Tutti quelli che hanno perso le speranze che ancora esista un cantautorato solido possono consolarsi con Paolo Benvegnù, che è appena tornato con l’EP Solo fiori dove «mi muovo tra l’inutile e l’impossibile». Con queste cinque tracce (Non esiste altro con Malika Ayane) si pone delle domande esistenziali alle quali non è per forza necessaria una risposta. Oppure, più probabilmente, le troverà chi le ascolterà. Anche perché, chiarisce, «io non mi rivolgo mai a un pubblico, ma a un privato» e nel farlo non si sente altro che «uno sfioratore di universi e un contemplatore».
Nel mezzo tanto altro: il disinteresse per il mercato discografico, «l’intrattenimento stolto» che caratterizza la nostra epoca e sul quale ha più di una responsabilità la sua generazione, visto che «siamo stati noi a creare questo abominio». Ancora i Måneskin che «hanno tutte le caratteristiche per essere fidelizzanti», i suoi Scisma quando era «un uomo infernale e presuntuoso», la politica che è diventata «la gestione del condominio Italia», il Concerto del Primo Maggio che lo ha visto sul palco e il vero problema del nostro tempo esploso da quando «il narcisismo non è più ritenuto una malattia».
In Solo fiori ti poni una domanda che sembra quasi un intento: «Cosa resterebbe di un adulto se il suo sentire rimanesse lo stesso sentire della sua infanzia? Le azioni, i movimenti, le reazioni, i gesti, sarebbero gli stessi?». Ma è possibile una risposta?
Sento di incarnare la domanda che hai citato. La senilità mi ha portato oltre la fase di mezzo e sto tornando allo stupore infantile. Non vorrei più tornare alla complicazione dell’inessenziale. Non perché è un periodo aureo e non per nostalgia, ma perché secondo me la vita va vissuta istante per istante nella dimensione dell’essenziale e non del superfluo nel quale siamo intrisi.
Un’altra questione che poni all’ascoltatore è: «L’esperienza è davvero formativa? O forse è una deviazione dal sentire originale?». A te cos’ha portato l’esperienza maturata?
A me il muovermi verso l’inaccessibile e l’impossibile. La vita, nella sua capacità metamorfica, ti pone di fronte a una serie di domande. Non ho risposte, penso semplicemente che la mia dimensione esperienziale abbia a che vedere con il continuare a pormi delle domande e a fare ricerca per trovare delle risposte, ma non necessariamente utili. In buona sostanza mi muovo tra l’inutile e l’impossibile. È di grande conforto in un mondo in cui tutto dev’essere funzionale.
Sembra una sorta di ginnastica artistica. Il cantautore Flavio Giurato mi ha raccontato che ha inventato una particolare ginnastica del corpo per accordarsi, come uno strumento musicale. Può essere la tua prossima tappa?
Invidio molto Flavio Giurato, che ritengo un maestro. Lui si accorda con l’universo. Io non ce la faccio. Forse a malapena riesco ad accordarmi con la stanza in cui vivo.
Fra i cinque brani dell’EP aleggia anche il tema dell’amore come atto sovversivo supremo.
Che per me è l’intercettare la follia dell’altro. L’amore non ha a che vedere con la ragione, ma con l’irrazionale. Uno intercetta l’irrazionale dell’altro, che ritiene una ricchezza e un senso di appartenenza, e se capita che venga corrisposto allora è un amore assoluto, completo, totale, che si può disperdere in un istante, ma si può anche disciogliersi nell’infinito, persino senza toccarsi. Questo nell’ambito di una relazione a due, a tre, a cinque, a nove. Succede nello stesso modo tra l’uomo e la natura. Io per esempio mi sento uno sfioratore di universi e un contemplatore.
Che tradotto in parole povere?
Per certi versi non sono diverso dal bambino che stava seduto vicino a un albero a guardare il traffico che passa. Non chiedo altro. Non ho ancora capito come farsi pagare per questo lavoro, ma forse un giorno ci arriverò.
Se ti guardi indietro, come valuti l’esperienza breve ma intensa con gli Scisma?
Quel gruppo è stata una bellissima storia di educazione sentimentale. E tutti quelli che ne hanno fatto parte, oltre a me, degli esseri umani meravigliosamente generosi. Io invece ero un giovane uomo infernale e presuntuoso. Forse è stato grazie a quel carburante che anche loro sono riusciti a mettere in atto delle azioni che non avrebbero fatto se non ci fosse stato il mio atteggiamento stigmatizzante e sferzante. Ma se penso al me di quell’epoca mi vergogno molto. Se potessi tornare indietro come Arnold Schwarzenegger in Terminator mi prenderei a cazzotti.
Avete mai pensato di tornare insieme stabilmente?
