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Parla Maurizio Vandelli: l’abbraccio con Hendrix, la love story con Anita Pallenberg, la gaffe epica con Lennon

E poi, i discografici che scappano coi soldi, una telefonata assurda di Lucio Battisti, la volta in cui ha «ucciso il beat» con ‘29 settembre’. E la brutta fine della maialina di Zucchero, povera Adelmina…

Foto: Umberto Scimitto

Parlare con Maurizio Vandelli, l’ex leader dell’Equipe 84 che ha da poco pubblicato Emozioni garantite, libro e doppio CD in cui ricanta le hit di Lucio Battisti, è una delle cose più divertenti che si possano fare. Non solo perché è dotato di una simpatia naturale, ma anche perché si passerebbero ore a sentirlo raccontare aneddoti sul mondo della musica. Perché lui la musica l’ha vissuta eccome.

Dopo averlo sentito viene da pensare che nei favolosi anni ’60 tutto fosse possibile. Già dall’adolescenza si capiva dove sarebbe andato a parare: frequentava gente come Francesco Guccini e Bonvi, il papà del celeberrimo fumetto Sturmtruppen. «Ricordo che Guccini e Victor Sogliani avevano creato un duo, cantavano brani di Gene Vincent e poi sbattendo la testa facevano cadere le coppole, era una cosa simpatica. Frequentavo loro, il produttore dei Nomadi, Dodo Veroli. Era la compagnia del Bar Grand’Italia (a Modena, ndr): stavamo lì a non fare un cazzo, cercando di inventarci qualcosa per continuare così tutta la vita».

Ma poi qualcosa l’hai fatta, hai messo in piedi l’Equipe 84 e sei diventato famoso. La tua etichetta era la Vedette di Armando Sciascia. Che ricordi hai?
Un giorno arrivai da Sciascia, nessuno parlava di quattrini, lui men che meno. E gli domandai quanto avessimo venduto, visto che eravamo primi in tutte le classifiche. Lui mi fa: «Eh, no, ma sai… un centinaio di dischi». Allora io: «Eh?». E lui: «Saranno 200…». Ci sono andato violentemente, con gli occhi sbarrati, e in 30 secondi è arrivato a 30 mila copie anche se erano molte di più. Lui poi è andato a fare una gita in Brasile e non è più tornato. Ma questa era la discografia di allora.

Chi è rimasto fregato come voi?
I Pooh sono andati in Vedette dopo di noi e suppongo abbiamo avuto lo stesso trattamento. La discografia era una cazzata che qualcuno faceva per mandare in tv o in concerto qualche stronzo che cantava. Capito? Nessuno ci proteggeva allora… vabbè che pure adesso non è che sia cambiato tanto…

Come la vedi la musica di oggi?
Ne ascolto parecchia. Mi piace molto il 70% del rap, ma non amo il sottogenere del trap. I trapper cantano su basi ritmiche senza armonia, con una melodia mononota e il dito medio alzato incitando a violenza, droga, omicidio. Non amo la violenza, né vera né verbale. E poi lì, tra i trapper, di musica ce n’è davvero poca.

Chi ti piace, invece, tra le nuove leve?
Achille Lauro. Ho trovato il modo per farmelo piacere.

Cioè?
Basta non guardarlo: dall’ascoltarlo al guardarlo cambia molto. Quando lo guardavo mi giravano le balle. Capisco provocare, ma c’è sempre qualcosa di esageratamente provocatorio in quello che fa. La prossima volta a Sanremo cosa farà? Harakiri?

Facciamo un passo indietro: ma è vero che hai conosciuto i Beatles?
In due situazioni. Imbarazzanti entrambe.

Racconta un po’…
Ero stato invitato da Giorgio Gomelsky a vedere, in un locale di Londra, un gruppo molto avanti che produceva lui, i Blossom Toes. Arrivai con Marco Ferreri, conosciuto da poco. Gomelsky fa le presentazioni e, nel frattempo, vedo una ragazza che mi pare di avere già incontrato.

Chi era?
Jane Asher, all’epoca ragazza di Paul McCartney. E lui era di fianco a me, non lo avevo visto perché di spalle. Le presentazioni continuano, Gomelsky arriva a me e dice: «Questo è il leader del gruppo beat più importante d’Italia». Che era come dire che ero il rocker più famoso del Biafra. McCartney mi ha dato un’occhiata severa e non mi ha più cagato per tutta la sera. Quindi la serata è andata avanti così, non è successo un cazzo. Con John Lennon andò ancora peggio.

