Ecco che arriva passeggiando a Westchester, un quartiere di Los Angeles a pochi isolati dall’aeroporto LAX. Ha in mano un caffè freddo, un amico al fianco, una canzone di Whitney Houston per la testa. «I’m saving all my love for youuu», canticchia senza sforzo e con un sorriso dolce, un gigante gentile di un metro e novanta. Appena mi raggiunge si presenta: «Ciao, sono Omar».
Ci porta in una casa come tante, una di quelle dove gli studenti del college organizzano feste, coi muri pieni di strani scarabocchi, controller Xbox ovunque, la portiera di un’auto poggiata sul bancone della cucina. Veste casual: pantaloni della tuta grigi, una maglia di flanella scura sopra una canottiera bianca, ai piedi un paio di Birkenstock. Sono quasi le 11 del mattino: nel giro di un paio d’ore girerà il video di Tamagotchi, l’ultimo singolo che ha pubblicato prima dell’8 aprile, data d’uscita del disco che considera il suo capolavoro, Ivory.
Con quel ritmo saltellante alla Neptunes, il testo sensuale in due lingue e un ritornello super cantabile (“You with somebody, or are you cool? / I want your body, you want me too”), Tamagotchi è un esempio perfetto delle qualità che hanno reso Apollo, 24 anni, uno degli artisti più interessanti della sua generazione. È un musicista autodidatta, messicano-americano, con un’impressionante estensione vocale. Ha ottenuto successo d’improvviso quando nel 2017 ha pubblicato su Spotify un pezzo r&b eccitante, nello stile di D’Angelo, intitolato Ugotme, conquistando un pubblico globale grazie al potere delle playlist. Da allora ha collaborato con chiunque, dal re del funk Bootsy Collins ad Albert Hammond Jr. degli Strokes, fino alla star del rap spagnolo C. Tangana (con cui ha conquistato una nomination ai Latin Grammy). Si è anche guadagnato paragoni con Prince e Frank Ocean che, incredibilmente, non sembrano esagerati. E si è costruito una fan base appassionata ed eterogenea di ragazzi della Gen Z, soprattutto latinoamericani, spesso queer, che si sentono rappresentati dalla sua musica.
Una cosa che non ha ancora fatto, però, è pubblicare un vero e proprio album. Ivory sarà il suo debutto, e c’è voluto un po’ per scriverlo. Apollo ha dato al mondo un primo assaggio del progetto con Apolonio, un mini di 25 minuti che ha pubblicato nel bel mezzo della pandemia, a ottobre 2020. Meno di un anno dopo, ha detto ai fan che presto sarebbero arrivati un intero disco e un tour.
Poi, a settembre 2021, quattro giorni prima della data zero, Apollo ha cancellato il tour con un messaggio di scuse. «La mia nuova musica è straordinaria», ha scritto su Instagram, «ci sto mettendo dentro l’anima. Ma ho bisogno di tempo per finire il lavoro».
Un album, a quel punto, era già pronto. Il problema è che non gli sembrava suo. «Non mi andava l’idea di pubblicarlo o suonarlo», dice Apollo. «Non avevo messo nessun tipo di filtro. Tutto quello che facevo lo inviavo al management, a gente dell’etichetta, avevano un accesso diretto al processo di scrittura. È stato il mio più grande errore, perché la musica non era più mia. Era diventata un mucchio di opinioni, tipo».
Apollo dice che è servito l’aiuto di un amico per imparare a capire come proteggere i suoi spazi. «Ho bisogno che il processo creativo sia mio», dice. «Se è così, va bene. Da ragazzino vivevo male i litigi, ora posso dire quello che penso, non importa delle conseguenze».
Il disco che era venuto fuori prima di questo cambiamento era «facile da ascoltare», ma non era musica che Omar sentiva sua. «Voglio essere più complesso», dice, «non so spiegarlo bene».
Il produttore principale di Ivory è Carter Lang, la mente dietro a gran parte di Ctrl di SZA. Non pensa che Apollo abbia gettato via il disco e ricominciato da zero. Secondo lui, ha «visto cosa c’era là fuori», incontrato nuovi collaboratori e messo in discussione le sue idee. «Non vuoi giocarti tutte le carte subito, devi confrontarti con quello che provi, lo scopo non è battere la concorrenza».
La versione di Ivory che possiamo ascoltare è piena di suoni funk, psichedelici e r&b, emozioni rozze e in cui è facile identificarsi, oltre a vari omaggi alla tradizione messicana. È un disco pensato per essere ascoltato dall’inizio alla fine. È puro Omar. «Adoro chi sa che mondo vuole creare con la sua musica, chi non va per tentativi», dice Lang. «Omar ha un sacco di idee, ogni giorno tira fuori qualcosa».
