Oddio, ma che gli è successo a Piotta? | Rolling Stone Italia
Un giorno di pioggia a Roma

Oddio, ma che gli è successo a Piotta?

La domanda del titolo è la reazione che Tommaso si aspetta da chi conosce solo i suoi pezzi divertenti e ascolterà ‘Na notte infame’, concept dedicato al fratello morto due anni fa e in fondo anche alla vecchia controcultura. Da supercafone a supermalinconico: intervista a un rapper old school che ora è anche scrittore

Oddio, ma che gli è successo a Piotta?

Piotta

Foto: Alfredo Villa

«Chi non mi segue abitualmente sentirà questo disco e penserà: oddio ma che gli è successo a questo?». Sorride in una maniera al tempo stesso molto serena e malinconica, Piotta, nel momento in cui ci dice questa frase. Siamo qui per parlare di ‘Na notte infame, che non è solo il suo undicesimo album – non male come numero per essere una meteora, una one hit wonder supercafona – ma a breve distanza sarà anche un libro, edito da La Nave di Teseo.

«Inizialmente il libro era solo una cosa che stavo facendo per me, per fissare una serie di pensieri e di ricordi. Poi però chi ne leggeva degli stralci mi diceva “Aoh, ma lo sai che è bello…?” e a un certo punto hanno iniziato a dire la stessa cosa pure persone che i libri li leggono per professione. Da lì è nata l’idea di farne un vero e proprio libro da far uscire. Sono arrivato alla fine ad un volume di 250 pagine. Chiaro, quantità non è automaticamente qualità, ma…».

In realtà l’operazione ‘Na notte infame non è e non può essere qualcosa di normale e nemmeno qualcosa di semplice, per Tommaso Zanello in arte Piotta. Per nulla. Non solo e non tanto per il fatto di essere sia disco che libro. No, il punto è un altro. Nasce tutto infatti da un fatto drammatico, da un lutto: i pensieri e i ricordi a cui ha fatto riferimento riguardano infatti la scomparsa del fratello Fabio, morto nel 2022, a soli 59 anni. «Lui c’è nel disco, anzi, di più, è proprio un disco anche suo, praticamente ne è un co-autore: molti testi sono stati costruiti in modo tale da essere sostanzialmente un prodotto a quattro mani. Fabio è presente con le parole, è presente con rime che aveva scritto e che io ho usato, è presente addirittura con la sua voce, in una delle tracce. Inizialmente non pensavo che sarei arrivato a tanto. L’idea originaria era di fare una canzone con questo modus operandi. Poi però sono diventate due. Poi tre. Alla fine ho capito che c’era abbastanza materiale per costruire tutto un disco: un concept album sul rapporto tra due fratelli, molto legati come possono esserli i fratelli pur con una decina d’anni di differenza tra loro».

Che poi è lo stesso filo rosso che dà vita al libro: «Lì in modo più specifico si va a fotografare il periodo tra il 1975 e il 1995. Vent’anni di storia di un rapporto appunto tra fratelli: a volte molto distanti, a volte incredibilmente vicini. Anni in cui si succedono il terrorismo, la droga, gli scontri di piazza, le ideologie, per poi arrivare a quelli del riflusso anni ’80, che sono quelli in cui inizio ad inserirmi io nel racconto, da bambino, da ragazzino. Dopodiché arrivano gli anni ’90: in cui io inizio a fare le cose mie, però proprio in quei centri sociali e situazioni occupate che lui aveva contribuito a far nascere. Solo che io ovviamente ero meno politicizzato: c’è ancora l’onda lunga della nausea verso l’eccesso di ideologie e del non voler più infilarsi in situazioni di scontri continui. Scontri che per me erano un ricordo cupo, molto ansiogeno. Erano uno stare a casa e sperare, tutti insieme, che mio fratello tornasse sano e salvo, che non ci fosse finito di mezzo, che non gli fosse successo nulla di drammatico».

