Paris Michael Katherine Jackson sta fissando un cadavere. Un cadavere famoso: «È Marilyn Monroe», sussurra davanti a una parete piena di foto di autopsie. «Quello è JFK. Queste immagini non si sono mai viste, nemmeno in Rete». È martedì pomeriggio e Paris, la figlia di Michael Jackson, sta visitando il Museum of Death, il museo della morte di Hollywood Boulevard: foto di decapitazioni, fotogrammi di snuff movie e memorabilia di serial killer. Ci sono visitatori che davanti a queste immagini vomitano o svengono (spesso tutte e due le cose), Paris invece le trova quasi rassicuranti.
È la nona volta che viene qui: «È fantastico! Ci sono anche una sedia elettrica e una vera testa umana mozzata!». Paris ha appena compiuto 19 anni, divisi tra la reclusione totale e l’esposizione mediatica più atroce. È figlia del XXI secolo: il suo senso estetico mischia hippy e punk (oggi indossa Converse alte, leggings di jeans e una camicia psichedelica) e i suoi gusti musicali non hanno confini (ha decorato le sue sneakers con testi di Mötley Crüe e Arctic Monkeys, è ossessionata da Alice Cooper e dal cantautore Butch Walker, ama i Nirvana ma anche Justin Bieber). Si capisce che è figlia di suo padre: «Anzi, lei è mio padre», dice il fratello maggiore Prince Michael Jackson, «le uniche differenze sono il sesso e l’età, ma per il resto ha la sua stessa forza e le sue debolezze».
Paris ha più di 50 tatuaggi, molti fatti di nascosto quando era minorenne. Nove sono dedicati a suo padre, morto quando lei aveva 11 anni. Da allora Paris, Prince e il fratellino Blanket sono stati catapultati fuori da una vita idilliaca, chiusa in un mondo a parte: «Dicono che il tempo aiuti a guarire le ferite, ma non è così», dice Paris. «Puoi solo farci l’abitudine. Io vivo sempre pensando: “Ok, ho perso papà, l’unica cosa importante che avevo” e guardando avanti non vedo niente di peggio che possa capitarmi. Quindi sono in grado di gestire ogni situazione». Il padre la va a trovare spesso in sogno, dice: «Lo sento vicino in ogni momento».
Michael Jackson, che si sentiva Peter Pan, chiamava lei, sua unica figlia femmina, «Campanellino» e oggi Paris ha la frase “Fede, fiducia e polvere di stelle” tatuata vicino alla clavicola. Ha anche un’immagine dalla copertina di Dangerous sull’avambraccio, il logo di Bad sulla mano e sull’interno del polso sinistro la scritta “Regina del mio cuore” con la calligrafia di suo padre. «Non mi ha dato altro che felicità: perché non ricordarmelo ogni momento?».
Ci sono poi i tatuaggi dedicati a John Lennon, David Bowie, Prince, Van Halen. E la scritta “Mötley” all’interno del labbro (il suo fidanzato ha “Crüe” nello stesso punto). Al polso, invece, porta un braccialetto di corda con una giada che Michael aveva comprato in Africa e che indossava il giorno in cui è morto. «Ha ancora sopra il suo odore», dice Paris.
Mi considero nera. Mio padre Michael mi diceva: “Sei nera. Sii fiera delle tue radici”. E io pensavo: “è mio padre, perchè non dovrebbe dirmi la verità?”
Osserva tutto il macabro esposto al Museum of Death con i suoi grandi occhi blu, fino a quando arriviamo nella sala degli animali imbalsamati: «Questa non mi piace. Gli animali sono troppo per me, mi si spezza il cuore». Ha da poco salvato dal canile Koa, un meticcio di pitbull iperattivo che ora convive (a fatica) con Kenya, il labrador che suo padre ha portato a Neverland quasi dieci anni fa.
«La morte, invece, mi lascia indifferente quando si tratta degli uomini», dice Paris. Nel giugno 2013, a 15 anni, nel pieno della depressione e della dipendenza dalle droghe ha tentato il suicidio tagliandosi le vene e calandosi 20 pastiglie di analgesico: «Una crisi di odio verso me stessa e di bassa autostima: ero convinta di sbagliare tutto, e che non valeva la pena vivere».
Per molto tempo, di nascosto, ha continuato con l’autolesionismo: molti dei suoi tatuaggi coprono cicatrici. «Ho provato a farla finita diverse volte», dice con una risata del tutto fuori luogo. La clinica in cui è stata ricoverata ha una regola ferrea: «Massimo tre tentativi di suicidio», dice Paris, «e con me hanno usato una “terapia intensiva”».
Ha anche iniziato ad andare a scuola. È partita dalle medie, perché, fino alla morte di Michael, aveva sempre studiato a casa con insegnanti privati. Manco a dirlo, non si trova bene con i compagni di classe e inizia a uscire con gli unici che la accettano: «Ragazzi più grandi e che facevano di tutto», dice, «soprattutto cose che a 13 o 14 anni non si dovrebbero fare. Volevo crescere in fretta e non ero una persona piacevole».
Ed è così che si è ritrovata vittima dei cyber-bulli: «La libertà di espressione è una gran cosa, ma non credo che i Padri Fondatori potessero immaginare i social media».