L’album racconta anche la fine di una storia con “una stronza”, con canzoni come Can’t Get Over You ed Evergreen. Apollo ride quando glielo descrivo così. «Le emozioni sono una cosa complessa», dice. «Ci sentiamo felici e poi devastati. Ci sentiamo forti e sicuri, a volte arroganti. Insomma, nel disco ci sono tante esperienze emotive. Ma c’è anche la mia rivincita».
Qualche minuto dopo essere arrivato sul set, Apollo si prende un momento per sé nel garage, accompagnato solo dal rumore della lavatrice usata dai tre ventenni bianchi che hanno prestato la casa per le riprese. Si poggia su una sedia da giardino, sotto delle luci decorative, vicino alle casse di birra poggiate sul muro, e mentre parliamo del suo disco sorseggia il caffè freddo, facendo una pausa ogni volta che entra qualcuno.
A un certo punto, la lavatrice inizia a perdere acqua sul pavimento, prendendo Apollo alla sprovvista. Lui gira la testa intrigato, si alza in piedi e dà un’occhiata al vecchio elettrodomestico. «Dici che è normale?», chiede confuso.
Tre anni fa, prima di trasferirsi a Los Angeles per concentrarsi sulla musica, Apollo abitava con i genitori a Hobart, Indiana. Il suo nome completo è Omar Apolonio Velasco, il secondo è un omaggio al nonno. Uno dei suoi tíos, Tomás, vive in un garage molto simile a quello di Velasco. La madre Enriqueta lavorava alla mensa della scuola di Omarcito, mentre il padre Roberto consegnava cibo nella stessa caffetteria. Entrambi sono immigrati, arrivati nel Midwest da Jalisco, Guadalajara. Prima il padre, nel 1979, per sfuggire alla violenza delle gang e cercare nuove opportunità. Dopo anni passati a scriversi lettere d’amore, Roberto è tornato a Jalisco per aiutare Enriqueta a superare il confine e raggiungerlo in una città di provincia dove abitavano quasi solo bianchi, a 50 chilometri da Chicago. Nel 2009, trent’anni dopo l’arrivo di Roberto, un dodicenne Omar, il più giovane di tre fratelli, aiutava i genitori a imparare i nomi di tutti gli Stati del Paese, così da superare l’esame per ottenere la cittadinanza americana.
«Se voglio andare indietro nel tempo mi basta tornare in Indiana», dice ora. «È molto diverso da qui».
Di recente Apollo ha insegnato al padre come usare Apple Music, così può ascoltare sullo smartphone le nuove canzoni del figlio. «Mi ha chiamato l’altro giorno, era in giro in bicicletta. Mi ha detto: “Mijo, non so perché sei sempre così stressato. La tua musica suona davvero bene. Non hai niente di cui preoccuparti. Niente!”. È stato davvero dolce».
Durante l’infanzia, a casa di Apollo si ascoltavano canzoni di Vicente Fernandez, Pedro Infante e Juan Gabriel. Juanga – l’amato Divo de Juarez, un’icona globale per decenni prima della morte nel 2016 – è l’ispirazione principale di En El Olvido, un corrido emozionante e scarno, una gran bella variazione dai suoni r&b e psichedelici del resto del disco di Apollo. «Quel pezzo è tutto Juan Gabriel», dice, «guardavo un sacco le sue performance».
A differenza di Dos Uno Nueve, un corrido inserito in Apolonio che parla di come ci si sente a guadagnare dopo il primo contratto discografico, En El Olvido è un brano da brividi sulla nostalgia per un amore perduto e che si vorrebbe dimenticare. “Arrancaste todo lo que quedaba / Por razones que no aceptaba,” canta con un vibrato potente. “Cariño, yo fui buen amante / Y en el olvido quiero dejarte.” (tradurre il testo non renderebbe giustizia al dolore che trasmette il pezzo).
Le radici messicane di Apollo sono la chiave per capire la visione dietro Ivory. Quando ha deciso di ribaltare la versione originale dell’album, ha fatto le valigie e ha passato un po’ di tempo a Città del Messico, grazie a un invito di Alberto Bustamante, un architetto queer di Oaxaca che fa il dj sotto il nome Mexican Jihad, e che ora è il suo direttore creativo. «Ci siamo trovati subito», dice sereno Bustamante, 36 anni. «Siamo diventate amigas».
