il suo mondo magico nel mio», spiega Lafourcade. «Sapevo che lavorare con lui mi avrebbe portata in un’altra direzione e spinta a reinventarmi. Volevo evitare l’inerzia e fare un’esperienza diversa, vivendo e creando in modo diverso».
La fioritura orchestrale che apre Vine solita conduce verso un sussurro di chitarra acustica e alla splendida voce da soprano di Lafourcade. Llévame viento è un soffio di brezza costruito su una chitarra ovattata, pizzicata rapidamente, e sulla voce di Lafourcade. Altre canzoni svaniscono in una fiammata. In Mi manera de querer, quasi una bossa nova che Lafourcade definisce «la sintesi del disco», la cantautrice rassicura un amante che sono entrambi creature di luce e che ognuno di noi è unico nel proprio amore, indipendentemente dal genere o dal modo di amare. María la Curandera è una cumbia liberamente ispirata alla curandera psichedelica mazateca María Sabina (e alla sua celebre poesia sulla natura Cúrate Mijita). È una celebrazione rumorosa della magia degli elementi evocata nell’album, con Lafourcade che si cala nel ruolo della famosa sciamana indigena. «La cumbia è la musica del cuore, delle pianure, dei campi… e questo pezzo voleva essere una cumbia».
In De todas las flores, Lafourcade è profondamente ispirata da Madre Terra. Tutto l’album mostra chiaramente che le sue radici affondano nell’ecopoesia, con canzoni sul mare e sul vento fino a Pajarito Colibrí, una traccia tranquilla in cui riflette sull’esperienza umana paragonandola alla vita di un piccolo colibrì, con l’unico scopo di esistere ed essere felice. Il disco dimostra dove, a livello creativo, si trova Lafourcade, che è stata così colpita dalla vita di una sciamana e dal mondo che la circondava da evocarla apertamente in questo album.
«Una delle mie più grandi fonti d’ispirazione è Madre Terra con la sua energia. Non avevo mai esplorato nulla di simile con la mia musica: il suono dell’acqua, di un temporale, di un’onda, del fuoco, dell’allegria insita negli elementi quando sono in equilibrio. È qualcosa di mistico che deve essere percepito leggendo fra le righe».
Alla Carnegie Hall, Lafourcade ha chiuso la prima parte del suo concerto proponendo interamente, per la prima volta, la lenta Muerte. Byrne l’ha nuovamente raggiunta sul palco, ballando mentre il pezzo finiva in una tempesta cacofonica di trombe, piano e basso: un muro di suono sconvolgente. Byrne ha rivestito il ruolo dello psicopompo, guidando Lafourcade per mano mentre lasciava il palco attraverso un’inquietante porta aperta. Era chiaro che, per lei, quella performance era una specie di rituale di morte e, cosa più importante, di rinascita.
«La morte è parte della vita. Porta vuoto, dolore, vergogna. C’è cordoglio, ma noi esseri umani, nel corso della nostra esistenza, dobbiamo sperimentare molte morti, non una sola. Io ne ho incontrata una e quest’album è stato la mia salvezza, il mio sollievo, l’abbraccio, la rinascita, il gesto di ripiantare i semi. Ora sono seduta lì, nel giardino che ho rinnovato, per vedere cosa c’è dentro. È da lì che deriva la bella metafora dei fiori».
Questa energia è sgorgata nella seconda parte dello spettacolo, quando Lafourcade è riemersa in un lungo vestito verde chiaro, con stivaletti bianchi: i colori della fioritura di primavera. Ha iniziato la serata con la morte, l’ha chiusa con una versione festante di Lo que construimos, una delle sue canzoni più rappresentative. Racconta di come un edificio solidissimo possa crollare e dei pezzi che bisogna raccogliere per andare avanti.
Pochi o forse nessuno è rimasto seduto al proprio posto. Ballavano tutti, in una celebrazione sfacciata della vita.
Tradotto da Rolling Stone US.