Piotta - Lode a Dio

«Mio fratello era conosciuto soprattutto come saggista: ha dalla sua la pubblicazione di oltre una ventina di libri in tal senso. Avevo però anche un lato più intimo, personale, che ogni tanto tirava fuori. Raramente, ma lo faceva. Lato che si è manifestato senza filtri in un libro di poesie bellissimo, ‘Na botta infame».

Già. Un libro molto intenso e crudo, che parla degli scontri del ’77, dell’eroina degli anni ’80, dell’esplosione dei rap e dei rave techno nei circuiti alternativi… «Inizialmente pensavo che contenesse delle esagerazioni, che molte cose fossero un po’ una licenza letteraria. Solo dopo ho capito invece che era tutta vita vissuta, episodi reali. Del resto lui era incredibilmente riservato. Ci raccontava molto poco». Si è trattato quindi di riannodare dei fili? «Esattamente. Tant’è che tutti gli ospiti del disco, tranne Federico Zampaglione dei Tiromancino, avevano qualcosa a che fare con Fabio, e non è una scelta casuale. A partire dagli Assalti Frontali: con Luca aveva diviso molti momenti politici, con Paolo addirittura erano compagni di università, studiavano spessissimo assieme, tant’è che quando Paolo è venuto a trovarmi ha riconosciuto anche molti libri, “Guarda qua, questa è la caricatura che Fabio m’aveva fatto mentre ci stavamo preparando all’esame”, cose così. Poi c’è Ginko della Villa Ada Posse, e Villa Ada è stato un posto importantissimo sia per me che per lui».

C’è pure Primo Brown, nel disco. Il compianto MC dei Cor Veleno, scomparso nel 2016. «Voglio sempre portarmelo dietro nei miei dischi, Primo. Deve esserci sempre. In Interno 7 c’era in Un’estate ed è finito; qui in Ognuno con un sé». Che è un brano vecchio vent’anni e passa, era uscito infatti nell’album Democrazia del microfono, anno 2000. Ed è, soprattutto, un brano dal testo bellissimo. «Vero? Ho sempre pensato che quella traccia non avesse ricevuto l’attenzione che meritava. D’altro canto era ancora la fase in cui le tracce serie nei miei dischi, quelle introspettive, erano non più di una o due a disco. Rispetto alla versione originale ho giusto ricantato il ritornello, il resto l’ho lasciato intatto, anche in segno di correttezza verso Primo le cui parti ovviamente sono quelle originali. Mi ha fatto impressione riascoltare questo brano, sai? Tolte alcune parti, tipo “Piotta, gli occhi della tigre” che oggi ovviamente non rifarei, figurati se dico oggi di avere gli occhi della tigre, per il resto mi sono reso conto che era qualcosa che dentro ‘Na notte infame ci stava alla perfezione, perfettamente coerente col tipo di racconto che volevo fare».

Ognuno con un sè (2024 vrs)

Ma chi è Piotta oggi? Che tipo di rapper è? «È tante cose. E come rapper, anche quando punta ad essere un po’ hardcore, un po’ da battaglia, cosa che peraltro da tempo faccio meno preferendo invece un approccio più razionale, pure nelle rime più crude e apparentemente ignoranti butta lì sempre delle citazioni. Citazioni che sono legate soprattutto a un certo tipo di controcultura romana. Quella ad esempio di Victor Cavallo, Remo Remotti, Amelia Rosselli… Ma ad esempio quando dico “Questo è il suono di Roma” il riferimento è Lory D e la grande stagione dei rave. C’è anche quello. È stata una parte fondamentale della controcultura di Roma anche quella, la controcultura che mio fratello ha attraversato così in profondità».