Non credo. Abbiamo realizzato l’EP Mr. Newman nel 2015 con quattro date live per finire in letizia. Ci siamo divertiti, capendo che quando ci trovano in una stanza si riforma sempre la stessa atmosfera e tutte le volte sembra la prima volta, dal suono all’energia. La differenza è che io, rispetto al passato in cui ero un pazzo psicopatico, sono diventato un uomo normale e quindi ho goduto molto di più. E mi sono abbeverato della serenità di quegli esseri umani meravigliosi.
Come ti approcci al mercato discografico in un periodo che appare particolarmente fluido?
Devo dire la verità, sono disinteressato. L’atto creativo non dovrebbe avere nulla a che vedere con la funzione esterna. Apprezzo la visione dello studioso come nell’Antica Grecia. Il mercato in questo momento è fiorente di proposte, c’è domanda di divertimento e intrattenimento e molta meno di contenutistica. Che, quest’ultima, è una parola terribile che andrebbe sotterrata. Nonostante questo, in tutta franchezza, non mi pongo problemi di mercato.
E mi sembra che, come dimostri, ci possa essere vita artistica anche non pensando al mercato.
Mi sento un privilegiato a scrivere canzoni in una stanza di due metri per due, a convincere dei compagni che le suonino insieme a me e che possano avere una continuità verso gli altri. Però se dovessi dire che mi interessa realmente cosa succede dopo mentirei. Sono più preoccupato di quando per andare a prendere il treno mi si rompe l’auto e devo pagare il meccanico.
Hai parlato della mancanza di “contenutistica”. Eppure, almeno fino ai primi anni 2000, una certa ricerca di profondità o di complessità non è mancata. Poi cos’è successo?
Penso che la musica di oggi sia l’esatto segno del tempo. Siamo diventati esseri umani super tecnologizzati con un tempo medio di attenzione che va da qualche secondo a qualche minuto. La fruizione del godimento deve essere immediata. Se nel Novecento abbiamo abbiamo ricercato l’identità, oggi vogliamo soltanto godere dell’eredità. Non mi stupisce che sia così, non sono per niente scandalizzato e non tiro acqua al mulino della mia generazione, anzi, visto che siamo stati noi a creare questo abominio del tempo brevissimo e dell’intrattenimento stolto.
Quali sono le colpe della tua generazione?
Le avvisaglie c’erano già ai miei tempi e avremmo dovuto, in un modo o nell’altro, fare qualcosa. Invece siamo rimasti passivi. Specialmente in Italia, devo dire. Ma forse c’è anche che, a proposito del rapporto tra essenziale e superfluo, oggi non è così essenziale che qualcuno ti consegni un breviario di sopravvivenza. Te lo puoi creare da altre parti facilmente. Stando più sul generale, si potrebbe ricercare la vera causa tra il 2005-2006 quando l’Ordine degli psichiatri non ha più ritenuto una malattia il disturbo narcisistico di personalità.
Esiste ancora un pubblico che, soprattutto nei live, cerca altre vie rispetto al mainstream.
Io non mi rivolgo mai a un pubblico, ma a un privato. Chi viene di solito a vedere i miei concerti ha delle privazioni. Per cui confrontiamo le nostre privazioni. Non ho mai pensato a un pubblico, perché sono convinto che gli esseri umani possono mescolarsi tra loro nel momento in cui sono liberi privatamente, nella loro solitudine. Ho compiuto tutto un percorso nella mia esistenza per cercare di essere libero nell’esprimermi. Non succede su grandi numeri, ma per pochi adepti che riconosco uno a uno ogni volta ai live e rispetto agli anni che passano. Visto che oggi proliferano gli chef, è un po’ come se io andassi ogni volta a casa loro a cucinare. È una dimensione molto amicale.
Una condizione meno confidenziale quando ieri sei salito sul palco del Concerto del Primo Maggio di Roma…
Ho chiuso gli occhi. Il concertone è un grande poster, con un palco di 200 metri. Io sono già terrorizzato in generale durante le esibizioni, figurati lì. Normalmente quelle misure me le sogno. Ma è proprio ciò che ho cerato di affrontare nei brani di Solo fiori, trovare il possibile nell’impossibile. E anche l’esibizione al Primo Maggio è un grande esercizio di impossibilità.
La politica a sua volta è diventata un altro esercizio di impossibilità?
Rispetto a una ventina di anni fa siamo immersi in uno scenario ben diverso, tutto legato alla finanza, alla tecnologia e alla geopolitica. Se è vero che l’Italia è stato un Paese importante ai tempi del boom economico e fino agli anni ’80 è perché eravamo al confine con la cortina di ferro, quindi molti fondi dalle due parti ci hanno nutrito. Stavamo in equilibrio tra uno schieramento e l’altro. Dopo la sua scomparsa è stato prima un tutti contro tutti e poi un tutti verso il denaro.
Non c’è nessuno che ti smuova politicamente?
