Non dischi che vendano, ma che non rompano la minch*a: un’intervista a The Winstons | Rolling Stone Italia
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Non dischi che vendano, ma che non rompano la minch*a: un’intervista a The Winstons

È uscito ieri 'Third', terzo disco del power trio composto da Lino Gitto, Roberto Dell’Era ed Enrico Gabrielli. Abbiamo incontrato gli ultimi due per parlare degli autobus circolari, dei regali da fare alle maestre dei figli, e anche di musica (nuova, da rivoluzione)

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I “fratelli” Winstons. Da sinistra, Lino Gitto, Roberto Dell’Era, Enrico Gabrielli

Foto press

Personalmente non ho mai amato la definizione di “supergruppo”, ovvero l’etichetta affibiata d’ufficio a quelle band che millantano al proprio interno membri già noti presso il grande pubblico grazie a fortunate esperienze precedenti: è un termine che pone l’accento sulle individualità mettendo autenticamente in secondo piano l’output frutto dello sforzo collettivo, il motivo cioè per cui uno dovrebbe ascoltare il tal gruppo.

 

Storicamente poi non è che “supergruppo” sia stato sinonimo di musica di qualità. Certo, ci sono casi in cui le scintille tra le diverse personalità e l’inaspettato sposalizio di stilemi e lessici differenti generano miracolosi equilibri che sfociano in grande musica. Penso ai primi incredibili Traffic con Steve Winwood, Dave Mason, Jim Capaldi, Chris Wood e Rich Grech (gente che singolarmente aveva suonato con gli Stones, i Beatles, John Mayall, Jimi Hendrix, Muddy Waters, B.B. King, solo per dirne alcuni), ai Cream, a Bloomfield, Kooper e Stills.

 

Ma nella maggior parte dei casi la battaglia degli ego tiranneggianti ha la meglio e il risultato finisce per assomigliare a una riunione condominiale dopo che l’amministratore ha dettagliato le spese di manutenzione straordinaria. E qui penso agli Audioslave, ai Velvet Revolver, agli Zwan di Billy Corgan, Matt Sweeney, David Pajo, Paz Lechantin e Jimmy Chamberlin (durati più o meno quanto Frazier sul ring contro Mike Tyson), tutte band che non hanno lasciato un lascito esattamente “eterno”.

 

Forse è proprio per colpa dello strombazzamento del termine “supergruppo” per definirli che mi ero perso i primi due dischi dei The Winstons, trio meneghino di musicisti dall’indubbio talento e dal curriculum assolutamente prestigioso: Calibro 35, Mariposa, Afterhours, A Toys Orchestra e Mondo Cane di Mike Patton, PJ Harvey, Iggy Pop, Mick Harvey solo per citare alcuni degli artisti con cui i ragazzi hanno collaborato. Questo e forse il fatto che ogni volta che venivano nominati si dovevano necessariamente nominare i loro numi tutelari: Gong, Soft Machine, Camel. In Italia? Ma che coraggio hanno? Chi si credono di essere questi?

 

In realtà uno di loro, Dell’Era, lo avevo incontrato nel 2006 al Goganga, un locale dietro casa mia. Alto, allampanato, cool, vestito come figurante speciale in Boogie Nights, era appena tornato dall’Inghilterra e mi diceva di voler suonare e mettere in piedi diversi progetti musicali. Io sono un mediocre chitarrista noise, ricordo visivamente (allora) una versione di Robert Fripp comprata su Temu, un ragionier Filini che invece di organizzare tornei di calcio scapoli-ammogliati emula male i Fugazi e i Dinosaur Jr., ma Dell’Era non lo sa e mi sembra uno divertente e pure bravo.

 

Ed evidentemente lo è visto che di li a poco Agnelli lo convoca e lui diventa meritatamente il bassista degli Afterhours. Io invece continuo ad andare al Goganga e a bere i miei Americani, e intanto nascono i Winstons e io presuntuosamente non me li cago. Fino a qualche giorno fa, quando Rolling Stone mi propone di intervistarli. Mi sembra una buona occasione per fare ammenda e familiarizzare con i loro dischi: il primo omonimo del 2015, Smith del 2019 e l’ultimo, che è uscito ieri, Third.

