Nicolas Jaar è sdraiato sul divano, leggermente in ritardo al nostro appuntamento virtuale. Si scusa mille volte, ha avuto un «crazy day». Parto con le domande, ma Nico mi stoppa. Vuole sapere cosa ne penso dell’album, gli spiego che mi ha trascinato in una sorta di bozzolo, e che mi ha colpito in particolare una parte in cui si sentono due voci che parlano in spagnolo. Gli chiedo se sono lui e suo padre (Alfredo, artista-architetto-filmmaker, ndr). Sorride, e mi dice che ho indovinato.
Quando hai iniziato a lavorare a Sirens?
Ho finito Nymphs e Pomegranates all’inizio del 2015. Nymphs doveva essere un album, il seguito di Space Is Only Noise, ma è finito con l’essere un progetto diverso. E poi Pomegranates: l’ho chiamato così a causa del film (è la colonna sonora “alternativa” di Color of Pomegranates, film soviet del 1969, ndr), ma ora penso che avrebbe potuto essere semplicemente un album, perché è meglio senza la parte visuale. Quando li ho finiti, ho pensato che mancasse qualcosa, una parte più cantautorale, una storia.
Una sorta di concept album…
Non so, ma se lo dici tu va bene (ride). Mi ha tenuto occupato circa nove mesi…
Ci sono più parti cantate e più riferimenti alle tue origini rispetto al passato.
Certo, assolutamente! Penso che lentamente abbia definito meglio me stesso. Quando sei giovane vuoi provare delle cose, anche se poi si trasformano in fallimenti. Penso che questo disco abbia un certo livello di “me” che in passato non c’era. Chissà, magari tra qualche anno cambierò idea a riguardo.
Quindi è tutto legato alla tua crescita?
Sì, provo sempre a fare cose che mi sorprendono e mi esaltano. Non voglio mai ripetermi, anche se potrebbe essere redditizio (ride).
In tanti, alla tua età, possono ancora essere definiti promesse, mentre tu ormai sei affermato…
Non è una cosa a cui penso, man. Sono ossessionato dalla musica, faccio musica tutti i giorni, non esco mai di casa. Mi sento incredibilmente fortunato ad avere persone che vogliono sentire quello che faccio. Non voglio fare paragoni, non mi metto al livello di nessun altro, perché tutti noi abbiamo delle basi emozionali diverse. Mi piacciono tanti produttori, contemporanei e del passato. E penso che si possa imparare da tutti, dai loro successi e dai loro fallimenti. È bellissimo: uno prova a produrre qualcosa che va verso una direzione e finisce con un risultato diverso. Anche Sirens è così…
Cosa doveva essere?
Stavo “insegnando” in una classe a Berkeley. In quel periodo pensavo molto alle combinazioni, alla casualità e ai significati simbolici dei numeri. Ma anche alla politica, all’ambiente sociale e alle lotte. Il primo compito che ho assegnato è stato chiedere ai miei studenti di produrre una traccia da tre minuti, nella stessa tonalità e con lo stesso stile ambient. Una volta terminata la produzione, le ho fatte suonare tutte insieme. C’è stata una combinazione di elementi casuali: non sapevo che ritmo potessero avere, ma ero certo sarebbero stati armonici. C’è una seconda lettura, sociale e politica. Cosa succede quando sei persone diversissime mettono la loro arte e loro stessi in una stanza? Cosa succede quando si trovano all’interno di un pattern, come quello creato dalla società? E in quel momento mi sono posto una domanda. Possiamo protestare con la musica elettronica?
Hai trovato una risposta?
No e non lo so ancora. Ecco perché credo che Sirens sia un fallimento. Sono più confuso che mai, non so se la musica elettronica debba essere di protesta, non so se debba essere politica. Ed è necessario trovare una risposta.
Quanto conta la politica nei tuoi lavori?
Penso che sia qualcosa che tocca tutti noi. Dalla crisi dell’immigrazione alla Siria, alla Brexit, a cosa dice Trump sui latinos… Ma non ho un vero messaggio politico. Mi interessa dare la possibilità di ascoltare una moltitudine di voci e imparare qualcosa da tutti. Mentre lavoravo all’album, ascoltavo spesso Four Women di Nina Simone, in cui parla di quattro donne diverse e delle loro storie. Non è un approccio nuovo, anzi. Ma ho pensato di voler fare un tipo di album come questo, partendo dal lato della musica. C’è una traccia punk, poi una reggaeton… Non voglio che siano catalogate in un genere, ma deve essere chiaro che sono diverse tra loro. E che possono suonare tutte insieme. È un album molto personale proprio per questo. Perché suona come tante persone diverse.