Venti Grammy in dodici categorie diverse, decine di album con diverse band e da solista, colonne sonore, collaborazioni con mostri sacri come Ornette Coleman e Steve Reich: nel corso di 50 anni di carriera, Pat Metheny ha fatto di tutto e si è tolto praticamente ogni soddisfazione possibile. Come fare, allora, a continuare a scrivere musica senza ripetersi, a restare rilevante? La risposta, nel caso del chitarrista, è arrivata da Ron Carter, leggenda del contrabbasso e storico collaboratore di Miles Davis, che durante un viaggio gli ha raccontato come lavorava il trombettista all’epoca di album memorabili come E.S.P. e Nefertiti:lunghissimi tour in cui costringeva la band a suonare sempre lo stesso repertorio, alternati a session in studio con materiale mai visto prima.
Metheny non se l’è fatto ripetere due volte, e ha provato a fare la stessa cosa con la sua band (Antonio Sanchez alla batteria, Linda May Han Oh al basso e Gwilym Simcock al pianoforte). A un certo punto delle registrazioni, però, ha deciso di andare ancora oltre e sfruttare i vantaggi del digitale, inserendo negli arrangiamenti l’orchestra. Il risultato è From This Place, uscito il 21 febbraio, che Metheny ha presentato come «l’album che ho aspettato di realizzare per tutta la vita» e che ci ha raccontato in un’intervista registrata lo scorso novembre.
Hai definito questo album il culmine musicale della tua carriera. Cosa te lo ha fatto pensare?
Beh sai, sono in giro da moltissimo tempo, faccio dischi da praticamente 50 anni. Alcuni musicisti passano la carriera cercando di reinventarsi continuamente. Per me è diverso, vedo la mia musica come un flusso continuo, senza interruzioni o cambi d’identità. La differenza è che ora ne so molto di più: conosco meglio la musica e in questo disco mi sono sentito capace di rappresentare al meglio la cultura che mi circonda, e anche il rapporto con i musicisti che mi accompagnano. Il disco è il risultato di un periodo molto intenso di concerti, circa due anni, in cui abbiamo suonato centinaia di date. L’idea iniziale dell’album era fissare il senso di comunità che si è creato tra di noi. Poi, e questa è stata una sorpresa, l’album è esploso in un progetto su scala più grande. Alla fine credo che siamo riusciti a ottenere il meglio di due mondi diversi: da una parte la band, che ha registrato in maniera spontanea, dall’altra le orchestrazioni, che sono frutto di un lavoro più riflessivo. È una cosa che non avevo mai fatto in maniera così estesa, ma che ammiravo nei dischi di altri artisti.
Per esempio?
Sicuramente gli album della CTI di fine anni ’60, un periodo molto particolare: musicisti come Wes Montgomery e Hubert Laws hanno registrato per questa etichetta, e i loro album venivano orchestrati in un secondo momento da maestri come Don Sebesky. From This Place è collegato a quel periodo, ma il contenuto musicale è differente. Le composizioni sono super moderne, e i musicisti che le suonano non sono turnisti scelti all’ultimo momento, ma una band che suonava insieme da anni. È un ibrido che riflette il mio percorso, molta della musica che ho sempre amato e il modo in cui era registrata. È un album molto speciale per me.
Ho letto che hai lavorato a questo disco con “il metodo Miles Davis”. Di cosa si tratta?
Nel corso degli anni ho lavorato diverse volte con Ron Carter, abbiamo suonato insieme e viaggiato molto. L’occasione era perfetta, ho potuto fargli tutte le mie domande da fan, e non solo su Miles! Se dovessi elencare i miei 20 album preferiti, Ron avrà suonato su almeno 12. Wes Montgomery, Kenny Burrell, Hubert Laws… Gli ho chiesto: “Perché non suonavate mai dal vivo i brani di E.S.P.?”. La scaletta era sempre la stessa: Autumn Leaves, Joshua, Stella, My Funny Valentine, tutti gli standard. Suonavano quel set anche mentre registravano Nefertiti, e mi sono sempre chiesto perché. Lui mi ha detto: “Miles faceva così: voleva che suonassimo gli standard, così da sviluppare un modo nuovo di interpretarli ogni sera e arrivare in studio con tante soluzioni a disposizione per le nuove composizioni”. Quando ho scoperto questa cosa avevo già suonato 250 concerti con l’attuale formazione, e stavo cercando di capire cosa fare, come registrare questo disco. Quella storia ha cambiato tutto, ho pensato: “Farò così. Scriverò nuova musica, ma non la farò ascoltare agli altri. Andremo in studio e applicheremo tutta l’esperienza che abbiamo accumulato sul palco a questa musica”. È andata così.
