A 70 anni, Stewart Copeland appare in una forma fisica clamorosa, e questo mette in soggezione quasi quanto il suo prestigio di musicista. A questo si unisce il fatto che, per quanto molto gentile, è una di quelle persone che quasi sempre finiscono per essere la persona più intelligente della stanza. Ciò che la gente sa di lui, ovvero che per pochi anni è stato il batterista di uno dei gruppi di maggior successo di sempre, è una piccola parte della vita di un uomo altamente funzionale, curioso e apparentemente instancabile. Una sua biografia stringata sacrificherebbe molti aspetti di un’esistenza davvero peculiare a partire dalla vita familiare, col padre alto funzionario della CIA, la madre scozzese insigne archeologa (e spia pure lei, tipo The Americans), due fratelli coinvolti nella diffusione di tantissima musica (abbastanza importanti da aver pubblicato entrambi un’autobiografia), sette figli, un legame ancora molto forte con il Paese in cui è cresciuto (il Libano).
La sua vita artistica invece rimbalza tra colonne sonore di film e serie tv molto note, videogiochi, supergruppi come i Gizmodrome con Vittorio Cosma, Mark King (Level 42) e Adrian Belew. E opere. «Non opere rock, odio quell’espressione», specifica. Rimarcando che The Witches Seed, che debutterà il 22 e 23 luglio al Tones Teatro Natura di Oira Crevoladossola (VCO) sarà un’opera interamente in inglese fatta di diversi stili musicali. «Non quello dell’opera classica perché non sono morto da 200 anni», puntualizza. A eseguire la sua musica ci sarà un’orchestra diretta da Eìmear Noone, canzoni di Chrissie Hynde, la voce di due soprani e quella di Irene Grandi, che presenta come «la nostra diva». Molti elementi fanno supporre un clima cupo e fantasy alla Game of Thrones, con effetti speciali fantasmagorici – anche se il libretto di Jonathan Moore si basa sulla realtà documentata della persecuzione di donne che negli anni dell’Inquisizione in Europa desideravano essere indipendenti, ricavandone l’accusa di stregoneria e la condanna al rogo. La produzione, dell’italiana Tones On The Stones, ha un evidente respiro internazionale e l’intenzione è di portare il progetto anche all’estero, in luoghi naturali suggestivi quanto quello scelto per il debutto, una ex cava di marmo circondata dai boschi e nei pressi di un fiume.
Non è la prima esperienza di questo tipo per te. Cosa ti piace di questi progetti?
È sempre una cosa molto divertente e stimolante per un musicista. Anche se ogni volta che mi chiedono cosa sto facendo, quando rispondo «sto scrivendo un’opera», la conversazione muore all’istante. Devo dire che è molto appagante essere venuto in Italia per realizzare un’opera, anche se immagino risulti bizzarro che sia in inglese. Ma perlomeno eviterà che qualcuno abbia la pensata di fare paragoni con Verdi e Puccini. Amo la loro musica, ma non è davvero quel tipo di cosa, il mio lavoro è stato dare al regista una musica che inducesse nel pubblico le emozioni desiderate, e sviluppasse la musicalità del libretto di Jonathan Moore. Poi ci sono le canzoni di Chrissie Hynde, che ha risposto con entusiasmo, credo sia stata una scelta impeccabile per canzoni che descrivessero donne che si ribellano alla repressione cui sono sottoposte, e decidono di combattere. Sono accusate di essere streghe… Ma se lo fossero davvero?
Alcune immagini della presentazione suggeriscono questa possibilità.
(Con fare ironicamente misterioso) Succederanno cose.
Alla musica in generale invece cosa sta succedendo, Maestro?
Ah, che dire. Vediamo… Per anni abbiamo pensato che la musica fosse un susseguirsi di cicli che ripresentavano elementi simili, ma oggi la ruota non c’è più, e quello che sembra un ritorno di qualcosa che c’è già stato, sotto sotto non lo è veramente. Oggi la musica mi sembra casomai un universo in espansione. Anche se in questa fase è soprattutto un’industria che ruota attorno a quella della moda. Però siccome ci sono dentro da molto tempo, continuo a trovare tutto interessante. Soprattutto perché non puoi banalizzare applicando dei principi generali che hai già visto. A volte puoi isolare alcuni aspetti di un fenomeno o di un genere, ma non tutti, non c’è mai una spiegazione semplice. Da un lato hai modalità che stanno sopravvivendo molto a lungo senza mutazioni radicali come l’hip hop o il reggaeton. E questo è abbastanza inedito. Nel contempo, io mi sono ritrovato a discutere con Paul McCartney e Ringo Starr, che erano i punti di riferimento della mia generazione, ed entrambi mi hanno detto che niente di quello che facevano nasceva con la speranza di durare per anni se non decenni. Snap, snap, idee veloci, che vadano bene ora, poi passeremo ad altro. E in questo quindi sembrerebbe un ritorno a qualcosa di già visto. Altra cosa: sia oggi che sessant’anni fa, pochi di noi avrebbero ascoltato la musica dei genitori, mentre trent’anni fa era accettabile.
