Il momento più psichedelico durante la chiacchierata a tre con Panda Bear (Noah Lennox) e Sonic Boom (Peter Kember) è stato quando si è discusso dell’attacco di Danger. Il brano contenuto in Reset, disco composto a quattro mani e uscito quest’anno, inizia con un accordo campionato da Love of My Life degli Everly Brothers, ma stranamente ricorda parecchio anche le prime battute de Il cielo è sempre più blu. Spiegare chi era Rino Gaetano (con tanto di link al pezzo) ai due non è stato facilissimo, ma la somiglianza inequivocabile li ha colpiti abbastanza (anche se Lennox ha aggiunto «beh, in fondo ci sono gli stessi accordi anche nello Schiaccianoci di Čajkovskij»). «Oh wow, that’s rock’n’roll!», ha chiosato il più pragmatico Kember.
Tutto torna, tutto si ricicla in forme diverse: un concetto molto psych, in effetti, al quale due teste d’uovo del suono lisergico degli ultimi 35 anni sono quasi sempre rimasti fedeli. Dalle colate laviche di feedback e distorsioni iterate fino allo stordimento degli Spacemen 3 di Kember (e il suo gemello diverso Jason Pierce) all’indie acid folk che man mano si è trasmutato in litania elettronica degli Animal Collective di Lennox. Per non parlare delle rispettive produzioni solistiche, intrecciatesi più di dieci anni fa quando Sonic Boom mixò Tomboy di Panda Bear per poi produrre altri lavori del più giovane collega “cosmonauta” e arrivare al solito, maledetto lockdown del 2020. E cioè quando i due, entrambi residenti in Portogallo, hanno deciso di combattere l’alienazione e l’angoscia del momento producendo una via di fuga sonora. Dalle chiacchiere su Zoom durante quelle interminabili giornate è nata l’idea di costruire una serie di brani sull’ossatura di loop prodotti da Kember manipolando intro di pezzi pop, rock’n’roll, soul e country usciti a cavallo tra anni ’50 e ’60.
Il risultato è stato Reset, in superficie tutto bollicine e atmosfere alla Brian Wilson (se Wilson si fosse rinchiuso in un negozio di computer vintage invece che nella sua villa a Malibu), ma con un retrogusto più sinistro nei testi scritti e cantati da Lennox. «La pandemia» dice Panda Bear «è stato un momento di riflessione collettiva, in un certo senso. Oltre che, ovviamente, di paura del futuro e disorientamento. Come per tanti altri, mettersi a lavorare su un progetto in quei giorni è stato terapeutico. Ti permetteva di staccare il cervello e focalizzarti su qualcosa di concreto. Che poi a dire la verità non c’era nessun progetto, all’inizio. Nessun grande schema. Tutto è nato in modo spontaneo, Peter ha cominciato a mandarmi questi loop via mail dicendomi “vedi cosa riesci a tirarci fuori”. Alla fine è stati tutto molto spontaneo e consequenziale».
Sonic Boom conferma: «È stato una medicina lavorare su Reset, e quello che mi auguro è che abbia lo stesso effetto su chi lo ascolta. Perché l’obiettivo era quello. Offrire sollievo, ottimismo, positività dopo un periodo terrificante per tutti. È un invito a evolvere, a inventarsi delle aperture mentali nonostante le difficoltà».
Da cui il titolo Reset, quindi.
Panda Bear: Certo. Anche se non vuol dire fare piazza pulita e ripartire da zero, ha più a che fare con il concetto di trasformazione, di riprogrammazione delle priorità.
Sonic Boom: Rimodulare i propri sensi, mettiamola così. Che tra l’altro è quello che è successo a me ascoltando il modo in cui Noah ha creato canzoni a partire dai miei loop. Qualcosa che io conoscevo perfettamente e Noah molto meno (i brani storici da cui sono tratte le intro mandate in loop, nda), che mi è tornato indietro in forma aliena ma stimolante.
I testi sono stati influenzati dagli spunti musicali, in qualche modo?