Ha funzionato?
Sì! Ma c’è una differenza. Mentre lavoravamo con questo metodo, ho iniziato a pensare alle orchestrazioni. La musica che avevo scritto era… un po’ cinematografica. Non mi sembrava giusta per il quartetto, era come se suggerisse qualcosa di diverso, ma non sapevo cosa. A un certo punto l’ho capito, e ho iniziato a chiedere agli altri di lasciare degli spazi vuoti.
Non dev’essere stato facile per gli altri musicisti…
Credo fossero confusi, ma alla fine sono riuscito a spiegarmi. Usavo un’analogia con i film della Marvel. Moltissime scene di quei film sono girate con il green screen, in una stanza vuota, con il regista che dice: “Poi da lì viene fuori un mostro, e dovete reagire”. In un certo senso abbiamo fatto la stessa cosa. E poi… mi sento quasi obbligato a preparare delle sfide per alcuni musicisti. Antonio (Sanchez, batterista, nda), per esempio, è così. Ogni volta che lo vedo costretto a studiare un brano e a esercitarsi, penso: “Missione compiuta” (ride).
Parliamo della title track. L’hai scritta il giorno dopo le elezioni del 2016: cosa ti ha portato a scrivere un pezzo politico? E che impressione ti fa ascoltarlo adesso, tre anni dopo?
Con il tempo ho imparato a mettermi nelle condizioni di poter reagire musicalmente a input di tutti i tipi. Sono super consapevole di quello che succede attorno a me. Lo sono a livello politico, è sempre stato così, ma anche a livello culturale, famigliare eccetera. Riascoltare quel brano adesso, con una certa distanza da quella giornata, mi ha fatto capire che tutto quello che mi succede, tutto quello che provoca una reazione musicale tende a scomparire, mentre resta solo quello che trascende quel momento. Questa trascendenza è ciò che rende la musica, beh, musica. Detto questo, quella mattina è stata devastante. Quello che è successo… alla Casa Bianca è arrivato uno stronzo. Non è solo un orrendo essere umano, ma un vero criminale, ed è diventato presidente per un cavillo tecnico di cui non ci siamo ancora liberati. Il nostro Paese è ancora una grande idea, forse la migliore in assoluto. David Bowie l’ha definito “il cielo più grande”, e aveva ragione. Forse un giorno riusciremo a realizzare le promesse nascoste in quell’idea, e sarà fantastico, ma ora siamo in uno stato infantile. E sai, non è insolito fare un passo in avanti e dieci indietro. Dopo Obama pensavamo: “Oh, eccoci, ce l’abbiamo fatta!”. Beh, non è andata così. Il cambiamento è un processo doloroso, che richiede il contributo delle persone che hanno una visione del futuro, che hanno un’idea di cosa sia la speranza. Gli americani sono bravi anche in questo.
La frase di David Bowie che hai citato è nel testo un’altra canzone politica, This Is Not America, che avete scritto insieme. Credi sia ancora rilevante?
È un brano ancora molto rilevante. È strano pensarci, perché sono tornato a suonarla di recente e non lo facevo da tempo. L’ho suonata da solo, ovviamente, ed è straordinario come il pubblico risponda a quel brano. E non parlo solo del pubblico americano. Forse è più rilevante adesso rispetto al momento in cui l’abbiamo registrata. Il film per cui l’abbiamo scritta parlava dell’era post-Vietnam, e ora siamo in una sorta di epoca post-post-Vietnam, un periodo difficile da definire. Ma insomma, oggi è chiaro quali siano i pericoli del potere, non solo in America. Anche voi in Italia avete i vostri problemi, no? Dobbiamo essere vigili.