Tu però nella tua autobiografia hai raccontato che ascoltavi le big band, il jazz che sentiva tuo padre – e Stravinskij perché lo sentiva tua madre.
Sì, ma quel punto anche se ero giovanissimo non ero più un semplice ascoltatore, ero già un appassionato, ero nello stadio che mi avrebbe portato a diventare un musicista professionista, tant’è vero che il mio amico Stanley Clarke dice che sono cresciuto col jazz sbagliato – lo sentivo soprattutto per imparare. Io qui sto parlando di teenager che vogliono fare altro però amano ascoltare musica.
Tu, in qualità di rhythmatist, eri all’opposto di quello che sembra il ruolo concesso al ritmo oggi – una base, una ripetizione reiterata. Hip hop e reggaeton mi sembrano aderire a questa idea.
Tutti i miei amici odiano quella musica come mio padre odiava Beatles. Ma sono sicuro che non esista un genere musicale migliore di un altro, in ogni genere ci sono 10% di cose buone e 90% di schifezze, e il fatto che ti arrivi qualcosa che fa parte del 10 o del 90% dipende da tanti fattori. Forse alcuni generi permettono più qualità, posso arrivare a un 25% per il reggae, forse a un 50% per il pop.
Parlando di reggae e di pop, immagino che negli ultimi 40 anni ti abbiano fatto più domande sui Police che non sulla musica che hai fatto dopo, che è tantissima.
Lo trovo assolutamente normale. La musica che ho fatto dopo ha avuto molti ascoltatori, anche grazie a film che sono stati visti da milioni di persone. Ma i Police sono stati un fenomeno.
Quando leggo le ricostruzioni della musica che ha segnato l’epoca post punk, ho la sensazione che ci sia un certo compiacimento nel lasciarvi fuori.
Da parte dei critici, dici? Può darsi. Gli inglesi lo fanno. Anche gli italiani?
Gli italiani non osano mai mettere in discussione i critici e giornalisti inglesi.
A un certo punto siamo andati al numero uno in America e ci siamo rimasti per due mesi nel momento in cui Michael Jackson aveva pubblicato Thriller. Quando arrivavi a quello stadio, i critici non erano più sereni nel valutarti, doveva per forza esserci qualcosa di sbagliato. Ma posso garantirti che molti artisti amati dalla critica avrebbero volentieri scambiato le cinque stelle dei critici per i nostri dischi di platino, i nostri sold out – e i nostri Grammy Awards. Se oggi qualcuno vuole scrivere la Storia senza i Police, non è la Storia – è una storia. Ma questo onestamente non mi tiene sveglio la notte.
C’è qualcosa che rimpiangi riguardo ai Police?
Sì, qualcosa c’è… Rimpiango che all’epoca non fossimo in grado di capire le reciproche motivazioni. Quello che vivevamo come gelosia – specie da parte mia – o come una battaglia tra ego, in realtà era una differenza di sensibilità musicale molto più profonda. Oggi, per averne parlato a lungo con lui, so che Sting sentiva che le sue canzoni dovessero suonare in un certo modo, la nostra era una genuina contrapposizione di modi di concepire la musica. La sua crescita come autore lo aveva portato a un livello di perfezionismo che rendeva la nostra interazione diversa rispetto ai primi due dischi.
Ho il bootleg di un vostro concerto a Milano, ero troppo piccolo per venirvi a vedere ma è un concerto di cui si è parlato per anni nella mia città – il tour di Reggatta de Blanc.
Ah, sì. Mi pare che suonammo anche a Reggio Emilia. Grande accoglienza.
Tuttora trovo stupefacente il vostro suono dal vivo di quella fase, anche più di quello dei dischi ufficiali.
Era il suono di una jam band – ti piacciono le jam band?
In realtà, no.
Ah. E allora cos’ha di stupefacente?
Trovo affascinante il modo in cui prendevate una canzone pop-rock che sembrava strutturata, e la dilatavate in qualcosa di diverso, portandola in una specie di spazio misterioso.
Furono i concerti di quel periodo a farci capire che suono volevamo, ci indussero a smettere di osservare tutte le regole del punk. Ironicamente, il punk che era nato come musica della ribellione, aveva un sacco di regole – pezzi brevi, chitarre, riff, niente canzoni d’amore… In quei live i Police scoprirono di avere un loro suono, abbastanza unico. Ognuno portava qualcosa da fasi attraverso cui era passato, nel mio caso il jazz ma anche il reggae, mescolato a influenze arabe – non sono mondi ritmicamente molto lontani – e persino il prog dei Curved Air. Per Sting e Andy il jazz o il prog o il rock… Poi sai, un altro buon motivo è che quando hai poche canzoni, è una buona idea allungarle per non ritrovarsi a chiudere lo show dopo un’ora. Però fu lì che ognuno di noi portò nella musica della band qualcosa di diverso, che veniva dalla sua formazione. E in ogni caso, non faccio per dire, ma tecnicamente bisognava saperlo fare. Non credo che molte punk band potessero.