 

Lo trovo francamente bellissimo, il loro miglior lavoro, dove l’amore per la scuola di Canterbury sbandierato in passato è si presente ma stemperato da un pop psichedelico di matrice Beatlesiana (parlo dei Fab Four più interessanti, quelli andati meravigliosamente alle cozze con Revolver e Sgt. Peppers). È anche il loro album più accessibile nonostante le frequenti divagazioni sperimentali, come l’incredibile Break The Seal, che apre le danze e dura ben 1230. Una dichiarazione d’intenti che sembra voler ribadire, se mai ce ne fosse bisogno, la lontananza del trio di polistrumentisti da qualunque seduzione di natura radiofonica usa e getta.

 

Mentre ascolto, oltre a pensare quanto sono rincoglionito a scoprire questa musica solo oggi, mi meraviglio che in Italia questi tre siano riusciti a fare non solo tre dischi di questa roba, ma andare anche in tour e ottenere consensi in tutto lo stivale e all’estero. Come hanno fatto? Provano a spiegarmelo Enrico e Roberto (Lino era impegnato a curarsi un pernicioso mal di denti) in una chiacchierata nella quale la loro bellissima musica è solo la miccia corta che detona una serie di scatole cinesi della divagazione su Milano, la linea 90/91, l’importanza di dove si suona, l’amicizia e il dramma contemporaneo della genitorialità. Prego.

 

Il vostro disco è bellissimo. Mi sembra ancora più bello dei precedenti, una bomba. Siete contenti?
Dell’Era: Siamo parecchio curiosi di sapere che reazioni susciterà. È molto diverso dagli altri, con i quali condivide giusto un non-metodo. È stato quasi tutto registrato allo Studio Back di Milano, quello di proprietà di Toto Cutugno. Suonando qui assieme a Carlo Giardina e Pietro Caramelli sapevamo che avrebbe avuto un sound diverso, senza tempo.

 

Gabrielli: I luoghi dove abbiamo provato hanno determinato un po’ i dischi usciti, oltre al fatto che sono cambiate le persone che li hanno fatti. Nei 5 anni che intercorrono tra l’ultimo disco e questo c’è stata una pandemia in mezzo. L’ultimo ricordo vivido che ho riguarda il video che abbiamo fatto prima di Never Never Never (uscito quattro mesi fa, ndr), Blue Traffic Lights. Una roba da arresto fatta di notte a Sesto San Giovanni con una Volvo senza targa, senza cinture, senza specchietto retrovisore destro e piena di fumogeni con un furgone aperto che ci seguiva, gli operatori aggrappati alla cazzo di cane. Miracolosamente riuscimmo a non essere fermati dalla stradale. Era il dicembre 2019. Poi c’è stata la pandemia e si è fermato tutto. Ma il nostro rapporto no, perché i Winstons nascono prima di tutto come tre persone legate da una grande amicizia prima ancora che un gruppo di musicisti.

 

Dell’Era: Una cosa che non è tipica, perché ognuno di noi suona in diversi progetti e capita molto di rado che ci si veda al di là del fare musica. Ma la nostra è proprio una brotherhood.

 

Quando vi siete incontrati per fare musica la prima volta, che finalità avevate? Come nasce l’idea di questa band?
Dell’Era: Io feci un’audizione per gli Afterhours, che si presero un paio di settimane per decidere se ero la persona giusta. Erano i giorni che frequentavo il Goganga. Manuel mi chiama e mi dice “oh, a quanto pare vogliono tutti te”. Io accetto e inizio a provare con gli After. Un giorno Manuel arriva alle prove raggiante ed esclama “oh, ha detto di si! Si unisce alla band!”. Ma chi, faccio io. “Eh un genio, uno fantastico, Enrico Gabrielli”. Io ero tornato da poco dall’Inghilterra e non conoscevo nessuno, non sapevo chi fosse. Sta di fatto che di lì a pochi giorni iniziamo a provare in vista della data zero in un locale a Bergamo che si chiamava casualmente Zero. Scendo dal furgone e nel parcheggio mi si para davanti questo tipo con i capelli lunghi e una maglietta super psichedelica. Io senza pensarci due volte gli faccio, così dal nulla: oh io e te dovremmo fare un disco insieme, una roba alla Soft Machine! Lui disorientato mi dice: ma tu come ti chiami? Io: Dell’Era, e tu? Gabrielli, fa lui. Era il suo primo giorno di prove, il giorno della data zero. Poi il disco alla Soft Machine sperimentale l’abbiamo fatto, una cosa abbastanza incredibile.