C’è un altro trauma di cui Paris non ha mai parlato in pubblico. Quando aveva 14 anni ha subito un’aggressione sessuale: «Non voglio scendere nei dettagli, ovviamente è stata un’esperienza brutta. Tanto che non l’ho mai detto a nessuno».
Dopo l’ultimo tentativo di suicidio ha passato un anno e mezzo in un istituto speciale dello Utah: «Sono una persona completamente diversa oggi. Allora ero veramente fuori di testa, ero così piena di rabbia, dovevo gestire l’ansia e la depressione senza alcun aiuto». Sono le stesse patologie di cui soffriva suo padre. Per un certo periodo Paris ha preso addirittura lo stesso tipo di antidepressivi che prendeva lui. Ma ora, assicura, ha chiuso con i farmaci: è pulita ed è felice come non è mai stata. L’unico vizio che le è rimasto sono le sigarette al mentolo.
Appena compiuti 18 anni, Paris ha lasciato la casa della nonna per andare a vivere da sola e oggi non si separa (quasi) mai dal suo fidanzato Michael Snoddy, batterista 26enne della Virginia, che suona nel gruppo di percussionisti Street Drum Corps e che, nonostante la cresta decolorata, i tatuaggi e i pantaloni sempre calati, non riesce a nascondere un viso da boy-band.
Hanno un rapporto «stabile ma conflittuale», dice Paris: «Non ho mai conosciuto nessuno che riesca a darmi le stesse sensazioni, che sono poi le stesse che mi dà la musica». Quando si sono conosciuti, lui aveva un tatuaggio con la bandiera sudista che ha suscitato qualche comprensibile perplessità nella famiglia Jackson: «Ma più lo conosco, più mi sembra un tipo in gamba», dice oggi Prince. Paris vive in quello che era lo studio in cui Michael ha registrato il demo di Beat It.
L’edificio principale in stile Tudor della proprietà di famiglia nel quartiere di Encino, a Los Angeles (comprata da Joe Jackson nel 1971 con le prime royalty dei dischi dei Jackson Five e ricostruita da Michael negli anni ’80) è in ristrutturazione.
Lo studio, ricavato all’interno di un piccolo edificio di mattoni, nel giardino, è grande come un appartamento a Manhattan, con la sua cucina e il suo bagno. Paris l’ha trasformato in uno spazio accogliente e pieno di atmosfera.
Vivo sempre pensando: “Ok, ho perso papà, l’unica cosa importante che avevo. Non può capitarmi niente di peggio”
Ovunque ci sono tracce di suo padre, soprattutto le opere d’arte che Micheal ha commissionato e che sono rimaste lì: la foto incorniciata di un castello in stile Disney in cima a una collina con una caricatura di Michael sul portone e un bambino biondo che lo abbraccia intitolata Bambini, Castelli e Re e un murale che copre un’intera parete in cui il re del pop (sempre in versione cartone animato) ha in mano un libro verde intitolato Il segreto della vita e guarda fiori che sbocciano con al centro di ognuno il viso di una bambina con le guance rosse.
Lo stile scelto da Paris è un po’ diverso: una foto di Kurt Cobain, un poster degli Smashing Pumpkins, un laptop con gli adesivi degli Against Me! e del film La storia infinita, decorazioni psichedeliche e molte candele.
Alle pareti ci sono vinili incorniciati (Alice Cooper, The Rolling Stones) e in cucina, appoggiato su un tavolo come se fosse lì per caso, c’è un disco di platino con la dedica di Quincy Jones a Michael Jackson. «L’ho trovato in soffitta», dice Paris. Nel garage di fianco alla casa c’è un piccolo museo che Michael aveva creato per fare una sorpresa alla famiglia: una stanza tutta ricoperta di foto, soffitto compreso. Era il posto in cui Michael si allenava e provava i suoi passi di danza. Ora ospita la batteria del fidanzato di Paris.
Usciamo per andare a mangiare in un ristorante sushi, e Paris mi racconta i suoi primi sette anni di vita a Neverland, il mondo da favola in cui suo padre aveva fatto costruire un parco divertimenti, uno zoo e un cinema («Tutto quello che non ho potuto fare da bambino», diceva Michael).
In quegli anni Paris non sapeva nemmeno il nome di suo padre, ed era del tutto inconsapevole della sua fama: «Pensavo si chiamasse Dad o Daddy. Non lo conoscevamo molto, ma lui era il nostro mondo e noi il suo».
Non è un caso che il film Captain Fantastic, in cui Viggo Mortensen interpreta un padre eccentrico che costruisce un rifugio utopico per i suoi figli, sia «il mio preferito di sempre». Racconta Paris: «Non potevamo uscire quando volevamo, ma in un certo senso avevamo una vita normale: facevamo scuola in casa tutti i giorni e dovevamo essere bravi se volevamo andare al cinema o a vedere gli animali nello zoo durante il weekend. Se ci comportavamo male scattava la punizione e non potevamo fare nulla di tutto questo».
La scelta di non frequentare la scuola l’hanno presa i bambini: «Quando studi a casa capita che tuo padre, la persona che ami di più al mondo, entri in classe a metà lezione e tu possa dire: “Per oggi ho finito, sto con papà! Non abbiamo bisogno di amici, ci siete tu e Disney Channel”», dice Paris ammettendo di essere stata «una ragazzina molto strana».