La follia narrata attraverso la musica. Il prossimo 7 maggio uscirà La città del disordine di Nicola Manzan, disco interamente strumentale descritto dall’autore come «la mia interpretazione di vite contraddistinte da momenti difficili, spesso irrisolti, di persone che tante volte hanno visto la fine dei propri giorni tra le mura di un manicomio in forma di città che era diventato la loro casa».
Per il musicista noto per il progetto Bologna Violenta, dal 2018 impegnato con Ronin e Torso Virile Colossale, è la prima opera a suo nome, frutto di una collaborazione con i Musei Civici di Reggio Emilia e in particolare con il Museo di Storia della Psichiatria. «La richiesta che mi hanno rivolto era chiara», spiega Manzan, classe 1976. «Si trattava di scrivere dei brani che raccontassero la storia di alcuni pazienti ricoverati tra la fine dell’800 e l’inizio del 900 all’ospedale psichiatrico San Lazzaro. Un istituto all’avanguardia, per i tempi: sotto la direzione di Augusto Tamburini, amico di quel Cesare Lombroso che dà il nome al padiglione che accoglie il museo, divenne una vera e propria clinica delle malattie mentali, dando il via a un profondo cambiamento nel trattamento degli internati e ponendo così le basi per la psichiatria moderna».
La questione è complessa, siamo ancora molto in anticipo rispetto alla rivoluzione avviata negli anni ’60 dal movimento antipsichiatrico e da Franco Basaglia, che nel ’78 avrebbe condotto alla promulgazione della legge 180, legge quadro tutt’oggi in vigore che ebbe il merito di imporre la chiusura dei manicomi in quanto luoghi di contenimento sociale più che di cura, e di sostituire i medesimi con ospedali psichiatrici pubblici, modernizzando l’impostazione clinica dell’assistenza psichiatrica, proibendo trattamenti vessatori come la camicia di forza e torture come l’elettroshock, sostituendo all’idea dell’internamento quella della comunità terapeutica, riconoscendo i diritti dei pazienti, incluso quello a una vita dignitosa.
Tutto questo è avvenuto circa 70 anni dopo il periodo cui rimanda La città del disordine, sulla scia della fenomenologia, dell’esistenzialismo e delle teorie di filosofi quali Karl Jaspers, Ludwig Binswanger, Michel Foucault, ma vero è che nel corso della sua attività il succitato professor Tamburini, direttore del Manicomio di San Lazzaro dal 1877 al 1907, fece di quella struttura un polo di ricerca con annesso laboratorio di psicologia scientifica in grado di attirare studiosi da ogni parte d’Italia, tra cui Giulio Cesare Ferrari, fondatore, nel 1905, della Rivista di psicologia. Senza dimenticare gli investimenti da lui promossi nelle attività socio-riabilitative destinate ai malati, oltre che nella formazione professionale degli infermieri, anche organizzando laboratori di canto e disegno.
Questo giusto per inquadrare il discorso. La città del disordine è, dunque, il risultato dell’incontro del trevigiano Manzan con dei documenti custoditi negli archivi del Museo di Storia della Psichiatria di Reggio Emilia, inaugurato nel 2012 sulle ceneri del vecchio complesso manicomiale chiuso negli anni ’70, che tra il marzo ’45 e il dicembre ’48 ospitò anche il pittore Antonio Ligabue. «Mi hanno consegnato la trascrizione di una ventina di cartelle cliniche e dopo essermele studiate ne ho selezionate otto, relative a pazienti che mi sembravano più rappresentativi e interessanti per la loro condizione psichica o per la loro storia», dice Manzan. «A quel punto mi sono riproposto di comporre musiche che di quelle persone esprimessero il carattere, i diversi stati d’animo, tralasciando gli aspetti più orrifici della vita ospedaliera e delle cure a cui erano sottoposte e cercando, invece, di raccontarne il lato umano».
Eliminare ogni preconcetto, stigma, semplificazione, era la premessa: «Non ho spinto su atmosfere unicamente cupe come quelle evocate perlopiù quando si parla di matti e camicie di forza in modo voyeuristico, semmai ho cercato di dar vita ad ambienti sonori che tratteggiassero una panoramica delle personalità in questione. Un mondo di opposti, perché ci sono casi che oggi probabilmente, con un supporto psicologico, verrebbero risolti. Per esempio, quello di Arturo A., un ventitreenne descritto dai medici come non particolarmente brillante, appassionato di romanzi, che fino a un certo punto aveva condotto una vita normale, ma che dopo una grossa delusione amorosa e uno scherzo fattogli da alcuni amici entra in depressione, non riesce più a dormire, inizia a fare cose strane e infine viene ricoverato al San Lazzaro, dove rimane due anni per poi essere trasferito altrove. E poi ci sono casi estremi come quello di Concetta G., una ragazzina di 11 anni portata al San Lazzaro dal padre perché ingestibile, nel senso che viveva in un mondo tutto suo: nella cartella clinica si leggono frasi tipo “nata ebete ed epilettica”, “prognosi infausta”, “pericolosa per sé e per gli altri”».
