«Mi chiamo John Michael Osbourne, ma non sono molti quelli che mi chiamano John». Sono le parole di Ozzy Osbourne che si sentono all’inizio del nuovo documentario Biography: The Nine Lives of Ozzy Osbourne. «Mi chiamano Oz o Ozzy. Se qualcuno mi chiamasse John per strana manco mi girerei».
Il documentario offre una panoramica dell’Ozzy-pensiero dividendone la vita in nove parti, dall’infanzia difficile a Birmingham fino al boom dei Black Sabbath e al successo televisivo. Il leitmotiv è la capacità dell’uomo di superare ostacoli che sembrano insormontabili: l’allontanamento dai Black Sabbath, la morte del chitarrista Randy Rhoads, l’incidente quasi mortale con il quad e ora il Parkinson. Il tutto attraverso interviste nuove e d’archivio alla famiglia, a Jonathan Davis dei Korn, a Rick Rubin e a molti altri, e ovviamente anche a Ozzy che nel 2020, a 71 anni, è rientrato in classifica con l’album Ordinary Man.
Spesso, nel documentario, Ozzy guarda vecchi video e si meraviglia d’essere sopravvissuto. Certe immagini, sono troppo forti persino per lui. «Davanti a certi video usciva dalla stanza», dice il figlio Jack, che è uno dei produttori esecutivi di Biography. «Se si sente a disagio, vuol dire che abbiamo raccontato la storia in modo onesto». Ozzy si è commosso anche vedendo il figlio piangere di fonte alle immagini di Pearl, la nipote del cantante, che intona Crazy Train con i compagni di classe delle elementari. «Odio vedere i miei figli piangere», dice Ozzy. «Mi fotte il cervello».
«È stato strano vedere quella scena e pensare: oh, il nonno di mia figlia è Ozzy, che è mio padre», dice Jack. «Non so come dirlo a parole, ma è stato commovente. Mia figlia avrebbe iniziato quella recita sei mesi dopo l’operazione a mio padre (per una brutta caduta, ndr), perciò è diventato un po’ un obiettivo per lui: “Ti devi rimettere in piedi per vedere Pearl che canta la tua canzone”. Questa cosa ha molti significati, per me».
Ozzy ha visto il filmato di Pearl, che nel film non c’è, quand’era ancora sofferente a causa dell’operazione. «Non è uno che mostra le proprie emozioni in pubblico», dice Jack, «in questo è molto inglese, ma so che si è commosso. Certo quarant’anni fa, quando scriveva Crazy Train con Randy Rhoads, non poteva immaginare che la nipote l’avrebbe cantata un giorno con la sua classe».
Ozzy non ha ancora visto tutto il film, ma dice che il regista R. Greg Johnston, già produttore della serie Gli Osbourne, ha fatto un gran lavoro nel mettere in prospettiva la sua vita. Ora che può rivederla nella sua interezza, vede la sua storia in un altro modo.
Incredibile quanti ostacoli tu abbia dovuto superare – il licenziamento dal gruppo, i problemi di salute, la morte di amico – e come ogni volta tu sia riuscito ad andare avanti. Come ce l’hai fatta?
Sai cosa? Sono qui per un motivo. La gran parte dei miei amici è scomparsa, ma quando cavalchi l’onda pensi che non cadrai mai.
D’accordo, ma sei passato attraverso esperienze che avrebbero messo ko un sacco di gente. Come hai fatto ad andare avanti?
Che altro avrei avuto fare? Restare lì a rimuginare sugli anni in cui ero famoso? È fare questo lavoro che mi tiene in vita. Immagino io sia nato per farlo. La mia vita è stato un viaggio meraviglioso.
Come hai passato la quarantena, considerando che eri convalescente?
E lo sono ancora. Quando hanno operato la colonna vertebrale hanno reciso dei nervi e mi è venuta questa cosa chiamata neuropatia. Non ne avevo mai sentito parlare, si tratta di dolore ai nervi. Tanto dolore, anche adesso. Ma, sai, non sono morto.