 

Gabrielli: Sì, io mi ricordo anche che notando il tuo abbigliamento dissi: ma cazzo tu sei vestito proprio anni Sessanta! E tu rispondesti: eh sì, io sono una persona piena di cliché. Una grande frase a cui penso ancora oggi.

 

Ma la data zero come andò?
Gabrielli: Be, male. Manuel mi diede istruzioni vaghe: vai, entri tu e suoni a caso il sassofono. Io per tutta risposta, svenni. Non avevo minimamente preso in considerazione la pressione di un pubblico così grande, il palco… io facevo cose più piccole, suonavo nei Mariposa. Poi mi ripigliai, bevetti un succo di frutta e ripresi a suonare: nessuno si era accorto di nulla.

 

Parlando di pressione: voi Winstons avete mai subito una certa pressione editoriale?
Gabrielli: Affatto. Ogni disco è stata una cosa a sé, una rivoluzione, abbiamo sempre cambiato tutto. Come dico spesso, noi tre presi singolarmente siamo persone diversissime ma molto responsabili, affidabili e organizzate: Roby suona in mille altre realtà, suonerà anche con i Calibro, faremo due concerti morriconiani a Londra e a Berlino. Io anche ho mille cose in ballo, diversissime tra loro. Ma quando noi tre stiamo insieme smettiamo di essere noi e diventiamo dei character, dei personaggi ilari. Il nostro cervello si fonde e diventa uno con problematiche enormi, diventiamo un po’ più scemi… più spensierati.

 

E non è bello? Non è un lusso essere liberi da qualunque pressione economica
Gabrielli: Be ma noi in realtà non abbiamo mai generato grandi economie, quindi nessuna grande economia ci sta sulle spalle.

 

Dell’Era: Se Maometto non va alla montagna, la montagna se ne sta dove cazzo sta e Maometto torna a casa sereno.

 

Vorrei parlare di due pezzi del disco molto lunghi: l’opening act Break The Seal e Vinegar Way, che dura oltre undici minuti. Amo i pezzi lunghi. È un po’ come quando vai in libreria e vedi It di Stephen King. Un monumento che sembra dirti: ti sfido, merdaccia! Scommetto che non ce l’hai il coraggio di tirarmi su e leggermi, vero? No, tu preferisci rifugiarti in I Love Shopping di Sophie Kinsella, eh
Dell’Era: Ahahaha! Be, Vinegar Way è stato addirittura alle session del nostro primo disco, registrato nel Bucknghamshire nello studio di Luke Oldfield (il figlio di Mike, ndr). C’è una parte scritta e poi un’improvvisazione totale. Noi abbiamo chiesto: ma c’è ancora nastro? S, finché c’è nastro voi andate.

 

Break The Seal non sapevamo dove metterlo una volta finito: è proprio una dichiarazione di intenti, quella. Abbiamo detto: lo piazziamo lì e come va, va. Quel brano è stato originato da due session distinte. Per farla breve, noi avremmo dovuto fare una tre giorni al Forum a Roma, lo Studio di Ennio Morricone, un luogo magico e davvero prestigioso: una giornata sarebbe stata per noi, le altre due avrebbero dovuto essere jam session spontanee con noi tre come center piece. Il giorno prima però Enrico ci dice che non può venire perché ha i bimbi malati e allora io e Lino ci sentiamo le mille cosina che ci manda: frammenti e spunti registrati a casa con registratore vocale e su WhatsApp. Noi ne scegliamo quattro o cinque e andiamo poi la a farci aiutare dai musicisti che sono già là, Beppe Scardino, sassofonista jazz e Andrea Pesce al piano, entrambi bravissimi. In unora assembliamo tutto e poi una volta a casa riprendiamo dove abbiamo finito con Enrico che canta e integra le sue parti e alla fine si decide di mettere un punto e dire fine. Sarebbe tranquillamente potuto durare mezz‘ora.

 

Gabrielli: Questo disco è nato in un periodo molto cupo. Avevamo un sacco di cazzi personali, relazionali, ma noi abbiamo preso questa cupezza e l’abbiamo canalizzata in pezzi che poi abbiamo fatto fuori. Il primo impatto credo sia quello di un disco più leggero. Il disco nero l’abbiamo fatto e lasciato lì, è rimasto il disco bianco. Non so definire bene i nostri riferimenti musicali… c’è un pezzo, The Voice For Peace, che è un riferimento a un progetto utopico di John Lennon. Vinegar Way è un detto siciliano: prendere la via dell’aceto significa andarsene a male. Break The Seal è una sorta di vicenda al contrario, una specie di Benjamin Button dove il protagonista nasce vecchio e alla fine finisce in un embrione, un ritorno al niente. Never Never Neversono tre mai, siamo noi, un riferimento ai tre del disco…

 

Ma sbaglio o il video di Never Never Never è ispirato a What We Do In The Shadows, se fosse stato a Milano? C’è anche la filovia 90/91, l’unica vera circle line italiana!
Gabrielli: è vero, assolutamente. Andy Sandberg è bravissimo. Roby però non ha un gran rapporto col filobus 90/91… Roby, ce ne vuoi parlare?