La copertina in bianco e nero di Ivory mostra l’estetica che hanno sviluppato insieme. Apollo posa senza maglietta e con le braccia incrociate, i capelli pettinati da una parte col gel, lo sguardo fisso nell’obiettivo. Il cantante spiega che è un omaggio agli attori delle telenovele galán degli anni ’50. Bustamante dice che voleva un’immagine senza tempo.
Sul set del video di Tamagotchi, Bustamante si presenta indossando una maglietta esplicita con Satana, ritratto con la classica pelle rossa e le corna, mentre fa sesso con un uomo sfoggiando un pene in erezione su un pentagramma. «Non c’è niente di meglio del sesso gay satanico», dice il direttore creativo sorridendo. Il suo approccio esplicito alla sessualità e alla queerness sembra contrastare con quello aperto, ma più discreto, di Apollo. «È super potente ma complicato», dice Bustamante. «Se ti definisci un artista gay, finisci sempre in quella casella. Non succede con gli altri… bisogna navigare i limiti di ciò che ci sembra comodo, senza cedere il controllo della propria visione».
Apollo dice che non vuole etichettarsi. «Sono quello che sono», spiega. «Ne parlo apertamente nella mia musica e su Twitter. Ma se mi chiedi di identificarmi… dire queer mi fa stare bene. Non lo so. È complicato».
Mi ricollego alla nostra conversazione su Juan Gabriel, un artista che non ha mai fatto coming out ma che, grazie alla sua sgargiante presenza scenica, era considerato queer. Una volta, quando un giornalista gli ha chiesto della sua sessualità, ha risposto con fermezza: «Sa come si dice, è inutile chiedere ciò che è evidente alla vista».
«Amo che l’abbia detto», racconta Apollo. «È la cosa più vera… identificarsi è una cosa personale, capito?». Fa una pausa e poi ridacchia: «Inutile chiedere ciò che è evidente alla vista».
L’amore queer è centrale nei testi del disco, è anche una delle ragioni per cui i fan si identificano con la sua musica. In un assurdo video che ha pubblicato all’inizio dell’anno per la ballata malinconica Invincible, una canzone su un «ragazzo latino con le sopracciglia come Frida Khalo», si vedono due uomini mascherati che si tengono per mano e si accarezzano. Bustamante dice che l’obiettivo del video era non essere troppo didascalici, «ma alla fine tutti hanno colto il messaggio».
Le maschere del video sono stare realizzate da Andrés Gudiño, un artista del Costa Rica che nelle sue opere esplora spesso l’erotismo e i tabù sessuali. È il tipo di collaborazione che Bustamante spera di sviluppare con Apollo. «Gli Stati Uniti sono bloccati sulle politiche identitarie», dice. «In Messico è diverso, siamo più sciolti. Al momento Città del Messico è un grande centro di creatività queer. Puoi essere chi vuoi».
Apollo ha visto l’arte di Gudiño su Instagram e ne è rimasto intrigato, così si sono incontrati durante uno dei suoi tanti viaggi a Città del Messico. «Siamo letteralmente entrati a casa sua», racconta Apollo. «Le maschere sono ancora nella mia, voglio usarle nei concerti».
Più tardi nel pomeriggio, alcuni amici di Apollo – che faranno le comparse nel video di Tamagotchi – iniziano a riversarsi nel giardino, dove ci sono un divano rovinato e la scultura di un pollo fatta col filo metallico. Apollo indossa pantaloni larghi e un paio di Nike Cortezes nere, il prossimo look del video. Li saluta con lo stesso sorriso gentile e un abbraccio. Poi prova un halfpipe. Ci sa fare con lo skate.
«Omar è una persona super chida», un super figo, dice Bustamante. «Guardati intorno. Ha detto che aveva bisogno dei suoi amici per il video, ed eccoli qui». Tra gli arrivati ci sono Niko Rubio e María Isabel, due artisti latinoamericani qui per il video e anche per godersi il momento. Le riprese sembrano una loro normale serata.
Apollo è cauto nello scegliere chi far entrare nel suo giro. «Non lascio avvicinare nessuno a meno che non sia convinto», dice. «Credo che dovrebbero fare tutti così». Ha imparato la lezione sulla sua pelle, e ha scritto la canzone Personally per raccontare la solitudine che ha provato quando ha capito che doveva lasciare andare delle persone: “Cause I really don’t wanna be here alone / Too many people I don’t need no more / So many doubts that I stop keeping score”, canta.
