Patti Smith non soffre di claustrofobia, ma l’ultimo anno è stato un’eccezione, con la pandemia che l’ha bloccata nella sua città. «Non ho lasciato New York per più di un anno, è il periodo più lungo da quando i miei figli sono diventati grandi», spiega. «Non sono abituata a stare ferma a lungo nello stesso posto. Ma ho passato gran parte del tempo a scrivere».
Ora che il mondo sembra ripartire, la musicista è pronta a tornare sul palco. Negli ultimi mesi ha fatto una manciata di show a New York e quando le abbiamo parlato si stava preparando a due performance, il 22 e 23 maggio, per lo Spring Festival del Kaatsbaan Cultural Park, che trasformerà in parte in una celebrazione per l’80esimo compleanno di Bob Dylan, che cadrà il 24 maggio.
Facciamo un passo indietro: com’è stato il tuo ultimo show prima delle chiusure?
Tra gli ultimi che ho fatto c’è stata una grossa serata a Los Angeles, per il festival di Herbie Hancock. Aveva un’impostazione politica. Poi siamo andati a San Francisco e abbiamo suonato in uno dei miei posti preferiti, il Fillmore West, un luogo storico. Sali gli scalini di metallo che portano al palco e pensi a Jerry Garcia e a tutte le altre persone che hanno fatto lo stesso prima di te.
Eravamo sul punto di partire per un tour mondiale, avevo le valigie pronte per l’Australia. Dovevamo fare uno show a Seattle, ma è stato cancellato mentre eravamo già in città. Siamo tornati a casa, ci aspettavamo di andare in quarantena e tutto il resto, ma ovviamente nessuno si sarebbe aspettato che saremmo rimasti senza lavoro per un paio d’anni.
Su cosa ti sei concentrata in tutti questi mesi?
Sono fortunata perché sono una che riesce a scrivere ovunque sia. Non ero però abituata a farlo a casa, perché sono una viaggiatrice. La cosa più difficile non era non poter suonare, ma restare tanto tempo nella stessa città. È la mancanza di contatto fisico a pesarmi. Non vado in palestra, non faccio niente del genere. Insomma, ho quasi 75 anni, faccio tre o quattro concerti a settimana. È quella la mia attività fisica, il mio esercizio. Mi manca molto.
Detto questo, sono fortunata perché pratico altre discipline. Sono riuscita a scrivere, fotografare e tenere la mente allenata. Ma so che per la mia gente, per i musicisti, è stata dura. Soprattutto per chi dipende dai tour sia per ragioni economiche che creative. Io invece non posso lamentarmi, avevo tante altre cose da fare.
Vivi a New York da moltissimo tempo, hai visto la città dopo l’11 settembre e dopo l’uragano Sandy. Come sta andando il ritorno della musica post Covid?
Non sono preoccupata per New York, ma per il resto del mondo. New York troverà il modo di tornare. Questa è una situazione globale senza precedenti, perché riguarda tutto il pianeta, tutti soffrono allo stesso modo… New York si è sempre reinventata ed è sempre sopravvissuta. Sono ottimista. Credo sia importante esserlo, così come riuscire ad adattarsi. Dobbiamo farlo, niente tornerà magicamente come prima. Dobbiamo anche essere pazienti, creativi, trovare un modo per ripensare il mondo.
Sei tornata da poco sul palco. Com’è andata?
Beh, ho fatto solo due cose. Una al Brooklyn Museum per i lavoratori, e due show al City Winery, una piccola serata con mio figlio Jackson e il pianista Tony Shanahan. Ammetto che è stato difficile. Dovevo togliermi di dosso un po’ di ruggine. E poi sono una performer viscerale, sono abituata ad avere il pubblico sotto al palco, a interagire fisicamente con loro, anche solo stringendo mani. Adesso è importante fare piccoli passi, ritrovare la strada, rifare i muscoli necessari a esibirsi.
Per riuscirci bisogna lavorare un poco per volta. Io, però, vengo da un’altra epoca. Sono una performer irriverente. Amo la mia gente, ma mi piace che le cose siano… non dico pericolose, ma scalmanate. Anche quando faccio un evento legato a un libro c’è sempre un po’ di contatto fisico. Anche stare in piedi e leggere un libro può essere un’esperienza coinvolgente.
Suonare dal vivo, adesso, richiede comprensione, compassione e disciplina per via delle nuove regole. Per esempio, a me piace stare in mezzo alla gente, firmare autografi fuori dal locale. Quando canto, accumulo molta saliva. E sin dagli anni ’70, sputo. La gente pensava che lo facessi per sembrare più tosta. Ma dipende dal mio modo di cantare. Sono fatta così, ma adesso devo trattenermi. Ho scoperto che è difficile. Insomma, è questo che intendo quando dico che questo è un mondo nuovo. Devo ancora capire come adattarmi a questa nuova epoca.
Stai per esibirti in un festival. Cosa hai in mente?
Sono entusiasta perché è il primo evento all’aperto dopo il lockdown, mi piace suonare all’aperto. Amo i grandi teatri, ma anche l’energia degli spazi aperti. E questo festival è in un posto splendido. È a Tivoli, New York, un luogo pieno di storia. È grande e bellissimo. È anche un bel periodo dell’anno. Non so se lo sai, ma una volta era il maneggio dei nonni di Eleanor Roosevelt.
Ho sempre voluto fare qualcosa qui, qualcosa di piccolo e speciale. E mi sono resa conto che il concerto sarà due giorni prima del compleanno di Bob Dylan. Fa ottant’anni. Così ho pensato che sarebbe bello fare qualcosa per Bob. Suoneremo cinque o sei sue canzoni, qualcosa di mio e qualche poesia. Ne ho scritte un paio per Bob, quando era giovane. Mi inventerò qualcosa di speciale.
Puoi raccontarmi la prima volta in cui hai incontrato Dylan?
Era il 1974, credo, era venuto a sentirci. Forse era al Bitter End, a New York. Non avevamo un contratto discografico, niente del genere. Facevamo un concerto e lui è venuto ad ascoltarci. Poi è venuto nel backstage. Io amavo Bob Dylan da quando avevo 16 anni,e all’improvviso me lo sono ritrovato davanti. È entrato nel backstage e ha detto: «Ehi, ci sono poeti in giro?». Io ho risposto: «La poesia non mi piace».
Ero come quei ragazzini del liceo che fanno i cattivi con le ragazze che gli piacciono davvero. Mi comportavo così. Lui aveva un gran senso dell’umorismo e alla fine siamo diventati abbastanza amici. Credo che il suo supporto alla mia band ci abbia aiutato a trovare un contratto, l’avevano notato tutti.
C’è qualcosa che vorresti dire a tutti i performer che stanno tornando in scena dopo il lockdown?
Penso molto ai ballerini, agli attori e al teatro, a chi lavora lì. Sono sicura che tornare sul palco sarà splendido per i cantanti d’opera, sarà emozionante. Ma è una sfida. Il distanziamento sociale è complicato, così come ritrovare il ritmo. Ma non è niente di diverso da chi torna a cavallo dopo un po’ di tempo, la prima corsa è sempre problematica. Con la seconda o la terza, invece, ti sembra di volare sul deserto.
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.