 

Dell’Era: Non so, non l’ho mai raccontata pubblicamente.

 

Scoop! Ormai devo sapere.
Dell’Era: Ok. Io ci dovrei scrivere una canzone su questa cosa. Una sera di dicembre pioveva a dirotto, ero in bici con mia figlia che aveva pure la febbre. Passa la 90 (eravamo andati a cena dai nonni) e io salgo caricando su la bici. C’erano tre passeggeri oltre a noi in tutto il filobus. Il conducente mi dice: “non si può caricare la bici sul bus”. Io rispondo pacatamente: “guardi, il bus è vuoto, piove a dirotto, se mi fa fare sette fermate ed evito che la bimba si infradici mi fa un favore”. Gli altri tre passeggeri intervengono: “ma si dài, sia gentile!”, “di che parliamo! Dài che c’è una bambina con la febbre”. Ma il conducente è irremovibile. Allora io me ne esco con quella che il mio giro di amici definisce una classica “dellerata” e gli dico: “ma lei lo sa che la flessibilità nel mondo del lavoro rende l’uomo più incline alla scalata sociale e a un ritorno karmico futuro inaspettato?”

 

A questo punto al conducente ATM è esplosa la testa come in Scanners, giusto
Dell’Era: Sì! Voleva alzare le mani ma si è limitato a dire: “se non scende subito chiamo la sicurezza ATM”. E lì io ho sbagliato io e l’ho pagata cara e ho detto,faccia pure ma secondo me umanamente fa una figura di merda agghiacciante”. Dopo dieci minuti sono arrivati gli ufficiali dell’ATM, hanno constatato che non c’erano spargimenti di sangue. Ci dicono che effettivamente il conducente ha l’autorità di farmi scendere, sono molto affabili e quasi si vogliono scusare, nel frattempo si era creata una fila di 90 dietro. Vabbè, baci e abbracci e ci salutiamo.

 

Un anno e mezzo dopo, alle 8 del mattino mi suonano alla porta. Ero andato a dormire alle 6, gli apro letteralmente sfatto. Dell’Era? Chiedono. Sì. Guardi c’è la causa legale tra poco inizia il processo. Eh? Ovviamente io avevo completamente rimosso l’evento.

 

Per testare la simpatia io dico un’altra dellerata: “ragazzi sicuramente sarà un caso di omonimia, io ve lo dico, poi finisce come Enzo Tortora, in galera mi ammalo, ho famiglia, creo dispiacere. No, dài. Finiamola qua e amici come prima raga, dài. Fatemi vedere… Viene fuori che era per quella cosa là, che ha messo in moto la macchina giudiziaria. Tecnicamente, quei ventun minuti in cui ho creato interruzione di pubblico servizio, se avessi avuto un precedente penale, mi sarebbero costati fino a un anno e mezzo di carcere.

 

Ma scusate, altro che canzone! Qui bisogna fare un doppio album: un disco 90 e un altro 91! Un concept album circolare! Comunque poi si è risolto tutto, giusto?
Dell’Era: Sì, a parte che non ho avuto il passaporto per tre anni. Comunque tutto bene.

 

