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Paolo Fresu: «I fondi per il turismo culturale sono gestiti da incompetenti»

Il musicista racconta il danno economico subìto dal suo festival, la voglia di sperimentare, lo stato di salute del jazz italiano: «Ci sono giovani straordinari, spero che il sistema gli dia tempo per crescere»

Foto: Roberto Cifarelli

Paolo Fresu è un jazzista di livello mondiale. Ha registrato oltre quattrocentocinquanta dischi, di cui circa novanta a proprio nome, e tantissime collaborazioni internazionali. Si può quindi considerare, senza timore di essere smentiti, un patrimonio dell’Italia. Ma il nostro paese, è risaputo, non sempre (o quasi mai) è in grado di valorizzare le proprie eccellenze. L’ennesima riprova si è avuta nei giorni scorsi, quando il festival Time in Jazz, da lui fondato e diretto, è uscito dalla graduatoria degli aventi diritto ai contributi finanziati dalla legge 7 della Regione Sardegna, cioè non più considerato di grande interesse turistico. Il tutto per soli 4 secondi. Un tempo “rubato” che non ha niente a che vedere con la musica, quanto con un bando a sportello che a causa di un click appena ritardato ha mandato in fumo 60mila euro che erano già stati promessi all’evento – così come ad altre realtà – svoltosi ad agosto e che ora si trova con un consistente buco nel bilancio.

«I fondi sono in mano a incompetenti» ha detto Fresu, chiedendo persino le dimissioni dell’assessore al Turismo Gianni Chessa, che naturalmente si è guardato bene dal presentarle. Eppure, la manifestazione, tra le prime a ripartire nonostante l’emergenza Covid, non solo aveva fatto registrare zero contagi in otto giorni nonostante cinquanta concerti e attività parallele dedicate a infanzia, cinema, editoria, enogastronomia e green – mentre le discoteche collezionavano un focolaio dopo l’altro –, ma soprattutto è stata in grado di produrre un indotto economico per l’isola di 3 milioni di euro netti, secondo uno studio indipendente.

Questa assurdità è stata anche l’occasione per parlare con il jazzista di un momento particolare della sua vita – a febbraio compirà 60 anni – così come della sua terra, la Sardegna, sempre in bilico fra terra e mare, e del consiglio ricevuto dal padre che ci ha regalato uno dei più grandi artisti che la musica italiana potesse annoverare: «Fai quello che vuoi, ma non il pastore».

L’attaccamento alla tua terra è testimoniato, di recente, dal libro Senza Mare di Marina Spironetti (Crowdbooks edizioni) nel quale hai scritto l’introduzione e dove hai spiegato che non esiste una sola Sardegna.
Ho preso spunto dall’immagine metaforica del libro Sardegna quasi un continente di Marcello Serra, che ben rappresenta questa dimensione. Se la si attraversa da nord a sud si scoprono dialetti unici, perché il sardo è una lingua, modalità di vita e tradizioni simili ma molto differenti tra loro. È un’isola strana, in alcuni casi con un mare lontano e gente che non lo ha mai visto. Da questo assunto, raccontare le Barbagie significa avventurarsi anche in riti ancestrali, come è ben rappresentato nel libro di Marina Spironetti. È una sorta di Google Maps: da un puntino sul mondo, lo zoom ti permette di arrivare fino alla tua casa.

Cosa rappresenta per te la Sardegna?
Se fossi nato altrove sarei diverso, come ognuno di noi. Mi capita spesso di suonare in giro per il mondo, ma mentre in Sardegna siamo tutti divisi, altrove alla fine di ogni concerto, che sia a New York o in Cina, c’è sempre qualcuno che si avvicina e mi dice che è sardo. Non succede con i milanesi o i piemontesi, evidentemente è presente una riconoscibilità, anche se da noi si dice “centu concas, centu berrittas”, cioè cento teste, cento cappelli. È un’isola che nonostante il mare è principalmente di terra, e ci forgia. I sardi poi si dividono in due categorie. Ci sono quelli che pensano che ogni cosa esterna sia la migliore, e quelli che, al contrario, credono di essere loro i migliori. Mia madre, per esempio, quando mi raggiungeva “in continente” si portava sempre lo zucchero e il sale perché diceva di non trovarli così buoni. Io invece mi sento ad armi pari. Sono sardo, non mi vergogno di esserlo, ma prendo tutto ciò che amo dalla Sardegna così come da altri luoghi.

Come hai vissuto quest’estate le due facce dell’isola, passata da Covid free a focolaio?
Noi abbiamo realizzato un festival annunciato già a maggio, uno dei primi a ripartire per la volontà di esserci e non al risparmio: otto giorni con oltre 50 concerti, eventi dedicati all’infanzia, presentazioni di libri, l’attenzione al territorio e tutto nel rispetto delle regole che ha portato a zero positivi da Covid. Inoltre, questa situazione ci è servita a padroneggiare una tecnologia che utilizzeremo anche in futuro. Solo l’incremento di attenzione per la conferenza stampa è stato del 400%. Contemporaneamente c’erano le discoteche, con tutto quello che abbiamo letto. Noi abbiamo chiuso il 16 agosto, in concomitanza con tutti gli altri: è stata una strana coincidenza, vista la differenza degli effetti.

Eppure, nonostante tutto questo, avete perso i finanziamenti regionali. In più c’è la beffa di vederli sfumare per un ritardo di qualche secondo nel click day.
È davvero imbarazzante. Qualche giorno fa l’assessorato al Turismo ha comunicato l’assegnazione dei bandi e per un click non abbiamo ricevuto un euro. Abbiamo perso 60mila euro, eppure il nostro è un festival che portava all’isola un indotto di 3 milioni di euro netti, calcolati da uno studio indipendente. Diciamo che, a quanto pare, la meritocrazia in Italia è un concetto molto discutibile.