No, perché fare politica ormai è più vicino al fare l’amministratore di condominio. Il problema è che la situazione geopolitica sottende a quella economica e finanziaria. Io ho la pretesa di essere pagato per buttare sassi in uno stagno, però mi sembra che il presidente del consiglio lo possa fare chiunque ha un minimo di preparazione. Non è un discorso ideologico, anche se io la mia ideologia la mantengo. Per questo mi ha fatto piacere andare al Primo Maggio, per avere diritti e lavorare non per morirne ma per esprimere vitalità. Mi rendo conto che ogni ideologia non ha senso valutarla in questo momento storico, la dimensione geopolitica e finanziaria ha preso il sopravvento, ma in generale i politici mi sembrano solo impegnati nella gestione dell’enorme condominio Italia.
C’è qualche ascolto che ti ha colpito negli ultimi tempi?
Ho sentito tante cose molto interessanti, ma io sono molto legato alla generazione successiva alla mia, quella di Alessandro Fiori, Marco Parente, Ettore Giuradei, Giuliano Dottori, Alessandro Grazian. Hanno scritto cose bellissime e misconosciute, anche se per me sono conosciute e degli assoluti poeti. Sono misconosciute, come le mie, quindi c’è una fratellanza in questo senso. Poi all’avvento delle loro intuizioni è successo che hanno dovuto fare altro, chi i figli, chi un mutuo e forse in tanti hanno perso il vero significato di una canzone.
Qual è secondo te questo significato?
Qualcosa che è nell’aria e che grazie alla musica diventa materia.
Nella trap che domina il mercato, in particolare dei giovanissimi, tanto per spingerti fuori dalla tua comfort zone, non trovi questo significato?
Vedi, in quel genere non c’è quasi mai un gruppo che suona, a volte non cantano o danno voce solo al pubblico. Insomma, il rituale della musica è molto cambiato. La messa è finita, andate in pace.
I Måneskin cantano e suonano strumenti. Neanche in loro trovi qualcosa che dall’aria si trasforma in materia?
Sono dei ragazzi che suonano bene gli strumenti, sono convincenti, esteticamente perfetti, ma a me non toccano nel profondo. Sono giovanissimi, magari succederà tra dieci-quindici anni. Ma capisco il fenomeno. Che per certi versi abbiamo già visto per altre band che avevano gli stessi valori di intrattenimento e commerciali, ma non interessanti nella profondità. Ho quasi il rimpianto degli Spandau Ballet e dei Duran Duran, parlo dei brani e delle tematiche affrontate. I Måneskin stanno facendo la stessa cosa. Sono un gruppo di portata mondiale perché hanno tutte le caratteristiche perfette per essere fidelizzanti. Non è colpa loro. Anzi, sono convinto che nel tempo tenderanno a fare qualcosa di meglio.
Sei uno dei pochi che non è sfuggito alla domanda con una battuta.
Ma sai, io penso davvero che la musica italiana degli ultimi cinque-sei anni sia piena di talento, molto più di quello che era presente nella mia generazione e quelle successive. Scrivono cose più veloci e che arrivano prima. In questo sono bravi e fanno bene. In alcuni casi l’incoscienza fa in modo che certe istanze siano più interessanti di un lavoro verboso e cosciente. E parlo del mio. È una incoscienza guidata, da loro stessi e da una macchina che funziona molto bene. Sono felice per loro, perché fanno grandi esperienze. Da qui a dire che mi toccano ce ne passa, come invece fecero per esempio band come i Radiohead di Ok Computer.
Ma Paolo Benvegnù ha un sogno nel cassetto?
No no, ho già fatto fin troppo. Non parlo neanche di carriera quando mi riferisco al mio percorso musicale, per me ogni giorno è una odissea infinita. Mi piace l’idea di svegliarmi e non sapere niente di quello che farò, perciò il giorno dopo riparto con rinnovato slancio. Alcune delle intuizioni che ho avuto sono state sorpassate dai tempi, altre possono permanere. Ma non avrei mai potuto immaginare tutto quello che ho raggiunto, quando ho cominciato a suonare tardissimo, neppure di poter parlare con te adesso. Mi sento pieno di stupore e non ritengo di essere particolarmente meritevole. Mi sono impegnato molto e ancora lo sto facendo, ma se bastasse solo l’impegno…
Il «giovane uomo infernale» ha scoperto l’umiltà?
Non è un discorso legato all’understatement. Penso di essere normale e che il mondo relativo alle creazioni sia affastellato di moltissimi esseri umani che credono di davvero di avere una narrazione vera e seria da proporre al resto del mondo. A me sembra una follia e perciò non sono io che faccio understatement, quanto invece sono tanti altri che si ritengono un po’ troppo importanti.
Si torna allo sdoganamento del narcisismo?
Io da quando l’ho sconfitto, ed è stata una vittoria meravigliosa, sto molto meglio.