Naturalmente anche le diagnosi vanno contestualizzate nel periodo storico in cui furono elaborate, certo è che Manzan ha svolto un ottimo lavoro di scavo, introiezione e interpretazione di quelle antiche storie sintetizzate nel booklet del disco, un libricino di 16 pagine ricco di fotografie, stralci dalle cartelle cliniche originali e disegni di pazienti dell’ex manicomio. Già, perché ascoltando La città del disordine viene davvero da immaginarseli, quegli uomini e quelle donne, pazienza se mai potremo sapere cosa ci fosse nella loro testa. Immergendosi in queste composizioni che intrecciano organi, harmonium, archi (violino, viola, violoncello) e sintetizzatori in un avvicendarsi di passaggi drammatici e momenti delicati, di ritmi nervosi e malinconica calma, di soluzioni ardite e melodie più classiche, si intraprende un viaggio esplorativo nella mente, si possono captare o quantomeno intuire le crisi d’ansia, l’alternarsi di quiete ed euforia, di apatia e agitazione, i deliri e in generale gli stati d’animo, le emozioni e i cambi di umore degli otto ricoverati del San Lazzaro qui immortalati con note e accordi.
«La sfida era non ripetermi rispetto ai miei lavori del passato», confida Manzan, «continuando, però, il percorso intrapreso con Fuga, consapevolezza, redenzione, pezzo kraut/space di 20 minuti che chiude Bancarotta morale, l’ultimo disco di Bologna Violenta. Quel tipo di suono è stato il punto di partenza, dopodiché mi sono messo in testa di scrivere i temi con il piano elettrico, che infatti è presente in ogni traccia, perché non essendo esattamente il mio strumento principe – sono diplomato in violino – pensavo potesse darmi spunti diversi dal solito». E aggiunge: «Ho suonato tutto io, così come mi sono occupato di registrazione e mixaggio, mentre il mastering l’ho fatto nello studio di un amico (Matt Bordin dell’Outside Inside di Volpago del Montello, nda) che vanta un suono antico molto bello. In sostanza dopo aver scritto le partiture mi sono sparato delle grandi session di registrazione in casa: un po’ alienante, ma ci sono abituato».
Nel comporre i brani il polistrumentista ha cercato, da un lato, di sottolineare le peculiarità del carattere e della soggettività evocati, dall’altro, di dare a ogni composizione una struttura che seguisse cronologicamente gli sviluppi della storia clinica del paziente di riferimento. È così che l’interiorità di Concetta G. si esprime in cluster acidi e dissonanti raffiguranti le crisi accompagnate da grida inarticolate che l’avevano colpita sin da bambina. «Ma c’erano momenti in cui semplicemente si dondolava, ciondolava la testa, e che ho tradotto al piano con dei suoni rappresentativi di quella condizione». Allo stesso modo, la prima traccia scritta da Manzan, quella dedicata ad Arcangelo L., è un pezzo bandistico che «omaggia un commerciante di cappelli finito in rovina, portato al San Lazzaro con la scusa di un affare da concludere – altrimenti mai ci sarebbe andato – quando era all’ultimo stadio di una sifilide che lo aveva condotto al delirio, e morto due settimane dopo».
Nonostante gli episodi drammatici non manchino, qua e là affiora anche una certa serenità, basti citare la traccia Adele B., costruita attorno a un tema bucolico creato con un piano giocattolo: qui la vicenda è quella di una tredicenne di Castelnovo Monti che era solita andare a pascolare le pecore con i genitori e che al San Lazzaro rimase poco, solo per alcuni accertamenti legati a una probabile fantasticheria scambiata per miracolo: «Sosteneva di aver visto una bambina uscire fuori da un cespuglio di ginepro, la voce cominciò a girare e molta gente, convinta che avesse visto la Madonna, iniziò a fare pellegrinaggi sul luogo. Così il prefetto decise di farla ricoverare per verificare con una perizia se le apparizioni non fossero, piuttosto, allucinazioni: sarà dimessa dopo non molto come guarita e il ginepro fatto estirpare dalle autorità».
Altri tempi, le superstizioni erano all’ordine del giorno, la follia era associata a qualsivoglia allontanamento da una presunta “norma”. Non che non accada più, ed è innegabile che nella cura del disagio psichico e delle patologie psichiatriche siano ancora tanti i passi da compiere e molto è destinato a restare nel mistero, ma proprio per questo La città del disordine – di cui un estratto entrerà a far parte di un’audioguida del Museo di Storia della Psichiatria che sarà pubblicata su www.musei.re.it il prossimo 18 maggio, Giornata Internazionale dei Musei – è un esperimento importante. Il progetto a cura di Georgia Cantoni (Musei Civici di Reggio Emilia), con testi di Chiara Bombardieri (Biblioteca scientifica Carlo Livi) e musica di Nicola Manzan ha l’obiettivo di comunicare il valore del Museo di Storia della Psichiatria e la straordinaria esperienza che custodisce incentrata sulla diversità, sul disagio e sul suo superamento. Tematiche oggi più che mai attuali, mentre subiamo le restrizioni prodotte da una pandemia che, come evidenziato da vari studi, sta provocando non solo morti, ma anche un forte aumento di problematiche quali disturbi alimentari e attacchi di panico, specie tra gli adolescenti.