Le 14 nuove tracce del quinto album di Nitro sono altrettante opere, NFT di bravissimi crypto-artisti, che sono state esposte nella mostra Outsider Visual Gallery, curata da Mendacia ed Holy Club Digital art gallery, ai Dazi di Milano. Ognuno ha lavorato partendo da un pezzo del disco Outsider e il risultato complessivo è, oltre che potente, coerente, come se ogni quadro-installazione comunicasse in continuità con l’altro. Merito sicuramente dell’identità artistica che Nitro si è costruito canzone dopo canzone, album dopo album, è che quella di un outsider paradossalmente destinato rimanere centrale nel rap game. Perché veri outsider si diventa, come ci racconta Nitro in questa intervista.
Hai voluto mettere i testi nel disco, scelta che oggi fanno in pochi. Perché?
Ci tengo a quello che ho scritto e credo che, con il flow del mio rap che è bello veloce e incastrato, possa non essere compreso tutto al primo ascolto. Se esce il disco di Future me lo ascolto in macchina ma se è l’album di un liricista come Kendrick Lamar, Pusha T o Tyler The Creator mi piace fare il primo ascolto con i testi davanti. E mi piacerebbe che chi ascolta il mio disco lo facesse anche così, accompagnandolo con la lettura dei testi.
Outsider è il titolo dell’album, di una delle canzoni-manifesto ed è un tema presente in ogni traccia.
Sono un outsider rispetto a come pensa la gente e a come la società cataloga le cose. L’outsider per me è chi cerca di levarsi tutti i pregiudizi, di aprire la mente e fare quello che vuole, senza farsi limitare da come potrebbe essere giudicata ogni scelta che fa. Se voglio fare una canzone commerciale perché mi va di fare un pezzo pop, lo posso fare. Se voglio fare un pezzo rap solo con barre, lo faccio. Questo è un outsider. Non lo faccio per convenienza, lo faccio perché mi piace.
Ci sei arrivato col tempo a questa consapevolezza di outsider? Forse è un processo che necessità di esperienza, un ragazzo di vent’anni al primo disco non ne avrebbe gli strumenti.
Ci sono arrivato dopo cinque dischi a questa conclusione, ma è quello che avevo in mente dal primo album. Però come posso farti vedere che sono un outsider, che faccio musica multi-genere con diverse influenze, senza darti prima uno stralcio identitario di che cosa sono? Era necessario Danger, un disco solo rap di dieci anni fa, per farti capire chi sono e come mi posso muovere da lì. Io per primo ho iniziando rappando sulle basi dubstep, che era il ritmo di moda all’epoca, quindi non mi metterei mai a giudicare un ragazzo di vent’anni: magari mi fa un po’ pena quelli più grandi che per svecchiarsi dicono cose da ragazzini.
L’outsider che racconti non deve per forza essere un perdente, un loser, anzi…
Parto dal presupposto che non ci sono vincenti, che ogni vincente arriva da una serie di sconfitte, tutti noi falliamo un sacco prima di riuscire. Non voglio stare dalla parte dei perdenti, ma delle persone escluse. Anche la persona più inclusa del mondo almeno una volta si è sentita esclusa, per quello ho voluto usare il concetto di oustsider, perché tutti almeno una volta nella vita si sono sentiti tagliati fuori.
Anche tu hai vissuto dei fallimenti?
Sì, come tutti: la performance dove non ho dato il massimo, le volte che ho considerato poco il mio lavoro e ho bevuto prima di suonare. Niente è perfetto, ci sarà sempre qualcosa di cui pentirsi, magari un pezzo che ho fatto uscire troppo presto e la gente non era pronta per capirlo e dopo anni è diventato di culto, ma senza avere la giusta ricompensa.
Il tuo outsider sembra avere anche una connotazione politica, penso a quando rappi “Non c’è niente che mi fa più pena di un pezzente che difende i ricchi”…
È una considerazione sociale. Il film Matrix non è di destra né di sinistra, è il racconto di come è la società come loro era il Grande Fratello di 1984 di Orwell o Fahrenheit 451. Non mi piace dire chi è giusto votare, non è un mio compito, però mi piace farti riflettere. I politici cercano di dare tante risposte, io faccio delle domande.
Ho ascoltato quello che hai raccontato a Fedez in una recente puntata di Muschio Selvaggio. Dicevi che quando hai iniziato a fare rap non eri ben visto, ti toccava scappare dai fasci.