Panda Bear: No, se non per una banale ragione di metrica. C’era un ritmo in cui inserire le parole, e ho cercato di attenermi il più strettamente possibile alle basi di Peter. In ogni caso non era roba che avevo da parte, sono stati scritti tutti per l’occasione. E in alcune canzoni ha collaborato anche Peter.
C’è un tema di fondo che collega i brani?
Panda Bear: Non è quello che si direbbe un concept, ma se volessi trovare un filo conduttore – e me ne sono accorto solo alla fine del processo creativo – probabilmente sarebbe questo: sono tutte riflessioni sulla vita on line. Il mood in cui la connettività assoluta determina le nostre vite. Il modo in cui interagiamo, ci schermiamo o ci riveliamo agli altri. In tutta la sua perversione, nei suoi aspetti negativi ma anche in quelli potenzialmente positivi.
Sonic Boom: Credo che i testi di Noah riflettano in modo poetico sul nostro rapporto con la tecnologia. Questi maledetti aggeggi che abbiamo sempre in mano (alza con una mano uno smartphone, mentre con l’altra si accende quella che non sembrerebbe esattamente una sigaretta, nda), roba che permea la nostra esistenza. C’è un punto di non ritorno? Non lo so. Ma per tornare a quello che si diceva prima, c’è una maniera più positiva di guardare alle cose. Viviamo in tempi apocalittici? Se anche fosse, non è detto che se ne debba parlare in toni apocalittici. Bisogna sforzarsi di trovare un modo per venirne fuori. Pensa a certi generi musicali, non so, tipo il rocksteady o lo ska degli anni ’60. In Giamaica vivevano situazioni terribili, violenza, povertà, ecc. E le canzoni parlavano di quello, ma in un contesto musicale che ti dava una carica positiva, era gioioso. Ecco, è quello che abbiamo provato a fare noi due con Reset.
C’è una costante atmosfera di sospensione magica, nel disco, che riporta a una visione innocente e quasi infantile del mondo. Mi chiedo se questo aspetto sia collegato al fatto che i 45 giri da cui Peter ha tratto le intro da campionare erano dischi consumati quando era bambino…
Sonic Boom: Good point! Può essere, sicuramente, anche se poi c’è la parte di Noah che invece è molto più giovane di me e che non ha ricordi collegati a queste canzoni. Ma per quanto mi riguarda sì, è probabile. Tra l’altro erano tutte canzoni che non riascoltavo da una vita. Ho una collezione bella grossa di singoli d’epoca, ma era tutta inscatolata in soffitta perché quando vivevo in Inghilterra non avevo spazio in casa. Il lockdown ha avuto un solo aspetto positivo: ho approfittato di tutto quel tempo a disposizione per togliere quei dischi dagli scatoloni e farli girare di nuovo sullo stereo. Dio, erano decenni che non sentivo Three Steps to Heaven di Eddie Cochran. Poi c’è un altro aspetto: ho sempre amato nella musica l’unione di nostalgia e visione proiettata nel futuro. Chiamalo retro-futurismo o come vuoi, non lo so. Mi vengono in mente Joe Meek o i Kraftwerk, che in questo erano bravissimi.
È stato complicato ottenere i diritti per l’utilizzo dei sampler?
Panda Bear: Complicato? È stato un cazzo di casino. Un processo tortuoso, interminabile. Uno penserebbe che dopo più di trent’anni in cui si usano i campionamenti queste questioni si sia imparato a risolverle, invece niente. Ti scontri sempre con un livello di avidità e di ottusità assurdo. E non parliamo degli autori delle canzoni, che sono quasi tutti morti o non possiedono più i diritti. Parliamo di corporation.
Sonic Boom: È stato estenuante. Fino all’ultimo non sapevamo se avremmo potuto usare quei frammenti di canzoni. Il più problematico è stato proprio quello di Cochran. Alla fine ce l’abbiamo fatta, ma non vorrei ripassare per una situazione del genere per niente al mondo. Tra l’altro, considerando che abbiamo destinato una parte del ricavato delle vendite al sostegno di una associazione che si occupa di curare stress post traumatici – e dio sa quanto ce ne sia bisogno, dopo questi ultimi due anni – dover spendere tutti quei soldi per i diritti non è stato proprio entusiasmante. Il fatto che fossero tutte hit non ha aiutato, inoltre.