Dimmi un po’…
Eravamo a casa di Simon Posthuma e Marijke Koger, due artisti in tutti i sensi: avevano progettato il pittamento della Rolls Royce di John Lennon. Un amico mi portò da loro, in questa casa che sembrava un capannone lungo con attaccati ai muri strumenti musicali da ogni parte del mondo. Io presi in mano un koto e partì una jam session.

Bello.
Era venuta fuori una cosa magica, forse perché in quella sala c’era molto fumo, ma non ti dico di che tipo. Viene fuori un’atmosfera sonora straordinaria, ma a un certo punto sentiamo una donna che vomita, urla, rutta. La guardo e, girandomi verso la mia sinistra, mi esce la frase più idiota della mia vita: «Chi è quella che ci scassa la minchia?». L’ho detto in inglese, ovviamente.

Be’?
Quello vicino a me si gira e dice «È mia moglie». Lui era John Lennon, lei Yoko Ono. L’unica cosa che mi ha confortato è che mi ha risposto sorridendo. O era d’accordo con me oppure non aveva capito bene.

Hai fatto tante cose nella vita. A un certo punto hai mollato pure la musica per fare il pubblicitario… ma quante vite hai avuto?
Da studentello al Bar Grand’Italia cercavo di fregare il mondo per non finire in ufficio, avevo una gran voglia di musica. Poi è scoppiata l’Equipe 84 e non si poteva più circolare. A Modena mi diedero l’appellativo di Principe, che era come darmi dello stronzo. Lì sono molto ironici e lo sono anche io. Alla fine, per un periodo, per non rinunciare alla mia creatività, realizzavo spot pubblicitari. Ho lavorato anche a quello del primo album di Fiorello, per esempio. E in poi Rai, Mediaset. Ma anche lì eravamo verso la fine: con un ragazzino che usava bene un Avid si facevano gli spot loro. Così sono tornato alla musica.

Mi spieghi ‘sta cosa della villa di via Bodoni a Milano?
Stavo in una villa con l’Equipe 84, ma via via che si fidanzavano se ne andavano tutti. A Milano, in quella villa, sono passati un sacco di artisti: dal poeta Allen Ginsberg a Jerry Malanga, ho parlato con Andy Warhol, abbiamo telefonato a Lou Reed. Ne ho viste di cotte e di crude.

Tipo?
Quando Jimi Hendrix stava a Milano, Victor (bassista dell’Equipe 84, ndr) si frequentava con una ragazza americana di colore, e andammo a sentirlo. All’una di notte, rientrato, stavo andando a letto. Mi chiama Victor e mi fa: «Vieni a casa nostra che ti devo fare conoscere una persona». Io dico che non ci penso neanche. E lui ribatte «Peccato, perché qui ci sta Jimi Hendrix». Alla “x” di Hendrix ero già in auto. Facemmo le sei del mattino e Jimi la sera stessa venne a stare da me. Bazzicava una bionda, tanto che per due giorni non li vidi uscire dalla camera. Per una settimana restò da me e un giorno, nella sala centrale della casa, gli feci sentire Nel ristorante di Alice: sul finale avevo copiato un suo assolo, ma suonato di merda. Glielo feci sentire, credevo che mi spaccasse la faccia e invece mi abbracciò. Era un uomo dolcissimo.

Di Andy Warhol che mi dici?
Il fotografo Jerry Malanga mi chiese se poteva stare da me e mi raccontò di Warhol. Lo chiamava spesso. Warhol aveva il telefono di casa mia, era una delle poche persone che parlava un inglese che non capivo. Poi lo incontrai una volta a Milano, ma niente di che.

Un tuo grande amico è Zucchero.
Lui aveva intorno degli yes-man e io ero uno dei pochi che gli diceva «ma che cazzo fai»? Forse siamo diventati amici per quello, non gliene facevo passare una. Quanto mi sono divertito con lui.

Ma poi perché è finita l’amicizia?
Non è finita, ma lui è uno che va al sodo. Io avevo molto tempo a disposizione per un periodo, andavo spesso a trovarlo in quella casa a Pontremoli che era il pisciatoio d’Italia: pioveva sempre. Anche Zucchero faceva robe pazzesche. Una sera vado a casa da lui e mi fa: «Stasera a cena costine di maiale». Visto che sapevo che aveva una maialina adottata che aveva chiamato Adelmina gli faccio: «Zucchero, magari Adelmina s’incazza».