Oggi è pieno di fascisti che ascoltano il rap. È cambiato tutto, e va bene. Bisognerebbe solo ricordare che la matrice di questa musica è nera, quindi è incompatibile essere razzisti e ascoltare il rap. Ma ognuno può fare quello che vuole.
Nel disco c’è una nostalgia di fondo per il mondo hip hop dei tuoi inizi, penso a rime come “Difatti al collo noi non avevamo il bling/ma lo stemma del tuo Mercedes!”. Sei nostalgico?
Tantissimo. Lo stemma della Mercedes non voleva mostrare quanti soldi avevi ma quante palle avevi di andare contro il sistema. Non era una gara a chi era più ricco, non c’era esibizione, non era una lotta tra te e i tuoi pari ma tra te e chi aveva tanto più di te. Noi quelle cose le abbiamo fatte senza minacciare nessuno, le abbiamo fatte per un motivo, anche se magari erano stupide.
Oggi c’è una generazione di ventenni pronta a prendersi tutto e a fare piazza pulita di quello che c’era prima. Penso a certe dichiarazioni di Rondodasosa.
È un processo ciclico. Nel 2011 quando siamo arrivati noi di Machete abbiamo rivoluzionato la scena dando importanza dei videoclip e portando l’elettronica nel rap, un nuovo immaginario. Quindi avremmo probabilmente detto quello che dice Rondo, che è uno che rispetto. Quando hai vent’anni è giusto pensare così. Io sono più grande e purtroppo sono un po’ più disilluso, ma gli auguro tutto il successo e di continuare sulla strada che anche noi abbiamo contribuito a spianare.
Un outsider come te, con tutto quello che dici nel disco – sulla dittatura del marketing, sulle scelte delle case discografiche – forse questo album se lo sarebbe potuto auto produrre, no?
Certo, con questo disco ho avuto un cambio contrattuale e sono più indipendente. Non sono più un artista in casting, sono in licenza e prendo delle decisioni autonome, sempre ascoltando i consigli degli altri.
Hai sofferto in passato la mancanza di libertà?
No, ho sofferto solo la pressione di dover fare tanta musica in poco tempo. Essendomi imposto come quello che dice la cosa che non può dire, che parla fuori dai denti, non mi è stato mai chiesto di limitarmi: fa parte del mio personaggio non avere limiti.
C’è una parte più intima, introspettiva in questo disco.
Guarda, a sto giro mi è venuto più difficile fare i banger che le canzoni conscious. Sarà una questione d’eta, a trent’anni diventi più riflessivo.
È un buon momento storico per fare musica?
Direi di sì, paradossalmente dopo il 2020, dopo il Covid, la musica ha acquistato più senso, anche testuale. Le persone stanno male ed è nei momenti di malessere che la musica è irrinunciabile.
Male in che senso?
La gente è ancora scossa da quello che è successo nel 2020. Va male perché non sappiamo più valorizzare i rapporti tra le persone, ne abbiamo troppi, facciamo fatica a distinguere quelli veri da quelli finti. E poi siamo la prima generazione che non sa se avrà davvero un futuro, se vale la pena fare qualcosa dal momento che magari tra 50 anni la razza umana si estinguerà. Quindi oggi è il momento migliore per fare musica.
Dici la tua sul politicamente corretto: “Noi pensiamo all’arte, voi piazzate gli asterischi”. È una tua battaglia culturale?
Faccio fatica ad associare l’arte alla non libertà. Non concepisco un arte che censura per non offendere nessuno. Allora non dovremmo più rappresentare niente di brutto, anche se esiste e pulsa più del bello… purtroppo.
Musicalmente hai sperimentato nuovi suoni.
Sì, un mix di drill e dancehall in chiave molto oscura è stata una grande ispirazione. È una grill veloce e ritmata. È un disco che vuole colpire dentro, e con i testi e la musica spero di esserci riuscito.
Non sembri avere l’ossessione, molto diffusa, di piacere a tutti.
Cerco sempre di ricordarmi che quando ho iniziato a fare questa musica era per non piacere a un certo tipo di persone.
Tipo chi?
Le persone ordinarie e superficiali.
In Control parli di una Realtà 4.0, cosa è?
Dopo l’età del bronzo, del ferro e dell’oro questa è l’età dei soldi. In futuro potremmo andare a prendere le nostre risorse nello spazio, e magari non avremo più il problema dei soldi.
Parli di futuro o di fantascienza?
Mi piace la fantascienza profetica, Asimov, Cronenberg, i film come Stargate dove l’essere umano vive nel rispetto sia del passato che del futuro. Anche la mia musica è così: cerca di essere musica del futuro prendendo molto dal passato.