Hai parlato di «fondi in mano a incompetenti».
Sì, e ho chiesto le dimissioni dell’assessore Gianni Chessa, che puntualmente non sono arrivate. Il problema è che fare le cose in quel modo significa non avere nessuna competenza su quel che si sta gestendo. I soldi pubblici per il turismo dovrebbero andare nelle mani di chi è in grado di usarli in modo giusto e corretto, così come abbiamo dimostrato noi con il festival che è conosciuto in tutto il mondo. Ma nel momento in cui fai un bando a click vuol dire che non sei cosciente che può portare un danno gigantesco a chi ha già svolto eventi del genere. In questo modo si radono al suolo una serie di realtà che hanno partecipato, che sono 164. Trovo che la questione sia grave, anche perché non ci si è posto il problema di trovare una soluzione successiva. Anzi, ad alcuni hanno dato indennizzi di soli 1800 euro. Trovo tutto questo veramente vergognoso.

Foto: Roberto Cifarelli

Il 10 febbraio compirai 60 anni. È tempo di bilanci?
Ho in programma un bel po’ di cose, che saranno diverse dal solito e non solo per via del Covid. Non posso ancora annunciarle, ma le saprete a breve. Saranno a cavallo tra il festeggiamento e il racconto. I 60 anni non sono un traguardo, ma un importante momento di passaggio e di riflessione.

Dopo un gran numero di dischi, progetti paralleli e collaborazioni impressionanti, hai ancora un sogno nel cassetto?
Il sogno è di continuare a fare quello che ho fatto finora. Anche perché non ho mai avuto un sogno specifico. Quello che ho realizzato, infatti, è stato un inanellarsi di apparenti coincidenze, anche se le cose alla fine non accadono totalmente per caso. Siccome mi piace l’idea di non chiudere le porte e penso che esistano sempre più strade da scoprire, mi piacerebbe percorrerle tutte. Visto che non è umanamente possibile, vorrei continuare a vivere la mia vita artistica con questa filosofia, senza dare nulla per scontato. L’unica sicurezza di questo periodo storico è l’insicurezza, per cui il non dare per certo nulla mi sembra l’unico modo per affrontare il presente.

Forse l’unico genere che non hai sperimentato è la trap. Se ce ne fosse la possibilità ti cimenteresti?
Di solito mi avvicino a quello che mi emoziona. Ho anche una varietà di ascolti molto ampia, solo che la trap non mi ha toccato più di tanto, né per la qualità dei testi né per la musica. Invece mi piacciono molte cose del rap, conosco Salmo e il rap americano e ho collaborato con gli Assalti Frontali e altri, ma la trap mi lascia un po’ così… Però non si sa mai, lascio anche in questo caso la porta aperta.

Com’è invece lo stato di salute del jazz, in particolare sul fronte dei giovani talenti?
Molto buono, perché in giro ci sono giovani straordinari. Alcuni sono nella mia etichetta Tǔk Music. Ma ce ne sono anche tantissimi altri e hanno una preparazione tecnica strumentale incredibile, quando ho iniziato io ce la sognavamo. Inoltre sono molto aperti, conoscono la tradizione ma sono pronti a metterla in discussione con l’elettronica o con le ultime influenze che arrivano dai paesi scandinavi. È un momento interessante, checché se ne dica. A me arriva tantissimo materiale, ascolto tutto e devo dire che esistono progetti molto convincenti. Purtroppo, non riesco a produrli tutti, però la scelta non è facile. C’è terreno fertile, speriamo che il sistema gli dia l’opportunità di crescere ancora, visto che di solito non si fa molto per l’arte e per i giovani.

I talent sono stati criticati spesso e volentieri, ma come hai reagito al progetto di Riccardo Muti di lanciarne uno per direttori d’orchestra?
Non mi ha stupito, perché tutto quello che si fa per valorizzare i giovani è giusto. Alcune volte sulle modalità si può discutere, ma ben venga ogni spazio per mettersi in mostra. I talent televisivi possono essere rischiosi per alcuni, perché fanno pensare che da un giorno all’altro si possa diventare ricchi e famosi. È un messaggio non corretto, perché per arrivare è necessaria la gavetta. Bisogna avere talento e fortuna, ma soprattutto studiare tanto. Noi jazzisti siamo cresciuti nei club. Se Miles Davis non avesse raccontato al padre la bugia di voler andare a scuola a New York, mentre invece coltivava il sogno di incontrare Charlie Parker, non sarebbe diventato Miles Davis. Era forse un talent con un linguaggio diverso, ma ogni epoca ha la sua finestra verso il mondo.

Se non avesse incontrato la musica, cosa avrebbe fatto Paolo Fresu nella vita?
Sono un perito elettrotecnico diplomato con il massimo dei voti, per cui mi avrebbero assunto immediatamente. All’epoca le grandi aziende chiamavano direttamente i migliori dalle scuole. Ho fatto il colloquio e quando mi sono alzato ho detto che non mi interessava e ho iniziato a fare musica. Ma anche se avessi portato avanti un’altra attività ci avrei messo la stessa passione. Per me la musica è un volano grazie al quale scopro me stesso e il mondo. Infatti sarebbe limitante dire che suono la tromba, che invece è solo uno strumento per portare all’esterno una filosofia di pensiero. Mio padre era pastore e a me piaceva quel mondo. D’altronde, a Berchidda abbiamo fatto un concerto per pecore e orchestra, come i mungitori di una volta che suonavano al tempo del latte che scendeva nel recipiente e diventava suono. Ma sempre mio padre mi diede un solo consiglio: «Nella vita fai quello che vuoi, ma non il pastore», e così eccomi qui.

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