E lui?
Mi fa: «Ah, c’ha poco da incazzarsi: è lei».

Ma come? Vi siete mangiati la povera Adelmina?
Zucchero è troppo forte!

Facciamo un passo indietro: come Equipe 84 quando avete mollato la Vedette?
Sciascia ci avrebbe lasciati liberi di andare alla Ricordi solo se avessimo partecipato a Sanremo. Ci siamo andati col pezzo Un giorno tu mi cercherai che, per ripicca, eseguimmo nel modo più commerciale. Tra l’altro Sciascia ci aveva messo in un hotel – ribattezzato La Piattola – a 30 chilometri da Sanremo. Dovevo salire sul letto dal fondo, sembrava una bara. Fu la sua vendetta perché avevamo deciso di andare via.

Sei tornato al festival nel 1993 con i Camaleonti e i Dik Dik e il brano Come passa il tempo.
Con Shel Shapiro facemmo Sanremo Young. Io ci sono tornato nel 2009 con Zucchero e Dodi Battaglia ad accompagnare Irene Fornaciari (nella serata dei duetti, nda). Ma in gara l’ultima volta è stata con Dik Dik e i Camaleonti.

Eppure qualche anno fa sembrava che con Shapiro foste in lizza…
Forse era un’idea di Shel che aveva tutte iniziative private e segrete, ma io non so.

Con Shel hai fatto un inciso il disco Love and Peace e siete pure andati in tour. Come ti sei trovato?
(Ride) La prossima domanda?

Dai…
Dirlo è un casino, perché Shel è un ottimo compagno di concerti, ma ha un carattere, ragazzi… trova sempre qualcosa che non va… nel live siamo andati d’amore e d’accordo, ma non siamo mai andati a cena per i cazzi nostri, magari mangiavamo qualcosa insieme nello stesso ristorante.

Visto il nuovo libro e il nuovo disco arriviamo a Lucio Battisti. L’hai lanciato tu o no?
Quando dici il nome Battisti subito domandano «Adesso non ci dirai che lo hai scoperto tu?». Ti dico solo una cosa: Lucio l’ho portato io in Ricordi, in macchina, pagando il viaggio e presentandolo a Mariano Rapetti, padre di Mogol. Quindi magari mi aspettavo la gratitudine della banca di entrambi, sia della Ricordi che di Battisti. Quindi io Battisti non l’ho scoperto, l’ho portato personalmente nell’ufficio di Mariano e lui è uscito con il contratto firmato. Avevo intuito il talento, per questo l’ho accompagnato lì.

Siete rimasti amici, con Battisti?
Agli inizi ha passato settimane a dormire a casa mia, collaboravo nei suoi pezzi, agli arrangiamenti di Un’avventura, in Pensieri e parole l’effetto iniziale l’ho fatto io. Ho collaborato, suonato la chitarra, in 10 dei 13 pezzi che ho inserito nel nuovo album.

Battisti quando ti ha dato 29 settembre?
“Seduto in un caffè…” (canta e poi si ferma e ride, nda). Dopo aver sentito un centinaio di brani, non ne avevo mai inciso uno suo. Un giorno mi fece sentire davanti a un pianoforte, alla Ricordi, 29 settembre. Quando arrivò al punto “E all’improvviso lei sorrise” gli chiesi fermarsi e ricominciare. Alla fine gli dissi «Questo lo incido io».

E lo hai fatto.
Cacchio se l’ho fatto. Arbore disse che avevamo ucciso il beat. Fu un cambio per noi e il beat non si sentì più.

Che mi dici di Mogol?
A cantare i brani di questo CD mi sono commosso tre o quattro volte. Cantando le canzoni mi sono reso conto di quello che scriveva Mogol…

E cosa scriveva?
Scriveva dei film, il cervello recepisce immagini, non parole.

Chi è oggi il nuovo Mogol? Ha un erede?
Non te lo so dire, ma Beppe Dati che scriveva con Giancarlo Bigazzi faceva anche lui testi da paura. Poi, sai, io parto dalla musica, sono musicista e ascolto subito l’armonia. Al testo arrivo in un secondo tempo.