Devo dire che a questo punto mi dispiace quasi un po’ riprendere a parlare del disco, ma facciamolo dài, siamo qui. Voi siete polistrumentisti, come avviene la distribuzione dei ruoli nel vostro processo compositivo?
Gabrielli: Lino, che tecnicamente è un batterista, molto spesso è quello che ha le idee principali per la maggior parte delle canzoni “chiuse”, quelle diciamo più “singolabili”. Lui a casa ha un Fender Rhodes che tiene sempre spento e suona nel silenzio questo vecchio piano elettrico scalcinato mentre la canzone gli si forma in testa con la tv accesa davanti. La quale ha lo schermo distrutto perché devi sapere che Lino è l’ultimo vero grande bohémien. Mi spiace non ci sia, ma se fosse qui ora lui starebbe in silenzio a guardarti fisso, senza dire una parola. Roby suona il basso e fa tantissime chitarre, ha avuto un innamoramento lungo con la 12 corde. Io invece mi occupo di interpretare le idee di Lino sulle tastiere. Il Rhodes, il nostro strumento principale live, in questo disco è sostituito dal piano. E al Back Studio il piano che abbiamo usato si dice sia stato quello di Gino Paoli dal 71 fino ai primi anni Ottanta, quando lo vendette a Toto Cutugno. Lì ci hanno registrato Celentano, Battiato, Paoli, i Matia Bazar… è un posto che ha una storia importante e un carattere sonoro che si sente anche nel disco.

 

A proposito di strumenti, voi usate attrezzatura vintage?
Gabrielli: Guarda, ti dico questo: io non compro più un cazzo. Ho subito sette furti da quando suono, sette. Il primo nei camerini a Napoli mi fecero un sax contralto, il secondo a Roma tutte le mie tastiere, forzando il furgone: il clavinet, il rohodes. Mi hanno rubato il dan bau, un liuto vietnamita monocorde a cui tenevo molto… Me l’hanno rubato a Rubeux, appunto, in Francia, assieme al seggiolone Foppapedretti.

 

Dell’Era: La famosa gara ParigiRubeux, che quando ci arrivi ti fottono la macchina.

 

Io sono terrorizzato dai furti… parliamo d’altro va bene? Ho 49 anni e due figli piccoli, e così faccio molta fatica ad ascoltare musica nuova. Voi ne ascoltate?
Gabrielli: Guarda, non c’è niente da fare, quando cominci ad avere l’età che abbiamo noi (io ne faccio 48 tra pochi giorni) entri in un’altra fase dell’osservazione della vita. Ma poi ho due figli piccoli anche io, quando cazzo ho il tempo di ascoltare della musica? Quella che ascolti, la ascolti per confortare te stesso, quindi ti rifugi in quella che già conosci, il nuovo ti interessa meno. Comunque io sto lavorando con Mace, lui fa parte della nostra generazione ma non ha figli, ha solo un gatto, fa il produttore ed entra in contatto con gente giovane e mi gira un po’ di roba nuova. Posso dire che nell’ambient jazz ci sono cose interessanti come Nala Sinephro, che ha fatto un disco bellissimo… alla fine però mi rendo conto che ascolto sempre le stesse robe… Ah poi c’erano sti due fratelli che avevano fatto cose fighissime poi sono un po’ spariti, i Lemon Twigs. Il loro penultimo disco era fighissimo.

 

Se doveste fare una colonna sonora per un film per quale regista vorreste lavorare?
Dell’Era: Credo Gaspar Noè, anche se ultimamente si è un po’ defilato, mi sembra.

 

Gabrielli: Il mio sogno è fare una serie sulla comune che ruotava attorno a David Allen e Robert Wyatt in Francia negli anni Settanta con LSD, morti ipotetiche, religioni misticoidi, indigenza, politica. Quello delle comuni musicali è un contesto molto molto interessante.

 

Farete un altro disco a breve o dobbiamo aspettare altri cinque anni?
Dell’Era: Guarda, abbiamo un botto di materiale avanzato da queste session…

 

Gabrielli: Ora andiamo in tour, poi magari ci pensiamo. Avevamo tantissimo materiale ma Lino una volte finite le registrazioni disse: “io voglio fare un disco che non rompa la minchia!”. Questo in realtà è il messaggio importante. Non è importante fare un disco che venda, ma un disco che non rompa la minchia.

 

Direi che avete raggiunto lo scopo. Soprattutto per chi di cazzi ne ha già tanti come noi genitori, che passiamo le giornate sulla chat della classe e a raccogliere i soldi per fare il regalo alle maestre. Ma che cosa dobbiamo regalare, una jacuzzi??!?
Gabrielli: Bravo! Anche perché alle maestre del nostro regalo non gliene frega mai un cazzo! Ti dico una cosa: i bambini non sono mai il problema. Se ci fossimo solo noi e i bambini, sarebbe fantastico. Il problema sono i rapporti con gli adulti quando hai i bambini, il sistemafamiglia e tutto quello che comporta. Ecco, credo che questo sia il cuore dell’intervista.

 

È un po come la musica dei Winstons: sai come inizia ma non hai la minima idea di dove andrà a parare.

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