«È stato un periodo strano della mia vita», dice. «Pensavo di essere circondato da brave persone, ma non era così. Ho lasciato che si avvicinassero troppo alla mia energia, hai presente?».
Sul set del video, mentre ascolta le indicazioni di Jake Nava – il regista britannico dietro alle clip di Single Ladies e Black Is King di Beyoncé – l’adolescente latinoamericano silenzioso e innamorato della musica prende il sopravvento. Mentre Nava condivide suggerimenti e indicazioni, Apollo annuisce e lo segue. «La musica ti deve far sentire soddisfatto e felice, è la priorità», dice. «Se hai quello, non serve girare un video se non ne hai voglia».
Gli dico che mi identifico in lui – anche i miei genitori sono immigrati senza documenti dal Messico – e gli chiedo se sente la responsabilità di raccontare la nostra cultura. Fa una pausa per riflettere, poi elenca i nomi di una serie di giovani artisti messicani-americani che stanno lasciando un segno restando fedeli alle proprie radici. «Ci sono Jean Dawson, Cuco, Miguel, Niko Rubio», dice. «È fantastico osservarli, quando ho cominciato non c’era nessuno».
Grazie ai primi due EP e al progetto Apolonio, Apollo ha già trovato un modo per raccontare quant’è complesso essere ni de aquí ni de allá. «I giovani mi dicono la stessa cosa che hai detto tu: anche i miei sono messicani, siamo di prima generazione», racconta. «È in quel momento che capisco che è una cosa più grande di me. Io non avevo nessuno a cui dire una cosa del genere. Nessuno». Per i suoi fan, Apollo è uno dei tanti ragazzini messicani cresciuti da questo lato del confine. Il suo feed di Twitter è pieno di gente orgogliosa di quello che ha fatto, alcuni gli scrivono come se tutto questo fosse opera di un amico. Quando ha annunciato Tamagotchi, un fan gli ha scritto (con tanto di emoji con bandiera messicana): «Il ragazzino messicano ha un pezzo con i Neptunes. Ce l’abbiamo fatta».
Gli occhi di Apollo si accendono mentre ricorda il viaggio a Miami dello scorso aprile, dov’è andato per incontrare Pharrell. «Mi dicevo di parlare il minimo possibile», ricorda sorridendo. «Ha iniziato a fare un beat tipo… psh psh psi, un beat tipo Pharrell. Poi è andato di sotto e io ho iniziato a scrivere e registrare. Ho fatto il pezzo in mezz’ora. È tornato, ha premuto la barra spaziatrice (per riascoltare quanto registrato, ndt) e si è entusiasmato. È così che abbiamo scoperto la nostra intesa. Era come se volesse dirmi: ah, è questo quello che vuoi fare».
Pharrell è scomparso e si è ripresentato insieme ad altre venti persone, tra cui Pusha T. «Ha detto: dovete ascoltare tutti questa roba. È andato fuori di testa», ricorda Apollo. Hanno finito per registrare diversi pezzi insieme, poi Pharrell gli ha chiesto di restare più a lungo. E se Pharrell ti chiede di fermarti a Miami per fare altra musica, tu resti a Miami per fare altra musica. Hanno registrato cinque canzoni «da zero», tra cui una «ferma da qualche parte, ma che uscirà».
Nonostante la qualità della sua musica sia molto alta, Apollo non mostra un briciolo di arroganza. Anche ora, mentre gira un video con un regista di primo livello per una canzone prodotta da un genio, sembra che stia facendo serata in giardino con gli amici. «La gente si connette con Omar perché è accessibile», dice Bustamante. «Non è una popstar irraggiungibile». Il concetto è spiegato meglio dalla nota vocale che Tyler, the Creator ha inviato al cantante. «Non credo che tu abbia capito che cazzo di hit hai per le mani, stupido idiota».
Dopo la fine del tour, spiega tranquillamente Apollo, ha intenzione di spostarsi a Città del Messico. «Probabilmente per rilassarmi un po’». Per il figlio di due immigrati messicani, una mossa del genere potrebbe sembrare un ritorno alla mitica Aztlán, un modo per ricostruire la sua vita in un posto che senti come casa tua a un livello profondo, ma anche per trovare un nuovo ambiente dove esplorare la sua creatività. Per Apollo, è solo l’inizio.
«Ho iniziato a pianificare il futuro», dice. «Nel 2024 mi trasferirò a New York. Ho bisogno di cambiare. Devo spostarmi. Se sto comodo non combino niente… Devo rendere il cambiamento tangibile».
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.