Prima di questa intervista ho guardato il tuo documentario, Everyone Stares, e quello di Andy Summers, Can’t Stand Losing You. Il suo è molto più sofferente, come sottotitolo ha “sopravvivere ai Police”.
Sì, ad Andy piace questo taglio (sorride con una piccola ma percettibile sfumatura di scherno).
In molte delle immagini si ha la sensazione che nei mesi prima dello scioglimento del gruppo ci sia tra tutti voi una tensione anche molto fisica.
Non mi pare. Casomai della freddezza.
Ma per esempio c’è quell’intervista a Mtv in cui Sting ti tira un bicchiere in faccia – tu ti alzi come per ucciderlo e correte a menarvi lontano dall’obiettivo…
No! Quella era pura farsa. La tensione vera si sostanziava nel non parlarsi e non toccarsi. In quella occasione invece era buffoneria. Guarda, successe persino di peggio: prima di un nostro concerto decisivo allo Shea Stadium di New York, gli provocai una piccola frattura alla costola. E questo perché facevamo i cretini, stavamo lottando su chi dovesse leggere per primo il New York Times, tutti e due aggrappati a tirare il giornale per strapparlo all’altro. Si fece male e ovviamente mi accusò di essere un idiota – fino a un minuto prima stava tirando esattamente come me. Però suonammo in modo fantastico, anche se aveva una costola rotta. La cosa che può realmente creare una tensione terribile tra me e Sting è discutere su come suonare un nostro pezzo. Ma se non ci fosse questo aspetto ti direi che abbiamo un rapporto eccellente. Sappiamo di non essere fatti della stessa pasta e lo accettiamo. Nello stesso tempo, nessuno dei due ha voglia di una reunion perché comporterebbe conflitto, benché quel conflitto sia stato un ingrediente-base della nostra musica, era la sfida interna a quei dischi. Senza, suonerebbero diversi. Se gli avessi sempre detto sì, non avremmo avuto gli stessi risultati. Molti gruppi ottengono risultati senza conflitti, per noi era l’unico modo di ottenerne.
Ti piace la sua musica?
Preferisco rispondere «non è quello che farei io». E infatti non lo faccio. E non solo perché lui ha un talento unico e sorprendente che io non ho, e tuttora mi impressionano le sue melodie e le sue parole. Facciamo musica che viene da regioni molto diverse della nostra personalità. Inoltre sento che vuole allontanarsi da quello che ha già fatto, soprattutto soffre la nostalgia della gente per le sue canzoni pop. Odia la nostalgia in generale, mentre io come musicista considero fondamentale ogni emozione che il pubblico ama provare, e la nostalgia è una delle più forti. È una componente che deve coesistere con la voglia di nuove scoperte e nuove emozioni, dovrebbero sempre bilanciarsi.
Hai nostalgia di qualcosa che nella musica non c’è più?
Non sarebbe sensato, quella musica c’è ancora, non se n’è andata. Quando la mia figlia più giovane è con me, specialmente in macchina, ascolto tutto quello che ascolta lei, e molte cose mi piacciono un sacco, da Kendrick Lamar al K-pop – c’è questa canzone delle Momoland che si chiama Yummi Yummi Love, è adorabile (si mette a cantare). La senti, ti ritrovi a cantarla e sei contento. Inoltre per me è un esercizio intellettuale oltre che professionale capire cosa funziona in quella musica e apprezzare quegli elementi. Ciò non toglie che appena mia figlia scende dalla macchina, ok, rieccomi ad ascoltare ZZ Top e Stevie Ray Vaughan.
E questo perché?
Perché è il linguaggio cui sono più abituato e ci trovo una verità che mi arriva più facilmente. Il mio genere preferito è il blues, mi piacciono la sua semplicità e onestà: in tre note devi far sentire una sofferenza che non puoi fingere. Ma questo non mi fa dire che è una musica superiore al pop contemporaneo, ha solo premesse diverse. Negli ultimi anni le cose che hanno fondato la musica popolare per mezzo secolo, il backbeat e la chitarra e la batteria, sono state tolte di mezzo per motivi funzionali. Kendrick Lamar è il proprio stesso strumento. Non penso che la mancanza di basso e batteria lo rendano insincero, rispetto all’utilizzo dello studio di registrazione o dei sample. La sua musica fa battere il cuore di mia figlia quindi ha una sua verità. Ma a far battere il mio cuore è Jimi Hendrix e non c’è niente di sbagliato in questo.