È vero che hai accompagnato Battisti al Cantagiro prima della sua esibizione in Acqua azzurra, acqua chiara?
Sì, mi chiese di accompagnarlo e dietro le quinte del Cantagiro rimase attaccato al mio braccio fino a che non lo chiamarono. Poi si esibì, scese dal palco, e mi disse «Mauri’, non me ferma più nessuno». Aveva ragione.

Da lì poi che successe?
Quando andò alla Numero Uno non lo sentii più. Mi arrivò solo una telefonata quando, nel 1989, vinsi il programma Una rotonda sul mare. Mi disse, testuali parole: «A Mauri’, questo è quello che intendo io per rivisitazione». Clic. Non mi fece parlare. Se avesse sbagliato numero non se ne sarebbe accorto. Però lo capisco…

Come mai?
Non voleva correre il rischio gli chiedessero di scrivere canzoni, era un uomo ricco, aveva delle paure, come pagare il caffè…

Era tirchio?
Non sono riuscito a farmi pagare il caffè (ride).

Parliamo di amore. Tu sei stato con la modella Anita Pallenberg, che ha avuto love story anche con Brian Jones e Keith Richards dei Rolling Stones…
Ci fu una storia breve. Poi seppi dai giornali che stava con uno, con un altro…

Perché vi siete lasciati?
Quando stavamo insieme, una mattina, mi dice che deve andare a Londra. Le domando quando sarebbe tornata e, dopo una pausa un po’ lunga, ammise che non sarebbe tornata. Era una donna libera. L’ho rivista tempo dopo a casa di amici, entrò nella stanza dove c’ero io e non mi cagò per un cazzo. Era con Brian Jones che, tra l’altro, mi si sedette vicino a raccontarmi la rava e la fava, ma io pensavo «perché Anita non mi saluta?».

Che hai fatto allora?
Sono andato nell’altra stanza, lei parlava con delle persone, le domando: «Non mi saluti?». Lei risponde «Credevo ti fossi dimenticato di me». Ma come facevo a dimenticarmi?

Oltre a lei con quali donne famose hai avuto una relazione?
Anche se non sono politicamente corretto, perché devo beccarmi una denuncia?

Mi racconti come finì l’avventura dell’Equipe 84?
Doveva finire. Io mi misi a fare il solista quando la band era già frantumata: Alfio (Cantarella, nda) si era beccato qualche mese di galera perché lo avevano beccato con un quantitativo di hashish, Franco (Ceccarelli, nda) andò in India… ognuno faceva come cazzo gli pareva. La Rai non ci voleva più e mi chiesero di cambiare nome. Scelsi Nuova Equipe 84. La accettarono. Con noi suonò Franz Di Cioccio, Dario Baldan Bembo. Poi lasciai la formazione e tutti misero in piedi gruppi che si chiamavano Equipe 84: c’era confusione. Se è difficile stare con una donna tutta la vita, pensa a stare con tre uomini… Una volta mi fanno: «Ma perché inquadrano sempre te?». E io: «Forse perché canto?».

Nel mondo della discografia chi ricordi positivamente e chi no?
Positivamente tutte le persone che hanno fatto qualcosa di bello per me, per il resto ho la fortuna di dimenticarmi chi mi ha rotto le palle. Certo, qualcuno ha fatto qualcosa che non andava, compreso qualcuno dell’Equipe 84. Nel mondo artistico ci sono reazioni esagerate su tante cose. Per cui non si capisce, delle volte, se si sta parlando di cose serie o se sono tutti dei pagliacci, me compreso.

Ora funzionano tanto i featuring tra star della musica e nuove leve come Orietta Berti e Fedez e Achille Lauro o Ditonellapiaga e Rettore. Tu con chi vorresti duettare?
Noi eravamo i Måneskin degli anni ’60 e forse loro sono l’Equipe 84 di adesso. Se mi dicessero di fare qualcosa, perché no? Loro fanno canzoni molto belle.

Che mi dici dei talent show?
Tanti pro e tanti contro. I nuovi artisti vengono gestiti dalla tv, i discografici sono costretti ad andare all’ultima puntata di questi programmi per accaparrarsi un cantante. È una cosa un po’ pericolosa. Ai miei tempi le band arrivavano dalle cantine, facevano la solita routine. Adesso chi vince è il nuovo grande artista italiano o tenta di esserlo. Non mi convince molto, ma se questo è il futuro in cui sto vivendo, va bene.

Come ti vedi oggi?
La versione anziana di quello che ha fatto tutte le cose che ti ho raccontato.

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