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Orville Peck è il Johnny Cash gay e mascherato dei millennial

Duetta con Shania Twian, ma ha esordito per la Sub Pop. Fa country, ma gioca col camp. Intervista al cantante misterioso che sta dimostrando che il country and western non è una musica per vecchi conservatori

Foto: Victor Llorente per Rolling Stone

Questa cosa non stupirà nessuno, ma Orville Peck non ama i vestiti casual. Tende ad abbinare la sua mascherina sfrangiata a capi dai colori accesi e a gioielli artificiali. Dice che è un modo per richiamare l’epoca in cui le star del country vivevano alla grande e facevano di tutto per darlo a vedere. «Ci sono cresciuto con quel tipo di immagine», racconta. «Non sono il tipo che sale sul palco in jeans e maglietta per dimostrare di essere autentico. La gente mi guarda e pensa che sia tutta una recita, e invece sono proprio così».

Peck è venuto fuori dal nulla nel 2018. Era al tempo stesso un enigma e una star immediatamente riconoscibile. Ha pubblicato l’album di debutto Pony del 2019 per la leggendaria etichetta discografica Sub Pop: sembrava un disco dei Mazzy Starr cantato da Roy Orbison. Peck l’ha portato incessantemente in tour trasformandolo in un successo, con tanto di nomination ai Juno Awards e al Polaris Prize. Messo sotto contratto dalla Columbia, in agosto ha pubblicato l’EP Show Pony dove, oltre a storie queer su camionisti e cowboy, ci sono un duetto con Shania Twain e la cover di Fancy di Bobbie Gentry/Reba McEntire che è interpretata con un’intensità degna di Nick Cave.

Chi si nasconde dietro la maschera? È irrilevante. Lui è Orville Peck, Orville Peck è lui. Solo la quarantena l’ha fermato. «I concerti mi mancano, andare in tour è la cosa che preferisco», racconta. «Che posso fare, cerco di scrivere e godermi questa pausa, la prima della mia vita. Vi farò sapere se andrò fuori di testa».

Non c’era nulla in giro che suonasse come Pony. Come ci sei arrivato?
Quel disco è arrivato dopo un lungo periodo in cui sono stato lontano dalla musica. Ho cercato di mettere assieme tutte le mie influenze a partire dal vecchio country e in particolare dall’idea di performance e intrattenimento tipica del country and western. Volevo combinare questa cosa con influenze più contemporanee. In sostanza ci ho messo tutte le cose amavo e che pensavo mancassero al country. Forse qualcuno ha pensato che lo facessi perché non amavo il country, ma non è così. Sono un grande fan e lo rispetto. Ma gli mancava qualcosa e ce l’ho messa io.

La gente ti fa domande sull’autenticità?
Di continuo. Ma i miei fan amano sinceramente il country, per non dire di artisti leggendari che mi supportano come Tanya Tucker o Shania Twain.

Shania ci è passata quando è esplosa come artista pop. Non era abbastanza country e quindi era accusata di non essere autentica.
Esatto, questo tipo di critica non mi tocca perché è già stata fatta ad artisti leggendari. Succede ogni volta che qualcuno tira fuori qualcosa di nuovo. Ma direi che sono stato accettato dalla comunità country. I fan del country sono molto più aperti di quanto si creda.

Foto: Victor Llorente per Rolling Stone

Nel tuo lavoro ci sono riferimenti gay. Ovviamente ci sono sempre stati gay nel country e artiste come Dolly Parton, Tammy Wynette e Tanya Tucker hanno flirtato con il camp, ma non è un tema di cui si parla spesso.
Dolly Parton è un’icona gay. È una che sa che il camp sta all’intersezione tra interpretazione e sincerità, lei stessa ne è il simbolo. A cantanti country come lei non sempre sono state concesse le stesse possibilità di un uomo. Io sono gay e sono cresciuto ascoltando country. Mi piacevano Merle Haggard, Johnny Cash e Willie Nelson, ma probabilmente inconsciamente mi sentivo maggiormente legato a Patsy Cline, Dolly Parton, Tammy Wynette o Loretta Lynn. La loro lotta e le loro esperienze somigliano a quelle della comunità queer.

Vedi l’EP Show Pony come un primo passo verso uno stile diverso?
Scherzando, dico sempre che è la sorella di mezzo, quella che si mette nei guai. Non credo che il mio sound cambierà in modo radicale in futuro, voglio dire, ho superato i 30 anni, ascolto la stessa musica da una quindicina d’anni. Non aspettatevi un disco trap, ecco. Diciamo che Show Pony è figlio di un più alto livello di sicurezza nei miei mezzi. Le nuove canzoni sono in fin dei conti dei tributi a particolari epoche del country o a suoi temi tipici a cui aggiungo il mio punto di vista, la mia storia. Prendi Legends Never Die, il duetto con Shania. Non avrei mai avuto il coraggio di mettere su Pony un pezzo così strambo che sembra Neil Young e i Crazy Horse che suonano come cantanti country anni ’90. Insomma, con Show Pony non ho cercato di fare qualcosa di radicalmente diverso. È un’evoluzione. Rivela qualcosa in più su di me.

Com’è che sei entrato in contatto con Shania?
Qualcuno l’estate scorsa mi ha detto che è mia fan. Mica ci credevo, onestamente. Ero convinto che la persona che me l’ha detto stesso mentendo o ci fosse stato un malinteso. Ho cominciato a pensare che fosse vero solo quando me l’ha confermato qualcun altro. È stato allora che ho provato a scrivere un duetto da cantare con lei. Volevo che avesse un andamento pigro e nostalgico e allo stesso tempo desse una botta rock, un po’ come faceva il country anni ’90. Le ho spedito il pezzo, ma non ho avuto alcun riscontro e ci ho messo una pietra sopra. Poi quest’anno ai Grammy durante una pausa pubblicitaria sento qualcuno che mi chiama. Mi giro e vedo Shania. Mi fa alzare dal mio posto, mi abbraccia e mi dice: «Sono una tua fan, mi piace il pezzo che hai scritto per noi due, non vedo l’ora di lavorare con te». Ero scioccato. Non ricordo nemmeno se le ho risposto. Mi sono riseduto, senza parole. Tre mesi dopo sono andato nel ranch a Las Vegas a passare del tempo con lei e i suoi cavalli, e a registrare il pezzo.

Uno dei tuoi temi preferiti è la solitudine del cowboy, solitudine che riflette quella di chi è gay e vive nelle aree rurali del Paese. C’è un senso di distanza nelle tue canzoni. Tanta solitudine.
Il bello di star del country and western come Johnny Cash – il Man in Black, la voce dei galeotti e dei reietti – è che scrivono della loro vita, ma la portano a un altro livello. Vale anche per Dolly Parton: è la ragazzina cresciuta in Tennessee pescando scalza nei fiumi, ma è anche il personaggio che ha creato a partire da quella ragazzina. Io sono sempre stato un emarginato, fatico a parlare di quel che provo. Ho passato la vita a viaggiare, non mi sono mai sentito a casa, ecco perché la versione country and western di me stesso è il cavaliere solitario, il cowboy che passa di città un città, da una delusione d’amore all’altra. Credimi, è la triste verità.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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