Ci sono che puoi fare per sentirti meglio?
Faccio un sacco di esercizio un terapista che viene da me. Ma per ogni passo avanti sento di farne due indietro. È un processo lento. Non sono uno che sta fermo a letto.
Come fai a non impazzire?
Sto nella mia stanza e faccio quel che fanno i ragazzi. Ho fucili ad aria compressa, musica.
Che musica ascolti ultimamente?
Sto cercando di scrivere qualcosa di nuovo con Andrew (Watt, il produttore di Ordinary Man), ma ha avuto il Covid. Era molto malato, e non sta ancora bene. Il problema con questo cazzo di Covid, secondo me, è che non sanno con cosa hanno a che fare: cambia continuamente. All’inizio ci hanno detto che era pericoloso per gli anziani, ora anche per i giovani. È assurdo. Andrew è stato uno dei primi a prenderlo ed è ancora abbastanza malato. Ha giorni buoni e giorni meno buoni, capisci? Ti distrugge i polmoni.
Come sta andando la scrittura?
Dovremmo essere al lavoro, ma l’altro giorno mi ha scritto un messaggio per chiedermi un po’ di tempo. Gli ho detto: “Quando sarai pronto, chiama”.
Hai idee per molte canzoni?
Ne ho qualcuna, non tante. Con Andrew viene tutto fuori sul momento. È un bravo ragazzo e un bravo produttore. Una delle mie canzoni preferite di Ordinary Man l’abbiamo scritta alla fine: è Today Is the End. Per qualche ragione mi è rimasta in testa.
Sono sicuro che non vedi l’ora di cantare quei pezzi dal vivo…
Oh, sì. L’altro giorno parlavo con Tony Iommi. Dice che per come si stanno mettendo le cose, saremo un rottame del passato, perché non si faranno più concerti al chiuso.
Tony ha anche detto che gli piacerebbe suonare di nuovo dal vivo con i Black Sabbath, un giorno.
A me no. È finita. L’unica cosa che rimpiango è non aver fatto il concerto d’addio a Birmingham con Bill Ward. Ne ho sofferto molto. Non so bene cosa sia successo di preciso, ma sarebbe stato bello. Ci ho parlato qualche volta, ma non mi interessa fare un altro concerto. Forse Tony si annoia.
I primi due album dei Black Sabbath – l’omonimo e Paranoid – sono usciti 25 anni fa. Cosa significa per te questo anniversario?
È incredibile. Quando sono usciti ricordo di aver pensato: “Beh, questa cosa funzionerà per un paio d’anni”. Cinquant’anni dopo funziona ancora. I ragazzi della band sono i miei fratelli, sai? Fanno parte della mia infanzia. È più di un’amicizia, è una famiglia. Non conosco nessun altro da così tanto tempo come loro.
Sembra che siate ancora vicini, tu e Tony vi sentite ancora…
Tra tutti lui è quello che ho sentito di più (dopo l’operazione). Mi aiuta ad andare avanti e mi incoraggia. Ho sentito anche Bill una o due volte. Non posso dire lo stesso di Geezer, ma lui è così.
Quando la pandemia sarà finita, tornerai in tour con la tua band?
Sì, faccio esercizio ogni giorno. Faccio il meglio che posso. Devo suonare dal vivo. Non ho ancora fatto il mio ultimo concerto. Anche se dovesse essere solo una volta, salirò sul palco. Solo così mi sembrerà di aver portato a termine il mio lavoro.
Una delle mie parti preferite del documentario è quando ti chiedono del ritiro e rispondi: “Vaffanculo”.
Ritirarmi da cosa? Non è un lavoro. Come fai a ritirarti da una band rock? È come chiedere di spegnere l’amplificatore. Io non so fare nient’altro. Mi ritirerò quando metteranno i chiodi sulla bara.