Panda Bear: È il capitalismo, baby.
L’idea di utilizzare le intro di pezzi famosi sembra quasi una meta-riflessione sul modo in cui la musica viene ascoltata e di conseguenza confezionata oggi. Se un pezzo non è catchy nei primi 20 secondi, addio…
Panda Bear: Personalmente amo un gancio melodico, un hook come dio comanda, come chiunque altro. Ma non può essere solo quello a determinare il valore o il potenziale commerciale di una canzone.
Sonic Boom: Interessante, ma al riguardo non saprei cosa dirti. Il mondo di Spotify non è il mio mondo. Ma è vero che le intro, quando sono azzeccate, posseggono una energia naturale ineguagliabile, sono gioia istantanea. Pensa a una intro famosa della storia del pop, tipo…non so, dimmene una…
Oddio, così sul momento… Be My Baby?
Sonic Boom: Ecco, that’s it (accenna alle prime battute del pezzo delle Ronettes, nda). Roba come quella non ti trasporta subito in un’altra dimensione? E sono solo pochi secondi di musica.
A proposito di altre dimensioni. Entrambi siete stati spesso associati a un concetto forse un po’ abusato: psichedelia. Oggi ha ancora un qualche significato questa parola, per voi?
Panda Bear: Mah, come hai detto è un termine consunto, che ha perso buona parte del suo significato essendo stato usato per descrivere troppe cose diverse tra loro. Parlando di generi musicali, spesso quello che viene definito psichedelico è solo una accozzaglia di cliché. Per me, in senso ampio, potrebbe significare semplicemente abbattere i confini tra la percezione e la cosa in sé, ma non vorrei sembrare troppo filosofico (ride).
Sonic Boom: Sono d’accordo con Noah. Psichedelia è un termine si porta dietro tutti quei connotati hippy-dippy anni ’60-’70, ma non può indicare solo chitarre al contrario o cattive imitazioni dei Pink Floyd. Se uno pensa che sia psichedelico solo ciò che assomiglia a Lucy in the Sky Wth Diamonds… ok, è una splendida canzone e sicuramente è psichedelica dalla prima all’ultima nota, ma lo stesso vale per certi pezzi di Flying Lotus. Comunque, al di là della musica, credo che il problema stia proprio nel linguaggio. Non puoi definire l’esperienza psichedelica dal di fuori. In questo momento non saprei metterla in parole, mentre una volta che avevo fumato DMT nel deserto probabilmente ho pensato di averla colta benissimo (ride). La parola “cane” non ha nessun senso per qualcuno che non ha mai visto un cane, stessa cosa per l’esperienza psichedelica.
Voi due vi conoscete e collaborate ormai da una dozzina di anni. Cosa vi ha attratto musicalmente uno verso l’altro, all’inizio?
Panda Bear: Penso sia l’approccio al minimalismo. C’è una parola per definirlo: economia. No, aspetta: efficienza.
Sonic Boom: Elegante efficienza! Sì, quello è un tratto che ci accomuna. E poi mi piace molto il modo in cui Noah trova lo spazio per le parole dentro la musica. Ha un grande senso melodico, ma sempre con qualche deviazione, qualche scarto improvviso che lo rende interessante. E anche il suo modo di cantare: non distrae dal suono, cosa che in genere detesto. Con lui non succede mai.
Avete già in mente altri progetti?
Sonic Boom: Per ora pensiamo ai concerti che faremo insieme, ma ripetere una esperienza come Reset sarebbe bello, certamente. È stato un processo creativo molto naturale, molto organico.
Panda Bear: Lo spero anch’io. E poi ormai è chiaro che Peter ha bisogno di me, dove lo trova un altro così? Giusto, Pete?
Il ghigno sardonico di Sonic Boom, mentre sbuffa fuori il fumo, è qualcosa di impagabile. Ma come l’esperienza psichedelica, potete solo immaginarlo.