Uno sguardo insomma che si è fatto molto cronologicamente ampio, spesso retrospettivo. Sia dal punto di vista artistico che personale. «Infatti, sarò sincero, di dischi ne compro ancora molti ma sono per lo più ristampe, o cose del passato che per qualche motivo mi erano sfuggite. Un tempo ero io che segnalavo le cose nuove alla gente, ora è spesso il contrario. Ora sono io a dire: “Questo, dici? E chi è? Mai sentito. Famme un po’ sentire com’è…”». Sorride, per poi aggiungere: «Una cosa è cambiata, rispetto ad allora». Cosa? «Rispetto a quando avevo vent’anni io, oggi è molto più facile andare dai tuoi genitori e dire: voglio vivere di musica, voglio vivere col rap. Se sono un minimo sgamati e sanno guardarsi attorno, hanno capito che è una cosa che può funzionare. Ma chi ha vent’anni oggi per sua sfortuna non ha e non potrà mai avere quello che ha avuto la nostra generazione: la sensazione di avere tutta una serie di praterie libere di fronte a sé. Noi potevamo solo sognare che il rap diventasse una cosa importante in Italia – e lo è diventato, anzi, oggi possiamo dirlo: lo è diventato molto più di quanto pensassimo – però chi si butta oggi nella cosa ha già tutta una serie di parametri, di aspettative e di pressioni con cui lottare. Noi potevamo buttarci, e se fallivamo… beh, ci pareva normale: d’altro canto mica speravi davvero di essere così fortunato di riuscire a campare col rap. Cioè, a 17 anni ovviamente sei nell’egotrip di diventare una superstar, ci mancherebbe, ok. Ma dopo un po’, quando capisci che non ci arrivi a fine mese, ti metti l’anima in pace: non era un problema, era normale accadesse. Potevamo insomma divertirci, potevamo esprimerci, senza pressioni».

Oggi invece… «Oggi mi capita di incontrare dei ragazzi di 20, 22 anni che dopo un disco andato non secondo le aspettative ti dicono “Ho fallito”. Ma hai fallito cosa? A 22 anni? Hai tutta la vita davanti, maledizione… Oggi mi tocca fare il motivatore!». Una pausa, e poi una chiosa importante: «Quanto sento cose tipo “Ok, ecco il disco, è forte, guarda che nomi ci sono come feat”, impazzisco. I featuring non dovrebbero essere una collezione di nomi, ma delle scelte meditate, profonde, che devono essere coerenti con quello che vuoi esprimere e raccontare. Invece c’è l’ansia di prestazione anche nel mettere su le collaborazioni. Che senso ha? Quanto pressione inutile ci si mette addosso? Per cosa, poi? In questo modo si dimentica ciò che è la musica prima di tutto: qualcosa che ti fa star bene psicofisicamente, qualcosa che mette insieme le persone in maniera spontanea, disinteressata. E non qualcosa che ti fa sentire, appena ventenne, uno che ha fallito».

Foto: Alfredo Villa

Non deve essere stato semplice, scrivere, comporre, incidere ‘Na notte infame. Non può esserlo, col fardello di creare qualcosa praticamente assieme al proprio fratello maggiore che però non c’è più. C’è stata la paura di non farcela, di essersi preso un impegno emotivamente troppo complesso e difficile da sostenere? «La verità? Io non avevo paura di non finirlo, questo disco: no, avevo semmai la paura di finirlo. E lo stesso vale per il libro. Ora che ci sono, sono pronti, esistono, sono davanti a me, posso insomma in qualche modo toccarli con mano, devo arrendermi di nuovo al fatto che è successo quello che è successo: e che quindi Fabio non c’è più».

«Ma è una operazione necessaria. Così necessaria che il tour che porterò dal vivo nei prossimi mesi sarà tutto incentrato su ‘Na botta infame, di cui rifarò tutte le tracce. Ci sarà poi qualche aggiunta, tipo una cover di Rimmel di De Gregori perché è una canzone a cui sia io che Fabio eravamo legati, ma lo dico subito: non ci sarà Supercafone, non ci sarà La mossa del giaguaro, non ci sarà Troppo avanti. Quello è un altro Piotta. Un altro mood. Un mood che io adoro, eh, e che di sicuro riproporrò in futuro… Ma ora no. Ora non è il momento. Ci sarà il rap. Ma non ci sarà il party».

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